I cardinali dell’economia e il cannocchiale di Galileo

Barbara Spinelli
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Gli artefici del Fiscal Compact cominciano a intuire il fallimento cui condurranno le loro politiche di austerità. Il ritorno della questione sociale costringe i capi d’Europa a svegliarsi, almeno un poco, dal dogmatismo ideologico nel quale per anni sono stati immersi: quello secondo cui «la politica è inutile, le Costituzioni pure. Il Mercato è la Bibbia, e protegge il potere di chi lo onora».

«Tutte le riforme strutturali che stiamo adottando, tutte le misure per sanare il deficit di bilancio, non producono di per sé crescita: sono, semmai, deflazionistiche. Perché se un paese diventa (grazie a esse) produttivo e competitivo, e manca però la domanda dei suoi prodotti, la crescita non si materializzerà». Lo ha detto giovedì scorso a Bruxelles Mario Monti, ed è un segnale forte che viene dall’Europa, un primo momento di verità e ripensamento da quando, due anni fa, cominciò la crisi greca.

È come se il cardinale Bellarmino, incaricato dalla Chiesa di condannare Galileo, guardasse infine nel cannocchiale fabbricato dall’eccentrico scienziato, e vedesse che la terra effettivamente si muove, non è il centro dell’universo. I custodi della verità rivelata non usano guardare il mondo. Nel Galileo di Brecht dicono: “Non è necessario sapere come cade un sasso, ma quel che in proposito ha detto Aristotele. Gli occhi, li abbiamo solo per leggere”.

Di questi tempi è l’Europa a muoversi, turbando i sacerdoti dell’ortodossia economica. Domenica si vota in Francia, Grecia, Italia, fra poco si voterà in Olanda, e non si può restare appesi all’antico dogma come se nulla fosse, ignorando l’evidenza empirica. Gli artefici del Patto di bilancio (fiscal compact) – fra essi il presidente del Consiglio italiano – lo sentono, e imparano a dubitare di se stessi. Forse durerà lo spazio d’un mattino, ma la realtà che vedono col cannocchiale è ben diversa dalla fede che li ha abitati tanto tempo. Non solo si è aperto un fossato fra discipline decise dai governi e aspettative dei popoli. Anche tecnicamente, discipline e sacrifici hanno senso a certe condizioni, che però mancano: senza domanda e investimenti pubblici, il Patto firmato a marzo da 25 governi non si limita a frenare la crescita. Crea addirittura deflazione, dunque ancor più disoccupazione.

François Hollande, candidato socialista all’Eliseo, lo sostiene da mesi. È stato perfino boicottato dai demiurghi del fiscal compact, se è vero quello che Spiegel scrisse in marzo: ben tre capi europei – Merkel, Monti, Cameron – tifarono per Sarkozy, rifiutando ogni incontro con Hollande. La Grecia è il laboratorio di questa nuova paura delle elezioni, dell’alternanza. Senza dirlo, la democrazia è vista come parte del problema, non come soluzione. Senza dirlo, ci si prepara a sacrificare Atene, per meglio convincere il popolo tedesco a proteggere Italia e Spagna dal collasso. La logica del capro espiatorio diverrebbe il nuovo cardine dell’Unione europea.

Ma è una logica fallimentare, e il ritorno della questione sociale costringe i capi d’Europa a svegliarsi, almeno un poco, dall’apatia dogmatica in cui per anni erano immersi, alla stregua d’un seicentesco Santo Uffizio. Per l’Uffizio ogni dubbio è sospetto, e solo parlare di investimento pubblico e di eurobond equivale all’eretico “periculum magnum” paventato dal cardinale Bellarmino. Anche su questo Monti ha detto cose nuove a Bruxelles. La spesa pubblica continua a essere bandita. L’aggettivo keynesiano resta un marchio negativo (come l’aggettivo “protestante” ai tempi di Galileo). Ma l’idea del premier non è così lontana dal rilancio keynesiano: «L’investimento pubblico non è necessariamente peggiore del consumo privato, per l’economia europea, anche se l’attuale quadro politico vede le cose in questo modo».

Scosse simili sono benefiche per l’Europa, e tante ancora ce ne vorrebbero. Sono scosse dell’evidenza, del realismo. Kant le chiamerebbe scosse dei Lumi. Cos’altro è infatti il «quadro politico» indicato da Monti, se non l’anti-sperimentalismo di una chiesa che antepone al reale la Dottrina? Al posto del popolo sovrano viene intronizzata un’autorità superiore, il mercato: l’unica verso cui i governi sono responsabili. La necessità non si abbina alla libertà, ma la sopprime. È significativo quel che ha detto Merkel, prima di correggersi: «Saranno i mercati, in quattro settimane, a riportare Hollande sulla retta via». La politica è inutile, le Costituzioni pure. Il Mercato è la Bibbia, e protegge il potere di chi lo onora.

È questo stravolgimento della democrazia europea che vacilla, e non solo perché la sinistra non ci sta, neanche in Germania. Ovunque, sono le destre estreme a combattere il rigore: a opporre il popolo alle élite, il paese reale al paese legale, la democrazia diretta a quella rappresentativa, la nazione che fa da sé all’Europa. Sono tutti slogan degli anni ’30, e se il “quadro politico” rimane quello che è, se l’euro si sfascia, è quell’epoca che ritorna, quando la deflazione precipitò i popoli nella disperazione sociale, poi nelle dittature e nelle guerre. La pressione di Monti sulla Merkel, perché il fiscal compact non sia più solo un patto disciplinare, è frutto di questa consapevolezza. Alla lunga, il rigore tedesco è rigor mortis.
I tecnici stessi rischiano di divenire parte del problema, se non intuiscono che urge fare presto l’Europa politica, e affiancare ai fatui Stati-nazione un potere federale, simile a quello sorto in America contro l’idea d’una Confederazione di governi sovrani. Quando a comandare è un tecnico, il popolo si coalizza contro élite e partiti. È quando pacificamente si divide che la democrazia rinasce.

Anche l’unità del popolo può divenire un dogma. Il popolo si ricompatta in guerra. Si «fa grumo», dice Alberto Savinio. Se è democratico ha bisogno vitale di dividersi, lungo linee che mutano col tempo. Oggi la linea divisoria è tra chi vuole l’Europa politica e chi la rifiuta (ma non è stato sempre così, da quando De Gasperi difendeva la Federazione contro la Confederazione?). Ed è, nelle singole nazioni, tra chi cavalca le rivolte del popolo ricompattato e chi si rifiuta di farlo. La rabbia di Monti contro chi appoggia le rivolte fiscali pur sostenendo i tecnici è più che giustificata.

In questo terremoto barcollano in primis le destre classiche, conservatrici o liberali. Lo si vede in Francia, Grecia, Olanda: ovunque le destre estremiste conducono le danze, chiedendo l’uscita dall’euro. Davanti a loro si inginocchiano, tremebondi, ricattati, il presidente Sarkozy, l’olandese Rutte, il leader della destra greca Samaras. Quanto alle sinistre, si tratta di reinventare un riformismo che non scommetta tutto sulle superiori ragioni del mercato. È in pezzi la Terza Via, che Schröder riassunse così: «Non esiste una politica economica di destra o sinistra. Esiste una politica economica buona o cattiva». Ma buona o cattiva come? Per l’insieme della società o per pochi? Oggi i populismi antieuropei s’appropriano dello slogan: «C’è solo una politica giusta o cattiva, e giusto è il nazionalismo, è l’uscita dall’Unione».

Lo scontro non è necessariamente quello cui pensano Monti e la Merkel, nel patto d’alleanza descritto da Francesco Bei su Repubblica: non è tra keynesiani e non keynesiani. È fra una crescita che presuppone l’Europa politica, e la falsa crescita garantita da nazionalismi e xenofobie. Hollande non fa parte della seconda linea. Ma le nuove destre sì, e anche i movimenti che non sono di destra, come quello di Grillo. Gli elettori del Movimento 5 Stelle forse lo sanno, anche quando non l’ammettono: la fine dell’euro, i diritti di cittadinanza negati agli immigrati, sono parole d’ordine dell’estrema destra europea.

L’Europa non deve diventare, nella mente dei suoi cittadini, l’alter ego dei mercati: forza anonima che ci governa, spazio globale sul quale non abbiamo influenza e che ha un’unica politica, sacralizzata. È ora che l’Unione si veda attribuite le caratteristiche del sovrano democratico, e sappia dire la sua sull’economia, la giustizia sociale, la politica estera, scegliendo tra varie opzioni e non esaltandone una soltanto. È questa la terra promessa che i padri dell’Europa hanno indicato, per uscire dai nazionalismi, dalle loro guerre, dalle loro menzogne, dalle loro ideologie del grumo.