“Diaz”, morte accidentale di una democrazia

Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova
www.micromega.net

Ho visto il film “Diaz” e mi è venuta in mente “Morte accidentale di un anarchico”, la pièce teatrale di Dario Fo sull’omicidio di Pino Pinelli. In un passaggio memorabile, verso la fine del testo, i personaggi discutono degli effetti che potrebbe avere sulla polizia lo scandalo dovuto alla scoperta che dietro le bombe esplose in varie città d’Italia si celano malefatte dello stato e depistaggi. Uno dei personaggi, la Giornalista, dice testualmente: “Io credo che uno scandalo del genere servirebbe a dar prestigio alla polizia.

Il cittadino avrebbe la sensazione di vivere in uno stato migliore, con una giustizia un po’ meno ingiusta”. E poi un altro personaggio, il Matto: “Al cittadino medio non interessa che le porcherie scompaiano. No, a lui basta che vengano denunciate, scoppi lo scandalo e che se ne possa parlare… Per lui quella è la vera libertà e il migliore dei mondi, alleluia!”. E ancora la Giornalista: “Lo scandalo, anche quando non c’è, bisognerebbe inventarlo, perché è un mezzo straordinario per mantenere il potere e scaricare le coscienze degli oppressi”.

Ho pensato a questo passaggio perché “Diaz” colloca il suo racconto nell’arco di poche ore, fra il 21 e il 22 luglio 2001, e gioca tutte le sue carte, sul piano emotivo e della comunicazione, sul brutale pestaggio alla scuola Diaz, concedendo una coda per seguire uno dei personaggi nella caserma-carcere di Bolzaneto, luogo di maltrattamenti e torture, ma non offre elementi di fatto – come già fatto notare da Vittorio Agnoletto – sulle responsabilità operative e politiche di quanto avvenuto e sulla scelta compiuta negli anni seguenti dal vertice di polizia e dai responsabili politici, una scelta di legittimazione e copertura degli abusi e delle menzogne, anziché di ripudio, come l’etica democratica comanderebbe.

Il rischio è evidente: diventa difficile capire le ragioni che hanno portato alle violenze e ancor più difficile comprendere quale sia l’importanza odierna di quei fatti: sono un evento storico utile per “fare memoria” o riguardano l’attualità, il nostro futuro? Lo scandalo, se resta nel vago, non rischia d’essere una mera valvola di sfogo?

Il regista ha spiegato di aver fatto una precisa scelta: da cineasta ha voluto mostrare la terribile caduta dello stato di diritto avvenuta fra la scuola e la caserma-carcere, lasciando agli spettatori il compito di cercare nomi, risposte, spiegazioni. E agli attivisti il compito di proseguire la battaglia.

Il cuore del film è dunque la descrizione delle violenze, che finora nessuno aveva mostrato: non esistono fotografie né video su quanto accaduto dentro la Diaz e a Bolzaneto. Solo uno dei 93 malcapitati della Diaz, Christian Mirra, ha raccontato in una storia a fumetti la sua vicenda, offrendo così la prima rappresentazione grafica della macelleria – molto italiana, più che messicana – messa in atto nella scuola di via Battisti.

Il film, se avrà successo, se il “pugno allo stomaco” provato dai primi spettatori si trasformerà in passaparola, potrebbe riuscire nell’impresa di riproporre all’attenzione pubblica il “caso Genova G8”, o almeno il “caso Diaz”. Ma difficilmente il gruppo dirigente della polizia di stato e il ceto politico che lo difende (con viltà ormai bipartisan), accetteranno di entrare nella discussione. Sono riusciti a evitarlo quando i dirigenti di polizia sono stati chiamati in causa nome per nome e condannati in tribunale, si ripeteranno di fronte a uno “scandalo” che si ferma alla messa in scena delle violenze.

Taceranno probabilmente anche il Massimo D’Alema che a caldo parlò di “notte cilena”, la Rosy Bindi che testimoniò vicinanza a Vittorio Agnoletto la mattina del 22 luglio, il Gianclaudio Bressa ottimo relatore fra 2006 e 2007 del progetto di istituire una commissione d’inchiesta (poi bocciato dal voto). La strategia del silenzio è la più efficace, quando c’è qualcosa da nascondere o una posizione poco difendibile da mantenere. E non saranno i grandi media a imporre la questione all’ordine del giorno.

Dietro l’angolo c’è dunque – nel migliore dei casi – uno scandalo del tipo indicato da Dario Fo ormai quarant’anni fa, con la gente che prova indignazione, si contorce nella sofferenza suscitata da certe immagini, percepisce quanto sia stata grave, e incompatibile con un regime democratico, la condotta della polizia di stato a Genova, ma tutto finisce lì. Magari con la sensazione – come dice la Giornalista nella “Morte accidentale” – di vivere in uno stato migliore, perché di certe cose è possibile parlare, dimenticando qual è il vero scandalo, e cioè che tutti, ma proprio tutti, i responsabili dell’operazione Diaz – dall’ultimo dei picchiatori, al più importante dei dirigenti – sono stati confermati ai loro posti, con i più alti in grado oggi impegnati in ruoli addirittura più elevati. E senza che lo stato, nella persona di un ministro, di un premier, dello stesso presidente, abbia mai avvertito la necessità di chiedere scusa alle vittime dirette degli abusi e – soprattutto – all’insieme della cittadinanza.

A ben vedere, lo scandalo è già stato neutralizzato e assimilato all’epoca delle clamorose sentenze di secondo grado (nel 2010), che hanno portato alle condanne non solo di decine di agenti e funzionari di basso livello, ma anche degli altissimi dirigenti, di rango nazionale, che hanno partecipato all’operazione Diaz: stiamo parlando dei massimi responsabili dei servizi operativi e investigativi. Queste condanne sono un fatto che non ha precedenti in Italia e forse in Europa, eppure non hanno portato a niente. L’intero arco parlamentare ha incredibilmente ribadito la propria fiducia nei dirigenti condannati, e il capo della polizia, così come ministri e primi ministri hanno potuto ignorare non solo i fatti storici ma anche l’esito delle inchieste e il giudizio dei tribunali.

Insomma, lo scandalo si è consumato, le coscienze si sono scaricate (la giustizia dopotutto ha fatto il suo corso), e “il prestigio della polizia è cresciuto”, in attesa che la Cassazione, a metà giugno, rimetta le cose a posto, come ebbe a dire il sottosegretario Alfredo Mantovano all’indomani delle condanne in appello: “Sono ragionevolmente convinto”, disse, “che la Cassazione ristabilirà l’esatta proporzione di ciò che è successo e scioglierà ogni ombra su fior di professionisti della sicurezza che oggi si trovano in questa situazione”.

Un film come “Diaz” sarebbe stato utile una decina d’anni fa, con le inchieste in corso e alcune vie d’uscita ancora aperte verso una decente credibilità democratica delle istituzioni. I fatti all’epoca erano già noti, le successive inchieste li hanno solo confermati.

Forse nel 2002, mostrarli, rendere evidente che il corpo speciale impiegato alla Diaz si prese il rischio di uccidere qualcuno durante la perquisizione, sarebbe servito ad alimentare una discussione seria e a concentrare l’attenzione sulla catena di comando all’interno della polizia e sul contesto politico nel quale vanno collocati gli scempi di Genova G8.

Nel 2012, con tutto ciò che nel frattempo è avvenuto, fermarsi alla descrizione delle violenze, senza raccontare quanto quell’abuso di potere sia stato aggravato, significa ignorare gli aspetti a questo punto più importanti. Il boicottaggio delle inchieste da parte della polizia di stato, il rifiuto opposto dagli altissimi dirigenti imputati di presentarsi in tribunale per rispondere alle domande dei pm, il mancato ripudio delle violenze e delle menzogne, le promozioni ottenute a inchieste in corso, sono tutti fatti che hanno portato a infimi livelli la credibilità degli attuali vertici di polizia.

Allo stesso modo, rimanendo sfumato il contesto nel quale il blitz alla Diaz si colloca – la straordinaria e coinvolgente mobilitazione genovese, il tragico fallimento della gestione dell’ordine pubblico –, nel film restano oscure le motivazioni che portarono al blitz. La perquisizione non fu decisa allo scopo di prendere un determinato gruppo di appartenenti al Blocco nero, ma per eseguire un congruo numero di arresti e ottenere un recupero in termini di immagine per la polizia di stato, raggiungendo anche un obiettivo politicamente interessante, ossia eseguire quegli arresti non in un posto qualsiasi fra i tanti possibili, ma nel quartier generale del Genoa social forum, appunto la scuola Diaz. Sono punti che sono stati messi in chiaro, il primo, dal vice capo della polizia dell’epoca, Ansoino Andreassi, che ha testimoniato in tribunale (guadagnandosi l’ostracismo del vertice di polizia); il secondo dallo stesso Silvio Berlusconi, il quale nella conferenza stampa finale – mostrata alla fine del film – annuncia che nella sede del Genoa social forum (lui lo chiama Global forum) sono stati arrestati appartenenti al Black Bloc, mentre il Gsf aveva negato qualsiasi relazione col Blocco nero.

Per tutte queste ragioni, alla fine, concordo col giudizio espresso dal critico Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera, che ha trovato limitante – sintetizzo così il suo pensiero – la scelta del regista di fermarsi al racconto delle violenze, senza spingersi sul terreno delle responsabilità, “cancellando teorie, complotti – scrive Mereghetti – ma anche ‘giustificazioni’ e spiegazioni. […] Alla fine le immagini lasciano un senso di incompiutezza, che non bastano le didascalie finali a riempire”.

A questo punto toccherebbe a noi, ai cittadini, ai movimenti, all’associazionismo, al giornalismo indipendente, cambiare il corso degli eventi, ma temo che in questo disastrato paese, anche per il “caso Diaz” ci apprestiamo all’avveramento della profezia di Dario Fo: un po’ di scandalo, un po’ di indignazione e una nebbia fitta intorno ai luoghi di massimo potere. Alleluia.

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