Perché la Libia non ha insegnato niente?

Marinella Correggia
www.sibialiria.org

Un amico libico mi ha telefonato su skype. L’avevo incontrato a Tripoli durante i bombardamenti Nato/Qatar, in agosto. Diceva: “Ho molte critiche da fare a questo governo, ma le bombe della Nato e il fatto che i cosiddetti “ribelli” le abbiano tanto chieste, bombe sulla testa di loro concittadini, mi ha tolto ogni dubbio. In questo momento Gheddafi è la Libia e i nemici sono altri”. Walid, ingegnere esperto di rinnovabili (“ma adesso è tutto fermo, non si sa dove vanno a finire i soldi della vendita del petrolio…”) è ancora a Tripoli, ma è così disgustato che spera di andar via presto con i bambini e la moglie; dove non lo sa. Intanto vorrebbe aiutare diversi libici ormai perseguitati. Non ho potuto che metterlo in contatto con un Comitato internazionale di giuristi che appunto cerca di difendere alcuni diritti di base nella “nuova Libia”.

Il paese nordafricano adesso è un inferno e lo devono riconoscere anche gli stessi che levavano alti peana in favore del Cnt libico e dei suoi armati. Altro che “partigiani della libertà”, “giovani rivoluzionari”, “brave persone contro un dittatore”. Può una rivoluzione fondarsi sul razzismo, sulla persecuzione di centinaia di migliaia di persone, sulle milizie armatissime? Questo succede in Libia.

Tace adesso – anche a sinistra – chi aveva appoggiato la no-fly zone e chi aveva definito i rivoltosi “nuovi partigiani”, “giovani rivoluzionari”, “brave persone contro un dittatore”, “un intero popolo disarmato in rivolta” (malgrado trapelassero notizie di atrocità fin dall’inizio).

Fra i “ribelli” libici e gli oppositori siriani gli intrecci e le analogie – nelle gesta, negli alleati, nell’abilità mediatica – sono sorprendenti.  Anche sulla Siria l’informazione è assordante e manipolata perfino nella conta dei morti (http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=244 e vari altri articoli sul sito). “È certo che una gran parte dei morti (civili e militari) sono da mettere sul conto di “atti terroristici condotti da armati dell’opposizione”, ha spiegato l’analista Michel Chossudovsky a RT sostenendo anche che, come nel caso libico, l’opposizione armata siriana è da considerarsi “truppe della Nato sul terreno, una vera minaccia al piano di pace” (http://rt.com/news/syria-opposition-proxy-paramilitary-948/).

Le “notizie” che i media mainstream riferiscono – e che la stessa Onu prende per buone – provengono quasi solo dall’opposizione, o dai racconti di rifugiati in Siria, e dai “disertori” che “non sono gruppi indipendenti ma di fatto fanno parte di parte di un gruppo ribelle organizzato che tenta di giustificare il futuro intervento delle potenze occidentali” (http://whowhatwhy.com/2012/04/02/how-war-reporting-in-syria-makes-a-larger-conflict-inevitable/#disqus_thread). È ovvio che in una situazione di scontri le verità siano due. Si prendano i racconti sulla cittadina di Kusayr: ognuno dei due gruppi accusa l’altro di pulizia etnica, distruzioni, cecchinaggi. Anche sulle violazioni della tregua “imposta” dal piano Annan, non si ascolta che una campana.

La violenza dei gruppi armati è documentata anche da rapporti non governativi di gruppi religiosi – che indicano nomi e cognomi di famiglie sterminate – e di cittadini siriani e a volte perfino da media mainstream come abbiamo riferito; di recente Avvenire ha pubblicato una lettera di italiani residenti in Siria: http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/i-ribelli-ci-uccidono.aspx). Non si tratta di un’evoluzione dell’ultimo periodo: molti mesi fa i media del mondo hanno ignorato quel che riportava il giornale turco Today’s Zaman: l’uccisione e decapitazione di 120 poliziotti a Jisr al Shugur, città dove tutti gli edifici pubblici erano stati distrutti e la popolazione aveva accolto con sollievo i militari.

La narrazione “un intero popolo disarmato contro un dittatore sanguinario” si scontra con i fatti. Non solo perché la popolazione siriana è divisa e una maggioranza sembra sostenere il governo, anche in piazza (ma si dirà che è tutto organizzato). Ma anche perché, come spiega Fida Yakroub (http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&;aid=29849): “È vero che una volta scoppiate le violenze in Siria, le proteste presero, in termini di slogan usati (libertà, giustizia, democrazia, rivendicazioni sociali, ecc.) una forma pacifica; e le richieste dei manifestanti erano ancora limitate alle richieste sociali. Tuttavia, queste proteste si sono trasformate, velocemente, in atti di violenza settaria mirati contro le minoranze religiose del Paese, come i musulmani eterodossi e i cristiani”.

Anche un attivista scappato dalla Siria, ci segnala un lettore, riferisce allo stesso modo (http://karim-metref.over-blog.org/article-intervista-a-un-attivista-scappato-dall-inferno-siriano-102399062.html): “Era iniziato tutto bene. Come in tutti i paesi della zona.  (…) d’un colpo sono apparsi dal nulla i salafiti pieni di armi e di soldi e la situazione è degenerata. Non si capisce più niente. Si muore come mosche da una parte e dall’altra. Le altre tendenze si sono ritrovate prese tra due fuochi. Minacciati dallo stato e dai gruppi armati. In molte città si racconta che i gruppi del così detto Esercito Libero si sono comportati peggio del governo con torture, mutilazioni e uccisioni in pubblico di persone presentate come collaborazionisti”.

E poi, gli alleati dell’opposizione armata a Gheddafi e ad Assad sono gli stessi: i paesi Nato e le petromonarchie (per non dire di John Mc Cain, accolto come un eroe nel 2011 dai rivoltosi libici e nel 2012 da quelli siriani). Come si fa a minimizzare gli interessi atlantislamisti nell’area? Come si fa a tollerare l’ingerenza straniera nella gestione delle legittime aspirazioni del popolo siriano alla riforma politica, economica e sociale? Come si fa a non capire il gioco della Turchia che chiede alla Nato di proteggere i suoi confini, ma a pochi metri dai confini siriani ospita l’Esercito siriano libero finanziato da Qatar e Casa dei Saud e che scambia colpi con l’esercito siriano? (su quel che succede alla frontiera, si legga Pepe Escobar: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/ND12Ak03.html).

Il caso libico non ha insegnato nulla. La narrazione sulla Siria è a tal punto a senso unico che chi osa mettere in discussione le responsabilità delle violenze, o il carattere democratico e indipendente dell’opposizione, è considerato “delirante”.Perché chi nei decenni scorsi si impegnava contro le guerre occidentali, e contro l’embargo all’Iraq, non veniva accusato di “delirio”?