Egitto, la mano dell’esercito nei gangli del potere

Lorenzo Giroffi
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Il vento dell’entusiasmo spira sempre più lontano dai canti della primavera araba. Questa volta è l’Egitto a finire nelle ragnatele burocratiche delle elezioni.

Tra i gangli del potere militare si stanno delineando i prossimi scenari elettorali. Nell’aria di rinnovamento, nel Paese che ha visto la caduta dell’ultimo faraone, resta l’odore stantio degli interessi politico-economici della ristretta élite di militari. La più grande forza bellica del mondo arabo vede al suo interno un’inconsueta presa di coscienza di alcuni ufficiali, che stanno iniziando a denunciare l’enorme possedimento finanziario dell’esercito. Dal colpo di stato del 1953 le forze armate sono divenute il soggetto economico più influente di tutto l’Egitto ed a seguito degli accordi di pace con Israele (1979), nei quali si prometteva di ridurre il proprio investimento militare, gli ufficiali hanno riversato ancora di più le loro attenzioni nel business.

Tutto il personale che sarebbe dovuto essere licenziato dai corpi armati è stato riutilizzato in impianti industriali. La ristretta élite, anche una volta in pensione, continua a mantenere posizioni di potere nelle istituzioni civili. Si stima che l’ottantasette per cento dei terreni in Egitto sia di proprietà dei militari: evidentemente il loro campo d’azione non si limita solo alle fabbriche. Arrivano a gestire impianti di depurazione, tour operator, banche, aziende agricole, catene di distribuzione di benzina, imprese costruttrici, società d’import-export. Caratteristica comune a tutte queste attività è che, essendo partecipate militari, sono esenti da ogni forma di tassazione.

A tal proposito i vertici militari, in una recente polemica con il rappresentante degli industriali metallurgici, Khalil Kandil, hanno risposto che il bilancio economico delle società da loro gestite non potrà mai essere pubblico per questioni di sicurezza politica del Paese. Altro aspetto sul quale i militari-manager ed il Ministro per gli Affari Esteri, Mahmud Nasr, tendono a puntare con veemenza è il necessario sostentamento che queste attività garantiscono all’esercito, che altrimenti non sarebbe in grado di reggere il passo con la rivale Israele.

Il giro d’affari sarebbe di dodici miliardi di sterline egiziane, l’equivalente di 1,99 miliardi di euro. Tutto ciò però è retto da una ristretta minoranza. A gestire l’imponente giro d’affari è solo il quindici per cento del corpo ufficiali, mentre la paga media di un ufficiale qualsiasi è di circa 2.500 lire egiziane, che è un compenso alla stregua di un tassista del Cairo.

Ad Alessandria c’è stata una manifestazione di protesta di membri dell’esercito, che denunciano sia questo clientelismo all’interno del Corpo, che i mancati innalzamenti degli stipendi, promessi durante la rivoluzione. Gli investimenti alla base restano scarsi, con addestramenti inefficienti ed inesistenti smaltimenti di vetusti armamenti. Per tutto ciò è arrivata anche, da parte di un numero consistente di militari, la richiesta di dimissioni del Consiglio Militare. Nel vorticoso gioco di potere c’è la volontà dell’attuale capo di Stato, Mohammed Hoseyn Tantawi, che pur proponendo un rapporto aperto all’eventuale guida del Paese da parte dei Fratelli Musulmani, vede nel potere dell’esercito una garanzia contro l’eventuale ascesa incontrastata degli islamisti.

Nonostante l’esercito sia composto per lo più da possibili elettori dei Fratelli Musulmani, i vertici vogliono evitare che il movimento islamico possa arrivare a conoscere le reti del potere economico militare.

In questi contrasti si piantano le prossime elezioni presidenziali del 23 e 24 maggio, la cui campagna elettorale parte direttamente con uno scossone: fuori dalle liste elettorali tre grandi favoriti della corsa alla presidenza. La Commissione Elettorale ha scartato dieci delle ventitre candidature e tra queste si registrano quelle dell’ex capo dell’intelligence di Hosni Mubarak, Omar Suleiman; l’uomo di punta dei fratelli Musulmani, Khairat el-Shater; il leader dei salafiti Hazem Abu Ismail. I tre hanno presentato ricorso, ma senza successo, di fatti concorreranno alle elezioni presidenziali solo tredici dei ventitre presentatisi.

Omar Suleiman non ha raggiunto il numero necessario di deleghe per ciascuna provincia del Paese e durante il ricorso si era definito come l’unico baluardo issato contro l’imperante islamismo. Khairat El Shater invece è stato escluso per un neo nella sua fedina penale (terrorismo e riciclaggio di denaro), che ha però contestato perché appartenente ad una pena emanata da un regime ormai destituito, ma la Commissione esige che un ex detenuto debba attendere sei anni prima di presentare la propria candidatura. Mentre il salafita Abu Ismail è stato beffato, paradossalmente, dal passaporto statunitense della madre, che a quanto pare sarebbe un deterrente per concorrere alla presidenza dell’Egitto, visto che i genitori del candidato devono avere esclusivamente la cittadinanza egiziana. Nonostante i ricorsi dei tre siano stati respinti, restano delle speranze fino al 26 aprile, termine ultimo nel quale si diramerà il comunicato ufficiale dei candidati.

Insomma in Egitto si prospetta un’altra primavera movimentata.