Il Paese dei penultimi

Ilvo Diamanti
la Repubblica, 30.04.2012

Il primo maggio, quest’anno, rischia di essere una festa triste per i protagonisti. I lavoratori. Ma anche il lavoro. Come fonte di reddito. Come riferimento dell´identità e come risorsa di promozione sociale. Il lavoro. Principio della Repubblica, sancito dalla Costituzione. Oggi è divenuto incerto.
Insieme alla struttura sociale, di cui è base e fondamento. L’Osservatorio su Capitale Sociale di Demos-Coop, infatti, rileva come oltre metà degli italiani (il 53%) percepisca la posizione sociale della propria famiglia “bassa” o “medio-bassa”. Il che significa: oltre 11 punti in più rispetto a un anno fa. E soprattutto: quasi il doppio rispetto al 2006.

Detto in altri termini, in pochi anni, l´Italia è divenuto un Paese di “ultimi”. O, al massimo, di “penultimi”. Dove il 37% delle persone insiste a considerarsi parte della “classe operaia” (e il 15% delle “classi popolari”). Anche se pare che gli operai non esistano più.

La fine del berlusconismo ha, dunque, decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po´ di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il “sogno italiano”, interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono “ceto medio” sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi.

Mentre il “mito dell´imprenditore” appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%. Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l’impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell’anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste.

Nonostante che, nell’ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato “regolarmente tutti i mesi”. O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro.

Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l´ottimismo. Fino a un anno fa, era l´ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo “nazionale”. Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po´) comunisti. Nel 2003, circa il 40% degli italiani si diceva soddisfatto della condizione economica personale e di quella del Paese. Oggi quelli che esprimono la medesima convinzione sono poco più del 10%. In confronto all´anno scorso: la metà.

D’altronde, nell´ultimo anno, il 45% degli italiani afferma di aver tirato avanti a fatica, con il proprio reddito, senza riuscire a metter da parte nulla. Oltre il 40% dichiara, anzi, di aver dovuto attingere ai propri risparmi oppure di aver fatto ricorso a prestiti. Insomma: di essersi impoverito.
Non a caso, negli ultimi due anni, il 62% delle persone (intervistate da Demos-Coop) ritiene che la propria condizione economica sia “peggiorata”.

Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di “perdenti”. Gli “ultimi”, coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai “penultimi”, quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno.

Rispetto a qualche anno fa, il ritratto tracciato dall´Osservatorio di Demos-Coop descrive un altro Paese. Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il “prossimo” si è eclissato e gli “altri” ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri.