Tangentopoli 20 anni dopo. Questione morale, valore negoziabile

Sergio Tanzarella (*)
Adista, n° 13/2012

Era l’autunno del 1995 e ho ancora davanti agli occhi gli sguardi sconcertati di Romano Prodi e Giancarlo Lombardi quando, arrivato il mio turno, dissi che ero un semplice credente senza tessere né di partito né di movimenti o associazioni cattoliche e che avevo sempre svolto il lavoro umile – ma non umiliante – di insegnante di provincia, prima di diventare deputato, e che avrei ripreso quel lavoro appena finito quel compito per me provvisorio.

Eravamo a casa di un noto medico romano che aveva organizzato un incontro tra un gruppo di rappresentanti, a suo dire, del “mondo cattolico” impegnati in Parlamento o aspiranti ad entrarci. Vi erano uomini di molte sigle, gente che aveva fatto carriera a livello nazionale nell’associazionismo e nel volontariato cattolico (Movi, Focolarini, Acli, Agesci, ecc.), molta gente che non aveva mai fatto un lavoro comune, ma che aveva ricoperto cariche di presidente, vicepresidente, segretario nazionale e altro ancora, molti che avevano fatto del volontariato il proprio redditizio impiego. Prodi stava decidendo di entrare in politica e compulsava così le adesioni di pregio. Non ricordo se ci fosse anche Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita, certo c’erano molti suoi sosia.

Non ci volle molto per convincermi che in quel salotto c’ero finito per sbaglio. Si cominciò ad affermare quanto fosse necessaria l’appartenenza associazionistica per garantire il ricambio alla politica, per rompere con quella corruzione che si riteneva affossata definitivamente con le inchieste degli inizi degli anni ’90. Vi era molto entusiasmo e la convinzione che la rappresentanza dei vertici dell’associazionismo cattolico, del volontariato e del terzo settore avrebbe costituito una garanzia e avrebbe tranquillizzato la Cei e gli inquilini di Oltretevere. In quel salotto tutti conoscevano un mucchio di gente: rettori, direttori generali, giornalisti di fama, banchieri, cardinali. Andai via che era sera con la scusa che partiva l’ultimo treno per casa e con questo fornii ai convenuti la conferma del parlamentare provincialotto e pendolare.

Non ci volle molto tempo per vedere all’opera diverse di quelle persone e il loro grado di spregiudicatezza politica. I vertici dell’associazionismo cattolico alla prova dei fatti mostravano un cinismo e un opportunismo superiori a quelli delle generazioni dei politici professionisti che li avevano preceduti. Tirar fuori la questione morale divenne in quella seconda metà degli anni ’90 estremamente rischioso. Più volte mi fu detto che occorreva turarsi il naso, che il fine giustificava qualsiasi mezzo, che ciò che contava era il consenso e avere un voto in più dei nostri nemici, che tra morale e politica non vi erano rapporti. A me questa storia dei nemici e della immoralità necessaria della politica, che avevo già sentito ai tempi della Democrazia Cristiana dei Pomicino e dei Gava, non convinceva, e i metodi della politica assunti da alcuni dei convenuti, ferventi e fedeli cattolici, del salotto romano mi apparvero in nulla diversi da quelli tanto utilizzati dalle pratiche di quei partiti che a parole si diceva di voler far dimenticare. Qui non si trattava ancora di reati penali, di corruzione o di furto (anche se poi vennero anche quelli), ma di un metodo di comparaggio politico che segnalava una concezione della prassi politica fondata sulla logica dello scambio, delle clientele, della gestione del consenso.

L’Ulivo s’era trasformato, ben presto, nell’albero degli zecchini d’oro. In provincia continuavano a imperversare, dal Pds alla Margherita, i mercanti delle tessere, con i congressi taroccati e i vecchi capibastone. Rivolgersi a Roma per denunciare arbitrii e corruzione si dimostrò del tutto inutile. Roma era molto lontana (anche se distante solo 200 chilometri) e i segretari e le direzioni nazionali erano occupate più in affari gravi (gestire i soldi del finanziamento pubblico ai partiti, scalare le banche, accontentare le lobby, andare in televisione, fare bicamerali) che a perder tempo con le denunce della provincia italiana. Si perse in quegli anni una straordinaria e irripetibile occasione per i cattolici italiani: mettere al centro della politica la questione morale, come questione di coscienze eticamente formate a perseguire il bene comune, soprattutto per gli esclusi e per i non garantiti. Altri compiti per un cristiano impegnato in politica non c’erano allora, e penso non ci siano oggi. I sazi, i professionisti, i benestanti non hanno bisogno della politica, la loro posizione li garantisce da sé.

Perseguire invece l’illusione che vincere le elezioni, con ogni mezzo, fosse sufficiente, permise l’affermarsi dell’immagine del politico cattolico vincente, attivo, risoluto e invidiato. Nella realtà i partiti scomparivano definitivamente per lasciare il posto, oltre le messinscena elettorali, al partito unico che avrebbe governato l’Italia: il partito del cemento, degli affari, degli appalti truccati e gonfiati, degli appartamenti ristrutturati ed economici, del bel mondo da salotto.

Ecco perché non mi meraviglio delle avventure economiche del senatore Lusi, della sua protervia nel continuare a fare il parlamentare e nel pretendere di stabilire lui la pena per i suoi reati. L’uomo che mangia un piatto di spaghetti al caviale da 180 euro in una nazione con milioni di disoccupati e di titolari di pensioni sociali che non arrivano a 500 euro – due piatti di spaghetti e mezzo – non è un pazzo, né un megalomane. Il senatore che fa scomparire decine di milioni di euro e che si concede vacanze rilassanti per cifre astronomiche non è un caso patologico, è il frutto di un sistema di corruzione diffusa e di una concezione amorale della politica alla quale anche i cattolici hanno offerto un buon contributo. Su questo tema, intellettuali tanto diversi come Sturzo e Dossetti hanno lanciato, in tempi differenti, accorati e inascoltati allarmi.

Lusi rappresenta il frutto più maturo di quei rappresentanti del mondo cattolico italiano impegnatisi in politica nella metà degli anni ’90, e di cui ebbi un primo assaggio nel salotto romano. Il senatore non può avere rubato da solo. Le maglie larghe del sistema, ammesso per assurdo che ci siano state, non permettono di giustificare nessuno. Se non ci sono stati complici (ma come poterlo credere?), almeno è certo vi sono stati spettatori inerti, e un buon numero di questi siede oggi in Parlamento senza particolari patemi. Il danno non è solo economico, come in tutti i casi di corruzione o furto, ma è in modo irrimediabile un danno definitivo alla politica, alla possibilità che essa possa essere praticata, che i giovani non la percepiscano come il luogo dell’inganno e del furto.

Avere accantonato il tema della moralità della politica e aver concesso credito nel mondo cattolico a uomini come Berlusconi e Lusi non poteva che produrre questi disastri morali. Il tenore di molte conversazioni telefoniche dalla P3 alla P4, dai banchieri furbetti alla signora Maria Cristina Rosati in Fazio sulle scalate alle banche, dal caso Anemone fino ai colloqui da bar tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani, lo dimostrano tragicamente a tutti. Quand’anche non ci fosse reato, c’è di sicuro uno squallore e un cinismo da raggelare.

Ma c’è da chiedersi – davanti alla girandola di notizie e di scandali vaticani che sembrano emergere dalle rivelazioni di mons. Viganò, dalle presunte scalate alle sedi episcopali ritenute di maggior prestigio, dalle giustificazioni-contestualizzazioni delle bestemmie e dei festini di Arcore, dall’accondiscendenza nei confronti di un partito anticristiano come la Lega Nord – chi avrebbe potuto mai occuparsi seriamente e credibilmente di affermare il primato in politica della questione morale? Lo avrebbero potuto fare coloro che designavano il presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, il plurinquisito Angelo Balducci, gentiluomo di sua santità? O quelli che ritenevano l’altro plurinquisito Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, figura credibile e altamente rappresentativa del mondo cattolico italiano?

E poteva mai difendere la moralità in politica il cattolicissimo presidente della Regione Lombardia Formigoni che, solo nell’aprile dello scorso anno, al convegno dell’associazione dei cattolici del Pdl Rete Italia, per difendere Berlusconi e il suo commercio di donne ebbe a dire che «all’uomo politico la gente chiede di governare bene e non di essere per forza un esempio di moralità. In buona sostanza, non importa quante fidanzate ha un ministro, importa che il ministro svolga bene l’incarico cui è stato delegato».

Alzando soltanto il vessillo dei valori non-negoziabili non ci si è avveduti che senza un’etica politica, evangelicamente ispirata, disinteressatamente ispirata e lontana dalle relazioni con l’alta finanza e con i potenti del mondo, lontana dai Sinedri e dai palazzi di Erode, quei valori rischiano di essere gusci vuoti, parole-annuncio buone per la propaganda ma incapaci di rendere, come raccomanda inascoltata la Gaudium et spes (77), più umana la vita degli esseri umani.

*Docente di Storia della Chiesa alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale (Napoli), deputato nel gruppo progressista nella XII legislatura (1994-1996)