Chi ha paura delle elezioni

Barbara Spinelli
Repubblica, 9 maggio 2012

Tutti ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s’accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: “La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l’indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata”. Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne.

“La sola cosa che l’Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza”.

È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l’economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest’anno dall’Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell’Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.

I capi d’Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se
son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice.

In Grecia il partito d’estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni ’30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. “L’Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt”: non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un’Unione più forte.

Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch’essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d’Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio – e capro espiatorio – agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.

Hollande ha in mente non solo l’economia, ma anche l’inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall’Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: “È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l’hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l’incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell’etica militare per l’incapacità di gestire l’eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati”.

Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L’Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l’Europa a esser sordo-mute, non all’altezza.

Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un’Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un’unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un’ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.

Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell’austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell’antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un’agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un’Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser “solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta”. Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d’accordo.

La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l’Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell’Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l’economia al posto degli Stati costretti al rigore.

La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall’Unione, non da un Paese isolato. L’idea di Kohl, quando nacque l’euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell’Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino.

Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l’Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d’esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l’ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un’occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.