La morte ingloriosa del populismo

Paolo Bonetti
www.italialaica.it | 13.04.2012

Dopo Berlusconi è toccato a Bossi. Cadono i capi carismatici che avevano fondato il loro potere sul culto personale, sul rapporto diretto con la mitica gente, sulla demagogia e sulle illusioni alimentate con cinismo, sulla demonizzazione degli avversari, sul rifiuto di guardare in faccia la realtà. Il primo è caduto perché di fronte a una crisi economica gravissima, certamente di origine e portata internazionali, ma aggravata dalla politica inconsistente e velleitaria del governo italiano, ha continuato a ripetere che la crisi non c’era e a nascondere i dati oggettivi di un sistema economico che si era bloccato e che si stava avvitando su stesso.

Non parliamo poi della classe politica che lo circondava, che sarebbe riduttivo chiamare con l’abusata espressione di “nani e ballerine”, perché si trattava spesso di adulatori e di servi incompetenti, messi a dirigere organi ministeriali di fondamentale importanza per il governo del paese. E andranno naturalmente ricordate le leggi ad personam, gli attacchi quotidiani alla magistratura, il tentativo pervicace di sottrarsi a quella sovranità della legge che è il fondamento della democrazia liberale. Per quanto si possa essere critici nei confronti della democrazia dei partiti (e noi lo siamo stati spesso, sottolineando il discredito morale in cui sono caduti), il potere personale di un uomo, il suo tentativo di sottrarsi a tutte le mediazioni istituzionali, l’umiliazione permanente del Parlamento, sono un male ben più grande, perché tendono a creare nei cittadini una mentalità da parassiti in attesa del miracolo con conseguente deresponsabilizzazione.

Se quello di Berlusconi è stato il populismo esibizionista di un miliardario che ha tentato di piegare lo Stato ai suoi fini personali, quello di Bossi e della Lega è stato invece caratterizzato da una finta rivolta morale, ad uso delle anime semplici, contro la corruzione della classe politica nazionale, contro Roma ladrona e parassita in nome del cosiddetto popolo padano, che, con il suo lavoro, mantiene la nazione e non riceve in cambio quei benefici che gli spetterebbero. La Lega sbracata e xenofoba, guidata da un capo astuto e senza scrupoli pur di raggiungere il potere politico, si è presentata per anni come una forza barbarica ma sana, venuta dalle nebbie del nord per fare finalmente giustizia, una specie di vento purificatore che doveva spazzare via i miasmi delle fogne romane e della malavita meridionale.
Stiamo vedendo in questi giorni come è andata a finire e che cosa si nascondeva veramente dietro la facciata suadente del federalismo e l’apparente volontà di riformare la struttura dello Stato per dare maggiore potere ai cittadini contro la burocrazia centrale, le mafie, una classe politica esausta e autoreferenziale. Abbiamo scoperto che nella Lega, nel cuore stesso della sua classe dirigente, ci sono quella corruzione, quel familismo amorale, quell’uso del denaro pubblico per scopi privati, che sono stati rimproverati per due decenni al sistema di potere romano.

I barbari incontaminati e puri si sono rivelati affetti dagli stessi vizi dei loro avversari: quei vizi, dopo averli profondamente assimilati, li hanno messi in pratica con gli stessi metodi che avevano condannato, li hanno perfezionati all’ombra del capo che copriva con le sue invettive volgari e i suoi silenzi complici il verminaio che gli stava crescendo attorno. Anche in questo caso il populismo, il preteso rapporto diretto e genuino fra il leader e la sua gente, si è rivelato un inganno, e milioni di persone hanno alla fine scoperto che tutti i mali che combattevano li avevano in casa, che la sporcizia non stava solo fuori ma dentro.

La verità è che la democrazia è la pratica di governo più complicata e difficile, che non ci sono scorciatoie da percorrere nella speranza di semplificare i problemi e di ottenere per essi soluzioni facili e sbrigative, praticando magari un manicheismo sommario e razzista, che identifica il “nemico” in chi è, in qualche modo, diverso da noi. Il sistema democratico è fatto di pesi e contrappesi, di istituzioni che si controllano reciprocamente, di procedure legali che debbono essere rigorosamente rispettate, di diritti individuali che vanno gelosamente protetti. La vera democrazia vive di cultura diffusa, di competenze specialistiche messe al servizio del bene comune, di studio accurato dei problemi, di soluzioni scelte da un libero Parlamento dopo un esame ponderato delle questioni.

Per questo è indispensabile che i partiti si rinnovino, che la smettano con il clientelismo, che diano spazio al merito, che aprano la loro dirigenza a nuove energie. Insomma è necessario che la riforma dei partiti, indispensabile per salvare quel che resta della democrazia italiana, non si risolva nelle solite promesse a cui non seguono i fatti, nel consueto tentativo di nascondere, con qualche ritocco di facciata, la volontà di non cambiare nulla e di mantenere intatti privilegi che l’opinione pubblica giudica ormai intollerabili. Non è solo questione di finanziamento pubblico (che pure un referendum popolare aveva abrogato e che è stato reintrodotto con l’alibi dei rimborsi elettorali), ma di mentalità e di abitudini di gruppi dirigenti che non hanno più comunicazione con il paese, che non sanno più ascoltarlo. Si sveglino, perché non vorremmo fare l’esperienza di qualche altro salvatore della patria.