Iran, il summit delle minacce

Michele Paris
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I colloqui sul nucleare tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania riprenderanno nel fine settimana a Istanbul dopo lo stallo dell’ultimo round di negoziati nel gennaio 2011. La vigilia del summit è stata prevedibilmente animata dalle minacce di Stati Uniti e Israele verso Teheran e dall’imposizione di ultimatum e condizioni inaccettabili che già fanno presagire un nuovo fallimento dell’atteso vertice.

Negli ultimi giorni, da Washington e Tel Aviv sono giunte dichiarazioni nelle quali, in sostanza, in cambio della firma di un accordo, si chiede all’Iran di fermare l’arricchimento dell’uranio al 20%, il trasferimento di quello già arricchito a questo livello ad un paese estero “affidabile”, lo smantellamento dell’impianto sotterraneo di Fordo e l’apertura ad ispezioni a tappeto nel paese da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

A ribadire le condizioni poste dall’Occidente e da Israele all’Iran per evitare ulteriori sanzioni, o un attacco militare, sono stati più recentemente il Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, nel corso di un’intervista rilasciata domenica alla CNN e lo stesso Segretario di Stato americano, Hillary Clinton.

I rappresentanti iraniani dovrebbero incontrare quelli del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) a partire da sabato prossimo a Istanbul per trovare un punto di incontro sull’annosa questione del programma nucleare di Teheran. Le parti restano però molto lontane tra loro, come conferma la risposta alle imposizioni occidentali del Ministro degli Esteri iraniano. Secondo quanto riportato dalla stampa ufficiale, lunedì Ali Akbar Salehi ha infatti affermato che il suo paese non intende accettare le pre-condizioni stabilite dagli USA e dai loro alleati per la riapertura dei negoziati.

Che la Repubblica Islamica, o per lo meno alcuni settori all’interno del regime, intenda evitare l’ennesimo scontro frontale con l’Occidente in un momento in cui le sanzioni stanno danneggiando l’economia del paese, è apparso chiaro da altri segnali provenienti da Teheran. Sempre lunedì, il capo del nucleare iraniano, Fereydoun Abbasi, in un’intervista a una rete televisiva locale, ha lasciato intendere che Teheran potrebbe mostrare una certa flessibilità sullo stop all’arricchimento dell’uranio al 20%. Tutt’altro che chiara appare tuttavia al momento la posizione ufficiale che l’Iran terrà a Istanbul tra qualche giorno.

La gravità dello scontro tra Iran e Occidente era emersa nei giorni scorsi anche relativamente alla località prescelta per gli stessi colloqui. Da Teheran avevano cioè fatto sapere di non gradire Istanbul, verosimilmente a causa delle profonde divergenze con il governo turco su almeno due questioni: la Siria e la decisione di Ankara di ospitare sul proprio territorio un sistema di difesa anti-missile della NATO rivolto proprio contro l’Iran. Il premier turco Erdogan, recatosi a Teheran giusto qualche giorno prima, aveva reagito duramente alle polemiche su Istanbul, anche se alla fine il governo iraniano ha deciso di dare l’OK alla metropoli sul Bosforo.

Quanto alle già ricordate condizioni elencate dagli Stati Uniti e da Israele, invece, esse vengono poste precisamente per provocare una reazione negativa da parte iraniana, così da far naufragare i negoziati accusando Teheran e giustificare l’adozione di nuove pesanti sanzioni o un attacco militare contro le installazioni nucleari.

Oltre ad aver affermato ufficialmente in varie occasioni che il proprio governo non intende perseguire la costruzione di armi atomiche, l’Iran ha in ogni caso il diritto di sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione (TNP). L’impianto di Fordo, poi, è stato costruito in un ambiente più facilmente difendibile in seguito alle ripetute minacce di attacco militare da parte di USA e Israele.

La rinuncia a questa struttura appare perciò difficilmente accettabile, poiché significherebbe trasferire tutte le attrezzature operanti a Fordo in un sito più vulnerabile ai bombardamenti americani o israeliani. Le ispezioni dell’AIEA, infine, sono definite dallo stesso TNP e le richieste di visitare strutture non incluse dagli accordi già presi non sono mai state ratificate dall’Iran.

Ciononostante, le manipolazioni delle missioni AIEA e dei resoconti giornalistici seguiti alle ispezioni sono pratica corrente. A questo proposito, un articolo datato 20 marzo del giornalista investigativo americano Gareth Porter per l’agenzia IPS News ha smentito quanto riportato dai media occidentali e cioè che l’Iran si sarebbe rifiutato di collaborare con l’AIEA dopo la missione di quest’ultima a fine gennaio.

Basandosi su quanto rivelato dal rappresentante iraniano presso l’AIEA a Vienna, Ali Asghar Soltanieh, Porter scrive che durante l’ultima ispezione, l’agenzia aveva chiesto di recarsi alla base militare di Parchin – dove, secondo un rapporto della stessa AIEA del novembre 2011, erano emersi possibili indizi di un test nucleare a scopi militari – sconfessando un accordo con il governo iraniano che prevedeva una tale visita di lì a qualche settimana. Al comprensibile rifiuto di Teheran, il direttore generale dell’AIEA, Yukia Amano, con ogni probabilità dopo essersi consultato con Washington, ha ordinato il ritiro degli ispettori, respingendo l’invito fatto dall’Iran di rimanere per un altro giorno nel paese.

Inoltre, sempre secondo Soltanieh, durante la stessa visita, l’AIEA avrebbe preteso di riaprire una serie di questioni legate al programma nucleare alle quali l’Iran aveva già dato risposta. Per la Repubblica Islamica, accettare queste condizioni e tornare su argomenti già chiariti avrebbe innescato un “processo infinito”. La vicenda descritta da Gareth Porter rappresenta un perfetto esempio di come le missioni di un’agenzia ONU vengano manipolate dai suoi stessi vertici, dai governi occidentali e dai media per fabbricare accuse di mancata collaborazione con l’AIEA nei confronti dell’Iran, dove, di conseguenza, esisterebbe un programma nucleare militare da nascondere a tutti i costi.

Con questi pretesti, dunque, è possibile continuare ad alimentare le tensioni e ad esercitare pressioni sull’Iran, in primo luogo da parte di Israele, un paese che con il pieno appoggio degli Stati Uniti ha ammassato centinaia di testate nucleari non dichiarate pur non essendo firmatario del TNP e non accettando alcuna ispezione di organi internazionali sul proprio territorio.

Veri responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente, Washington e Tel Aviv intendono assicurarsi che l’Iran non raggiunga nemmeno la capacità teorica di costruire un’arma nucleare, così da mantenere la propria supremazia militare nella regione e intraprendere campagne di aggressione senza incorrere in ritorsioni significative.

In ultima analisi, l’obiettivo rimane quello di piegare il governo di Teheran con sanzioni economiche e, eventualmente, un’aggressione militare per giungere a un cambio di regime che, una volta caduto anche Assad in Siria, consentirebbe di espandere l’egemonia statunitense dal Mediterraneo all’Afghanistan, un territorio sconfinato che conserva la maggior parte delle risorse energetiche del pianeta.

Oltre alle sanzioni implementate o annunciate nelle ultime settimane, gli Stati Uniti continuano a preparare il terreno anche per una possibile operazione militare, come conferma il recente invio di altre due portaerei (USS Abraham Lincoln e USS Enterprise) nel Golfo Persico. Altre provocazioni e attività illegali contro l’Iran sono state poi documentate da due recenti articoli apparsi su altrettanti media d’oltreoceano.

Settimana scorsa, sul New Yorker, Seymour Hersh ha citato fonti anonime di intelligence e degli ambienti militari, secondo le quali le forze speciali a stelle e strisce (JSOC) hanno regolarmente addestrato membri del gruppo terroristico Mujahedin-e-Khalq (MEK) – già impiegati dal Mossad per compiere attentati in territorio iraniano – per condurre operazioni sotto copertura. Il Washington Post, infine, ha pubblicato domenica scorsa una lunga indagine che descrive come i servizi segreti americani da oltre tre anni a questa parte utilizzino una flotta di droni per sorvolare l’Iran e raccogliere preziose informazioni nel paese mediorientale.