Il mercato è divenuto la sola misura dell’esistere

Nicoletta Pirotta – IFE (Iniziativa Femminista Europea)
www.womenews.net

Intervento nell’assemblea di Firenze (28 aprile 2012) sul “manifesto per un soggetto politico nuovo”

Non voglio essere uguale a chi mi opprime ma voglio impegnarmi per modificare le strutture che determinano l’oppressione. Lo voglio fare non solo perché donna, condannata ad essere secondo sesso a prescindere, ma in quanto essere umano e mi piacerebbe che le donne e gli uomini che vogliono cambiare il mondo agissero questo conflitto e questa rottura.

“Pensano solo ai loro interessi ed al loro tornaconto” “Sono tutti uguali” “La politica è una cosa sporca” “Se ne devono andare tutti”

Nei luoghi di lavoro, al bar, al supermercato, per la strada si ascoltano sempre più spesso queste frasi ripetute all’infinito. E si avvertono perfettamente la collera ed il rancore verso partiti politici ritenuti sempre più lontani, distanti, addirittura nemici.

Non voglio generalizzare né fare di tutta l’erba un fascio perché io non credo che siano davvero uguali, ma la deriva dei partiti politici e la loro separatezza dal mondo reale è sotto gli occhi di tutte e tutti.

Secondo l’articolo 49 della Costituzione Italiana i partiti dovrebbero essere una libera associazione di cittadini che concorrono in modo democratico a determinare la politica nazionale.
La Costituzione dunque delinea in modo incisivo e chiaro la loro funzione strumentale rispetto all’attuazione del principio democratico e della sovranità popolare.

Dovremmo riscoprire e rivitalizzare questa funzione ed insieme ridare alla politica il più alto significato di partecipazione alla vita della “polis” , di azione trasformatrice della realtà e di governo di interessi collettivi. Negli anni ’70 il movimento delle donne diede corpo alla democrazia e alla politica affermando che “il personale è politico”, oggi, la politica rischia di essere drammaticamente solo un fatto privato.

Credo però che non si possa rivitalizzare la politica e dare sostanze alla democrazia se non riannodano i fili spezzati fra questione democratica e questione sociale.

In questi anni feroci di applicazione ed ora di crisi del modello neoliberista abbiamo visto l’affermarsi di una rappresentanza politica mistificata, ascoltato l’elegia del privato ed osservato la corruzione dilangante.
Ed intanto il mercato è divenuto la sola misura dell’esistere (consumatrici e consumatori più che cittadini) ed il lavoro che, pur dentro l’alienazione imposta dai sistemi di poitere dominanti , era divenuto , nella pratica conflittuale, “organizzatore di soggettività individuali e collettive autonome e consapevoli” (in particolare per le donne che attraverso il lavoro hanno avuto la possibilità di iniziare, in ogni parte del mondo un processo emancipatorio se non ancora liberatorio) precarizzandosi ridiventa strumento per l’affermazione di dinamiche competitive, individualistiche che producono conflittualità orizzontale, solitudine, paura del futuro.

Per chi ancora crede possibile un cambiamento non resta che rassegnarsi o scegliere il meno peggio?
Il manifesto per un soggetto politico nuovo prova a sottrarsi a questa scelta. Rifiutando di crederla ineluttabile.
Prova cioè a rimettere in circolo una speranza: quella di promuovere un “senso comune” nuovo in grado di dare prospettiva politica alla comune volontà di trasformazione dell’esistente.

In un’epoca segnata dalla solitudine e dall’estranazione il manifesto desidera contribuire al formarsi di una rinnovata coscienza di sé e del mondo sia nella sfera materiale e che in quella simbolica, nella realtà oggettiva come in quella soggettiva.

Per tentare questa appassionante impresa il manifesto propone di abbandonare le facili semplificazioni ed invita a studiare, porre e porsi le domande giuste, ricercare risposte adeguate, sperimentare metodologie corrette, darsi regole efficaci, agire pratiche coerenti.
E ripartire dai principi, per condividerli e risignificarli alla luce dell’oggi.

Ne voglio sottolineare due: l’eguaglianza e la laicità.

Un’“eguaglianza” però che non si limiti alle “pari opportunità” cioè ad accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma che diviene un processo in grado di “sovvertire l’esistente”. Un principio di eguaglianza che sappia essere organizzatore di pensiero e di politica capace di rivoluzionare le strutture, personali e collettive, che determinano ineguaglianza e asimmetria di potere.

Non voglio essere uguale a chi mi opprime ma voglio impegnarmi per modificare le strutture che determinano l’oppressione. Lo voglio fare non solo perché donna, condannata ad essere secondo sesso a prescindere, ma in quanto essere umano e mi piacerebbe che le donne e gli uomini che vogliono cambiare il mondo agissero questo conflitto e questa rottura.

E poi la laicità. In un’epoca come quella attuale di grandi migrazioni che fanno convivere in uno stesso luogo culture e tradizioni differenti, il principio di laicità diventa essenziale.
E lo diventa non solo nel suo più alto significato di separazione fra Stato e Chiesa (intesa come gerarchia) e di distinzione fra secolarizzazione e religiosità ma anche come capacità di abbandono di dogmi, di fanatismo e di fondamentalismo, in particolare religiosi.
La laicità dunque come principio di governo della propria vita che rinvia all’autonomia soggettiva e si sostanzia nel potere di autodeterminazione di se stesse e se stessi.

Perché questo possa accadere serve partecipazione. Non una partecipazione formale o generica ma intesa come dimensione collettiva capace di agire il conflitto con la passione per il bene comune.

Un’amica francese dell’iniziativa femminista europea di cui faccio parte dopo l’esito del primo turno delle elezioni francesi, visti gli oltre 6 milioni di voti all’estrema destra del Front National raccolti sooprattutto fra il ceto medio-basso nelle regioni più colpite dalla crisi economica, ricordava l’esigenza di diventare partigiane di beni comuni, alludendo alla necessità di una liberazione, personale e collettiva, dalle compatibilità imposte da sistemi di potere escludenti . E’ una definizione che faccio mia e che propongo anche a voi pochi giorni dopo il 25 aprile.

Mi sembra un buon modo di definirci nel momento stesso in cui qui a Firenze diamo alla luce il “ manifesto per un soggetto politico nuovo” e cominceremo a sentirlo respirare e a vederlo muoversi nelle azioni che decideremo di agire insieme.

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Conflitto, partecipazione

Anna Picciolini
www.womenews.net

Vorrei mettere l’accento su due termini, uno la cui (quasi) assenza dal manifesto ci è stata immediatamente imputata come grave lacuna, l’altro la cui presenza ripetuta (18 volte) ha fatto dire che ad esso attribuivamo un valore eccessivo.

Il primo termine è conflitto. Il secondo è partecipazione. A me interessa soprattutto metterli in stretta relazione l’uno con l’altro. Premetto che uso il termine partecipazione e non democrazia partecipativa, per tenere insieme, ai fini del ragionamento, sia la partecipazione a processi decisionali nelle istituzioni, che quella che si pratica in un soggetto collettivo come siamo noi.

Il termine conflitto è nominato solo una volta, quando si afferma l’esigenza che il soggetto nuovo sia inclusivo, capace di contaminare e ibridare identità differenti, che, se chiuse e separate, entrerebbero in conflitto.

Ma, a mio avviso, di conflitto parla, sottotraccia, tutto il manifesto, perché il conflitto non c’è bisogno di dichiararlo, semplicemente c’è. C’è sempre di fronte alla necessità di condividere un bene finito. Rivale è colui che attinge l’acqua allo stesso fiume, rivo per i latini. Un bene comune di solito, prima di essere riconosciuto come comune, è un bene finito. Ma il conflitto si dà anche ogni volta che due o più persone condividono un progetto.

Il conflitto sociale ha entrambe le radici: la necessità di definire, regolare, l’accesso alle risorse e il fatto di condividere un progetto, dovendo verificare di esso fini, metodi, tappe, passaggi, alleanza, ecc.

La guerra è un modo sbagliato di affrontare e gestire un conflitto, perché punta a distruggere, eliminare, nella migliore delle ipotesi schiavizzare uno dei soggetti che confliggono.

La partecipazione è, a nostro avviso, il modo migliore per uscire da un conflitto attraverso quello che si definisce “gioco a somma positiva”, in cui cioè non è detto che uno vinca e l’altro perda, e che la perdita di uno corrisponda alla vincita dell’altro, ma si può vincere entrambi, e si deve, se si vuol continuare a vivere insieme. Meglio, forse, se non vince nessuno, nell’accezione abituale di “vincitore e vinto”.

La partecipazione però non può essere ridotta a mezzo di soluzione dei conflitti. Non sarebbe male, ma sarebbe poca cosa rispetto alle sue possibilità. La partecipazione è anche il metodo per prevenire i conflitti (laddove ci potrebbero essere, anche se non ci sono) per valorizzare competenze, saperi diffusi, capacità, che molti e molte hanno, senza avere la possibilità di metterle in gioco.

Io credo però che ci siano due conflitti cruciali nel nostro mondo, nel nostro presente, che la partecipazione non può pretendere di risolvere.

Il primo, scusate la definizione secca, è il conflitto capitale-lavoro. Il secondo, e la definizione è altrettanto secca, è quello fra uomini e donne. Entrambi conflitti che oggi vengono gestiti con metodi che non è eccessivo chiamare guerra. So bene che capitale e lavoro oggi sembrano entrambi vittime della finanza internazionale, ma rimando a Gallino che parla di finanzcapitalismo e di lotta di classe.

Il conflitto capitale-lavoro lascia “sul campo” feriti e morti. Morti e feriti per l’insufficiente applicazione delle norme sulla sicurezza, quando ci sono; morti e feriti, più difficili da riconoscere, vittime della disoccupazione, della precarietà dello sfruttamento.

Solo per la prima categoria, i morti “ufficiali” sul lavoro, sappiamo dall’Inail che nel 2010 si è trattato di quasi tre morti al giorno (980 per l’esattezza). Il dato è in diminuzione negli ultimi anni, perché si lavora di meno, e comunque è sempre sottostimato, perché dentro non ci sono i lavoratori al nero. Il dato non comprende gli incidenti domestici, che colpiscono prevalentemente le donne. E tralascio le cifre enormi delle vittime di infortuni, parte delle quali ne subiscono effetti permanenti.

Il conflitto fra uomini e donne lo si vede di meno, ma fonti internazionali affermano che in Italia il femminicidio, cioè l’uccisione di una donna perché è donna, è la prima causa di morte per le donne fra i 16 e i 44 anni. Negli ultimi anni si è calcolato che, sempre in Italia, ogni tre giorni sia morta ua donna per mano di un uomo con cui, nella stragrande maggioranza dei casi, aveva una relazione. Ma nei primi mesi del 2012 l’intervallo fra una morte e l’altra è sceso a due giorni. Anche qui tralascio le violenze minori, quelle che non hanno come risultato la morte.

Arrivo rapidamente alla conclusione. Come la partecipazione può dare risultati non soltanto nelle situazioni conflittuali, ci sono conflitti nei quali la partecipazione può fare ben poco. In questi casi ci possono aiutare:
– un cambiamento dell’atteggiamento culturale;
– un miglioramento nella qualità delle relazioni;
– una normativa efficace, perché semplice da fa applicare.

Non voglio essere fraintesa: nel conflitto capitale-lavoro credo che le relazioni da rafforzare sino quelle fra lavoratori e lavoratrici, in modo che non possano essere messi gli uni contro gli altri, le une contro le altre, a tutto vantaggio di chi il lavoro lo domina e lo sfrutta.

Nel conflitto fra uomini e donne, sono invece certamente le relazioni fra le persone che devono mutare, rompendo stereotipi, spesso interiorizzati anche dalle vittime.

In entrambi i casi un soggetto politico nuovo può e deve avere molto da fare e da dire.