La memoria di domani. Il processo all’Isolotto di V.Gigante

Valerio Gigante
Adista documenti n. 14/2012

40 anni dopo, tra storia, resistenza, futuro

La memoria è essenziale per la vita degli individui. Li collega alle proprie radici familiari, culturali sociali; fornisce punti di riferimento; li aiuta a sentirsi “adeguati” alla realtà circostante, inseriti in un processo storico. Dà, insomma, un senso all’azione personale e sociale. La memoria collettiva, poi, è qualcosa di più. «È anche – scrive Enzo Mazzi – un luogo di resistenza, anzi il luogo privilegiato della resistenza rispetto ai sistemi di dominio che tendono sempre a frantumare il vivere sociale», secondo la logica del divide et impera». La memoria è infatti, è ancora Mazzi a parlare, «l’ultimo baluardo rimasto in piedi a contrastare la marcia trionfale del neoliberismo mercantile globale. Il quale infatti ha istituito una strategia di oblio, tesa a disgregare e annullare la memoria. Perché il liberismo ha bisogno di creare sul vuoto una nuova umanità di produttori-consumatori senza identità e memoria». Infatti, «è solo ricordando che si può elaborare in positivo il lutto, si può superare la paura, si possono volgere in positivo i conflitti, si può dare senso e forza alla lotta per la pacificazione nella giustizia; mentre l’oblio offre solo illusioni, copre le ferite rendendole invisibili, ma produce cancrene profonde».

Per tutte queste ragioni la vicenda raccontata ed analizzata nel volume Il processo all’Isolotto (introduzione di Enzo Mazzi, manifestolibri, 2011, pp. 200, euro 21; il libro può essere richiesto, senza spese di spedizione aggiuntive, anche ad Adista, tel. 06/6868692; e-mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul sito www.adistaonline.it) non è pura riesumazione di un passato sepolto ma, appunto “memoria storica” creativa, generatrice di presente e di futuro, che ha senso anche e soprattutto per l’oggi.

La storia

Il 22 settembre 1968, durante l’omelia, nelle chiese dell’Isolotto, del Vingone e della Casella viene letta e firmata, anche dai tre parroci e da altri preti, una lettera di solidarietà con gli occupanti del duomo di Parma nella quale, fra l’altro, si esprime disaccordo col papa che ha accusato gli occupanti stessi di mancanza di amore per la Chiesa. In conseguenza di quella lettera, l’arcivescovo di Firenze, il card. Ermenegildo Florit (quello, per intenderci, che aveva esiliato don Milani a Barbiana), impone al parroco dell’Isolotto, don Enzo Mazzi, e a lui solo, di ritrattare, pena la rimozione dal suo incarico. Dopo un lungo confronto collettivo con la sua comunità, don Mazzi (31 ottobre) rifiuta il diktat. La comunità è tutta con lui. Ciononostante, la Curia fiorentina tenta di normalizzare la parrocchia e manda un prete, don Ernesto Alba, a celebrare messa a Santa Maria delle Grazie. Nessuno vuole parteciparvi, così, per sostenere le celebrazioni, che andrebbero deserte, intervengono squadre neofasciste munite di spranghe e bastoni. La popolazione reagisce pacificamente con metodi non-violenti. Ma, invece di incriminare i neofascisti, la magistratura fiorentina, a seguito di una denuncia (7 gennaio 1969) di don Alba concordata con la Curia di Firenze, indaga cinque sacerdoti e undici laici per “istigazione a delinquere” e “turbamento di funzioni religiose del culto cattolico”. Quasi mille persone si autodenunciano per lo stesso reato.

Di esse, non si sa secondo quale criterio, la Procura incrimina 438 persone e il giudice istruttore ne rinvia a giudizio 358. Nel luglio del 1970 arriva però un colpo di scena: contro la sentenza del giudice istruttore, contro la richiesta scritta di ciascuno dei singoli imputati, che chiedono di essere processati per ottenere il pieno e definitivo riconoscimento della loro innocenza, la Procura di Firenze dichiara l’amnistia per il reato di turbamento di funzione religiosa. A processo vanno quindi solo i cinque preti e i quattro laici incriminati per istigazione a delinquere, reato che non può rientrare nell’amnistia. Si vuole, insomma, evitare a tutti i costi un processo di massa, che assumesse un carattere simbolico e politico. Ma quel processo lo divenne. A sostenere l’accusa, un giovanissimo Pierluigi Vigna. A difendere uno degli imputati, pronunciando a suo favore una celebre e intensa arringa finale, Lelio Basso, insigne giurista, segretario del Psiup, difensore dei diritti umani e promotore del Tribunale Permanente dei Popoli. La sentenza, arrivata il 5 luglio 1971, assolse tutti gli imputati per non aver commesso il fatto.

A 40 anni di distanza, a discutere della fondamentale importanza che quel processo, e l’evento Isolotto nel suo complesso, ebbe per la società italiana e per la Chiesa, c’erano, in un incontro svoltosi a Firenze il 22 marzo scorso, Giancarla Codrignani, storica esponente della Chiesa di base e già parlamentare della Sinistra Indipendente; Mario Capanna, leader del ’68 studentesco che all’Isolotto in quegli anni non riuscì ad andare, pur avendolo desiderato, ma che divenne, a metà degli anni ’80, amico di Enzo e della comunità; e Beniamino Deidda, oggi procuratore generale della Repubblica di Firenze ed all’epoca giovane magistrato della Pretura fiorentina, che durante un’assemblea all’Isolotto aveva preso pubblicamente posizione a favore degli imputati. Per questa ragione, il Consiglio Giudiziario di Firenze formulò parere negativo alla sua promozione a magistrato di tribunale.

Una decisione in palese e stridente contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che garantisce a tutti i cittadini la libertà di manifestare il proprio pensiero. E che il Consiglio Superiore della Magistratura infatti annullò. Deidda, che all’epoca era tra i promotori di Magistratura Democratica e tra i primi magistrati a denunciare la funzione di “classe” svolta dalla magistratura, nel suo intervento cerca di analizzare le ragioni che portarono la Procura di Firenze ad accettare acriticamente e supinamente, contro il diritto ed il buon senso, la linea dettata dalla Curia.

Pubblichiamo qui la sua relazione