Krugman: L’Europa si sta suicidando

Paul Krugman
La Repubblica, 20 aprile 2012

È davvero difficile sottrarsi a un certo senso di disperazione osservando l’evoluzione e il deterioramento della crisi nel vecchio continente. Invece di ammettere di aver sbagliato, i leader europei sembrano determinati a spingere l´economia nel baratro – e con essa le loro società. E a pagarne le conseguenze sarà il mondo intero.

Sabato il Times ha pubblicato un articolo che parla di un fenomeno apparentemente in crescita in Europa: suicidi imputabili alla “crisi economica”, persone che si tolgono la vita in preda alla disperazione per essere rimaste senza lavoro o aver visto fallire la propria azienda. Un articolo straziante. Sono sicuro, tuttavia, di non essere stato l´unico lettore, specialmente tra gli economisti, a essersi chiesto se la vera questione non riguardi tanto i singoli individui, quanto l´evidente determinazione dei leader europei a far commettere un suicidio economico all´intero continente.

Soltanto pochi mesi fa nutrivo qualche speranza per l´Europa. Forse ricorderete che alla fine dell´autunno scorso l´Europa sembrava sull´orlo di una catastrofe finanziaria. Ma la Banca centrale europea – l´equivalente europeo della Fed – corse in aiuto dell´Europa. Concesse alle banche europee linee di credito aperte a condizione che esse offrissero come collaterali i cosiddetti “eurobond”. Ciò servì a puntellare direttamente le banche e indirettamente i governi e mise fine al panico.

La situazione a quel punto cambiò: si trattava di capire se quell´intervento temerario ed efficace sarebbe stato l´inizio di un più ampio cambiamento; se la leadership europea avrebbe utilizzato il margine di respiro creato dalle banche per riprendere in considerazione le politiche che in primis avevano portato a una crisi tanto profonda.
Così, però, non è stato. Anzi: i leader europei hanno rilanciato e ribadito le loro idee e le loro politiche fallimentari. E di giorno in giorno diventa sempre più difficile credere che qualcosa possa indurli a cambiare strada.

Prendete in considerazione la situazione della Spagna, che è ora l´epicentro della crisi. Non parliamo più di recessione in questo caso: la Spagna è in piena e palese depressione con un tasso complessivo di disoccupazione pari al 23,6 per cento, paragonabile a quello dell´America nei tempi peggiori della Grande Depressione, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è di oltre il 50 per cento. La situazione, per tutto ciò, è insostenibile. Proprio dalla consapevolezza che la situazione non può perdurare nasce l´inasprimento continuo dei tassi di interesse in Spagna.

In un certo senso, non interessa davvero in che modo la penisola iberica sia arrivata a questo punto, ma – per quel che può valere – il caso della Spagna non è conforme alla retorica morale così diffusa tra le autorità europee, specialmente in Germania. La Spagna non è stata sregolata dal punto di vista fiscale: alla vigilia della crisi aveva un basso indebitamento e un´eccedenza di bilancio. Sfortunatamente, però, aveva anche un´enorme bolla immobiliare, una bolla dovuta in gran parte agli ingenti prestiti concessi dalle banche tedesche alle loro controparti spagnole. Quando la bolla è scoppiata, l´economia spagnola si è ritrovata a secco. I problemi fiscali della Spagna sono una conseguenza della sua depressione, non ne sono la causa. Manco a dirlo, la cura prescritta da Berlino e Francoforte è stata una sola: sì, avete indovinato, un ulteriore irrigidimento dell´austerità fiscale.

Questa – se vogliamo dirla tutta e con schiettezza – è pura follia. L´Europa aveva sperimentato per molti anni inflessibili programmi di austerità, con risultati che qualsiasi studente di storia avrebbe potuto anticipare: simili programmi spingono le economie depresse ancor più a fondo nella depressione. E dato che quando gli investitori devono valutare la capacità di un paese di ripagare il proprio debito ne studiano accuratamente la situazione economica, i programmi di austerità non hanno mai funzionato neppure per diminuire i tassi di interesse.

Qual è l´alternativa? Beh, negli anni Trenta – un´epoca che la moderna Europa sta iniziando a ricalcare in modo sempre più fedele – il requisito basilare per la ripresa fu uscire dal sistema aureo (gold standard). Oggi una mossa equivalente sarebbe uscire dall´euro e ripristinare le valute nazionali. Si potrebbe affermare che ciò è inconcepibile, e senza dubbio si tratterebbe di una soluzione dirompente, dalle enormi ripercussioni sia a livello economico sia politico. D´altro canto, a essere davvero inconcepibile è l´idea di poter continuare lungo questa strada e imporre un´austerità sempre più intransigente a paesi che già soffrono per una disoccupazione a livelli da Grande Depressione.

Se dunque i leader europei volessero veramente salvare l´euro, starebbero cercando una valida alternativa. L´alternativa possibile sta assumendo di fatto una forma molto chiara: il continente europeo ha bisogno di politiche monetarie più espansive, sotto forma di una disponibilità – una disponibilità dichiarata – da parte della Banca centrale europea ad accettare un´inflazione un po´ più alta. Ma l´Europa ha bisogno anche di più espansive politiche fiscali, sotto forma di sistemi di compensazione tra i budget tedeschi e quelli di paesi in difficoltà come la Spagna e altre nazioni inguaiate della periferia europea. Anche così, con queste politiche, le nazioni della periferia d´Europa dovranno affrontare anni di difficoltà. Ma, quanto meno, qualche speranza di ripresa potrebbe esserci.

Ciò a cui stiamo assistendo, invece, è una totale mancanza di flessibilità. A marzo i leader europei hanno firmato il fiscal pact, un´intesa che di fatto trova la risposta a ogni tipo di problema soltanto nell´austerità fiscale. Nel frattempo, gli alti funzionari della Banca centrale si piccano di sottolineare che al minimo segnale di un aumento dell´inflazione la Banca alzerà i tassi.

In conclusione, quindi, è davvero difficile sottrarsi a un certo senso di disperazione. Invece di ammettere di aver sbagliato, i leader europei sembrano determinati a spingere l´economia nel baratro – e con essa le loro società. E a pagarne le conseguenze sarà il mondo intero.

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Veramente il governo Monti sta fallendo i suoi obiettivi?

Piotr (Пётр)
www.megachipdue.info

Paul Krugman pochi giorni fa su “La Repubblica” ha scritto che l’Europa deve disfarsi dell’euro e tornare alle monete nazionali per puntare ad un tentativo di ripresa neo-keynesiana. Anche questo autorevole economista, così come molti suoi colleghi italiani antiliberisti, pensa in qualche misura che sia possibile un ritorno al “ventennio d’oro” del dopoguerra.

Ho esposto in varie riprese perché ritengo quest’idea un’illusione, dato il particolarissimo concorso di fattori politici, geopolitici e di disponibilità di risorse che portò a quel poderoso sviluppo materiale e alle forme politiche e sociali che assunse. Basti pensare che esso seguì un’imponente distruzione di capitali dovuta alla guerra dei “trent’anni” (1914-1945) seguita ad un’altrettanto imponente capacità da parte degli Stati Uniti, vincitori, di egemonizzare, dominare e coordinare i processi di accumulazione mondiali. Senza contare la forza dei movimenti comunisti ed operai seguita alla sconfitta del fascismo, la presenza dell’Unione Sovietica e i successi dei movimenti di liberazione nazionale.

Che la finanziarizzazione, il neoliberismo e la cosiddetta “globalizzazione” siano state risposte alla fine di quella fase propulsiva keynesiana in Occidente è un’ipotesi che non viene mai presa in considerazione dagli economisti, critici e non, se si eccettuano pochissime e inascoltate eccezioni (una per tutte: Giovanni Arrighi). Si riesumano così le vecchie ricette sperando che funzionino ancora.

Krugman afferma con passione che i dirigenti europei sono dei folli a continuare sulla strada dell’austerità. È un po’ quanto pensa anche la maggioranza della sinistra di opposizione italiana che è convinta che Monti stia andando verso una sconfitta rispetto ai propri obiettivi perché l’austerità è destinata ad avvitare su se stesso il problema del debito, dato che essa sta portando dritta verso una lunga recessione se non ad una depressione.

Che questo sia una sconfitta rispetto agli obiettivi dichiarati è palese. Ma non sono così tanto sicuro che sia una sconfitta rispetto ai piani reali dell’attuale governo e di alcuni potentissimi settori capitalistici. È chiaro che sono al lavoro varie tendenze e direttive contrastanti che riflettono strategie e preoccupazioni economico-finanziarie, politiche e geopolitiche differenti. Ma in sé le crisi, e specialmente le lunghe crisi strutturali, sono sempre state momenti di grandiose riorganizzazioni del potere capitalistico. Già Marx aveva capito benissimo che durante le crisi la centralizzazione del capitale marcia a ritmi che non le sarebbero consentiti dal processo normale di accumulazione.

Proviamo allora a mettere tra parentesi per un momento la supposta fobia tedesca per l’inflazione o gli amorosi sensi dei dirigenti europei per il monetarismo, per il neo-liberismo e i per i banchieri e proviamo a immaginarci un altro scenario.

Se l’accumulazione capitalistica è, come penso che sia, una forma di lotta per il potere, la tripla recessione (depressione) – finanziarizzazione – centralizzazione potrebbe non essere una strategia così sbagliata per il capitalismo europeo, conscio che con i BRICS c’è poco da entrare in competizione sul piano industriale, se non per i prodotti ad alto valore aggiunto e probabilmente per l’agribusiness (settore strategico), e che un rilancio keynesiano è con tutta probabilità un’utopia. Che poi quella strategia comporti una sorta di medioevo sociale è l’ultima delle preoccupazioni dei decisori, che la ascriveranno alla rubrica “mantenimento dell’ordine”.

Il prossimo grande scontro intercapitalistico potrebbe verosimilmente svolgersi per il controllo geopolitico dei mercati finanziari. Se ciò è vero siamo alla vigilia di un periodo molto buio (la spremitura selvaggia della natura e della società, così come la conquista guerriera di posizioni geostrategiche sono in quest’ottica dei “collaterali di garanzia” per le strategie di alleanza con i grandi centri finanziari).

Se è così riesco a dare un senso ad un’affermazione un po’ criptica (e per altro imprecisa) dell’ultimo Latouche:

“Quello che ci attende, se non cambieremo rotta, è ancora peggiore: un razionamento drastico del denaro, che provocherà conflitti planetari sempre più violenti; una situazione del genere farà da brodo di coltura per movimenti fascisti e xenofobi, di cui già vediamo le avvisaglie e che in un futuro prevedibile si incaricheranno della gestione della penuria con sistemi autoritari.” (Serge Latouche, “Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita”. Bollati Boringhieri, 2012, pag. 27)

Se si sostituisce “razionamento drastico del denaro” con “lotta per il controllo dei mercati finanziari” probabilmente guadagniamo in precisione.

Sostituiamo poi “movimenti fascisti e xenofobi” con “reazione di amplissimi strati sociali che saranno progressivamente depauperati” (reazione che ovviamente può essere facilmente intercettata da quel tipo di movimenti in assenza di un progetto progressivo ed emancipativo; è storico) e allora possiamo arrivare alla conclusione che l’autoritarismo richiesto per controllare la situazione non sarà appannaggio di quei movimenti, ma di una “autocrazia tecnico-politica” di cui stiamo vedendo i primi passi.