Da Varese all’Empireo: la restaurazione conservatrice di Mario Monti

Pierfranco Pellizzetti
www.micromega.net

“Senza dubbio il ritorno alla civiltà delle buone maniere dopo tanta sguaiataggine risulta un bel salto di qualità. Purtroppo si tratta semplicemente di far digerire all’intera società una cura da cavallo che colpisce i deboli e gli indifesi; senza toccare minimamente il sistema dei privilegi che ha succhiato ogni linfa vitale dal corpo anemizzato del Paese”. Esce oggi in libreria per le edizioni Aliberti “C’eravamo tanto illusi. Fenomenologia di Mario Monti” di Pierfranco Pellizzetti (Aliberti). Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo il capitolo conclusivo.

«Il primo passo è l’individuazione dei detentori legittimati del potere e dell’autorità in un dato campo sociale. Questa categoria fortunata di persone ha avuto il dono prezioso di due forme di capitale, economico e simbolico. Il capitale simbolico è qualsiasi cosa il cui possesso ratifichi il privilegio» [1]
Mary Douglas

L’irresistibile ascesa

«Quando parla Monti avverto lo spirito santo che gli trasmette la Banca centrale europea. Notate, cavolo, le sue espressioni: “basta monotonia, sintonizziamoci con Bruxelles”».[2] Sta parlando Carlo Freccero, noto semiologo del mezzo televisivo e direttore scanzonato di RaiQuattro.

Partendo dalla natia Varese, la lunga scalata compiuta da Mario Monti nella sua straordinaria carriera di successo – come si è potuto constatare – ha trovato le sue migliori correnti ascensionali più nella frequentazione di prestigiosi consigli di amministrazione che non nelle aule universitarie. Presenze ai vertici tra cui – oltre la già citata in Fiat – vengono segnalate quelle in Assicurazioni Generali e Banca Commerciale Italiana (Comit), dove ha ricoperto la carica di vicepresidente nel biennio 1988-1990.

Risulta perfino advisor della Coca-Cola. Contemporaneamente – in base a quanto si ricava dalle note ufficiali – è stato chiamato a rivestire incarichi di rilievo in commissioni governative e parlamentari: relatore della Commissione sulla difesa del risparmio finanziario dall’inflazione (1981), presidente della Commissione sul sistema creditizio e finanziario (1981-1982), membro della Commissione Sarcinelli (1986-1987) e del Comitato Spaventa sul debito pubblico (1988-1989).

Come si può facilmente notare, un cursus honorum che ha sempre privilegiato l’accesso “accreditante” ai santuari del denaro (e – detto per inciso – quando abbia trovato il tempo per svolgere le normali funzioni di docente resta ancora un mistero. Ma questa è l’italica Accademia, dove – parafrasando quanto diceva quello sdegnato spiritaccio di Karl Kraus riguardo alla burocrazia viennese [3] – vige il dogma per cui gli studenti sono stati creati allo scopo di far perdere tempo ai docenti).

A detta di chi lo conosce, il vero salto di qualità Monti lo compie nei dieci anni trascorsi a Bruxelles, indossando le vesti da Commissario europeo. Di cui si raccontano le epiche battaglie per il controllo della concorrenza, iniziate con il procedimento contro la Microsoft e proseguite bloccando nel 2001 la proposta di fusione tra General Electric e Honeywell. La lotta di un Davide liberista contro arci Golia monopolisti? Così ci è stata narrata.

Proprio alla luce di quanto si è venuto dicendo fino ad ora si potrebbe, invece, interpretare la vicenda complessiva come l’ennesima riprova – estetica e caratteriale – della prevalenza accordata all’Ordine (contro il disordine impersonificato da quel barbaro saccheggiatore di Bill Gates e dalla gente della sua risma). Anche perché, altrimenti, non si comprenderebbe la sua cooptazione nei circoli e nei pensatoi internazionali più esclusivi, dove i potenti si incontrano e relazionano lontano da occhi indiscreti: è stato il primo presidente del “Bruegel”, un think tank nato a Bruxelles nel 2006 con il finanziamento di ventotto società multinazionali, l’anno prima entrava in Goldman Sachs, quale membro nel Research Advisor Council del Goldman Sachs Global Market Institute, dal 2010 assume la presidenza europea della Commissione Trilateral, fondata nel 1973 dal banchiere David Rockefeller, è membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg.

Quale riprova dell’atmosfera che si respira a quei livelli, valga per tutti gli altri il “caso Commissione Trilateral”, che nel 1975 diffondeva un famoso “Rapporto”, stilato dal francese Michel Crozier, l’americano Samuel Huntington (sì, il teorico dello Scontro di Civiltà e il giapponese Joji Watanaki; ai cui lavori avevano preso parte – tra gli altri – oltre allo stesso Rockefeller, il nostro Avvocato Agnelli, il futuro presidente americano Jimmy Carter, il primo ministro francese Raymond Barre e Warren Christofer, poi segretario di Stato americano. Il succo del Rapporto era la denuncia di un «eccesso di democrazia»: nelle società occidentali, impegnate ad affrontare la crisi determinata dall’aumento del barile di petrolio dopo la guerra del Kippur e conseguente embargo energetico dell’Opec (l’organizzazione dei Paesi produttori), il “costo democratico” era ormai diventato insostenibile!
Potremmo far coincidere la fine del Capitalismo amministrato e l’irrompere del Turbocapitalismo proprio con la pubblicazione di quelle tesi.

Invece – tornando al “caso Monti” e al suo curriculum tecnocratico – quello che spicca immediatamente agli occhi è il più che brillante palmares di un assiduo frequentatore dei piani nobili del Potere.
Come si dice a tali altitudini, “one of the boys”. Una vicenda e una collocazione sociale che presentano singolari analogie con quella di un altro “Supermario”, pure lui Goldman Sachs advisor e con passaporto italiano: Mario Draghi, il nuovo direttore di Bce, la Banca Centrale europea. Anche se – per il “Super” capitolino – rispetto al corrispondente lombardo – taluni ritengono che gli insegnamenti del suo antico maestro, il grande economista Federico Caffè, abbiano lasciato tracce di un maggiore rigore, in quanto a condiscendenza nei confronti dei diktat del mainstream finanziario.

L’internazionale dei potenti

Ai primi di febbraio, nella sua visita negli Stati Uniti per incontrare il presidente Obama, Mario Monti non ha perso l’occasione di fare un salto a New York e rinsaldare antichi legami. Dopo la Casa Bianca, naturalmente Wall Street.
L’appuntamento è al decimo piano del palazzo di vetro dove ha sede l’agenzia Bloomberg, sulla 59 Strada tra Lexington e la Terza Avenue, per una colazione con una quindicina di big player della finanza americana: George Soros, Henry Kravis del Fondo di Private Equity Kkr e un po’ di “gnomi” della Borsa newyorkese. E non poteva mancare all’appuntamento prezzemolino Goldman Sachs, nella persona del Gran Capo, il chief executive James P. Gorman.

Una vera rimpatriata, come ci ha raccontato Vittorio Zucconi. «L’attesa per Monti l’Americano è acuta, quasi preoccupante. Nelle stanze della grande finanza e dei circoli che contano e muovono i miliardi è ben conosciuto, è stato “one of the boys”, uno di loro, rispettato e riverito». [4]

Così, solo per un istante, abbiamo potuto assistere al prendere forma di quel potere relazionale che governa le scelte mondiali. Il salotto planetario, il club esclusivo di cui il nostro premier ha la tessera di socio: un insider con pieno diritto d’accesso; mentre gli outsider, quelli che non conoscono le regole del gioco e le persone “giuste”, restano fuori della porta. Seppure straricchi, come il molesto barzellettiere Silvio Berlusconi.

Dunque “potere” fondato sulle “legature” interpersonali nella logica delle reti e nel riconoscimento reciproco grazie alla condivisione di aspetti anche informali quali gusti, linguaggi e frequentazioni.
Questo è l’assetto dominante in un’epoca globalizzata e post statuale quale la nostra.
Probabilmente ha ragione il sociologo di Berkeley – il catalano Manuel Castells – quando sostiene che non conviene riesumare la vecchia idea, promossa mezzo secolo fa da Charles Wright Mills, di un’univoca e coesa élite del potere. [5] Perché datata, ormai anacronistica, fumettistica come la Spectre di 007

Si tratta di un’immagine semplificata del potere nella società, il cui valore analitico è limitato ad alcuni casi estremi. È proprio perché non esiste un’élite unificata al potere, capace di tenere sotto controllo le operazioni di programmazione e di commutazione di tutte le reti importanti, che occorre istituire sistemi di imposizione del potere più sottili, complessi e frutto del negoziato. Perché queste relazioni di potere si possano affermare, i programmi delle reti dominanti della società devono porre obiettivi compatibili tra di esse. [6]

Obiettivi compatibili. Dunque:
• dominio del mercato e stabilità sociale;
• potenza militare e prudenza finanziaria;
• rappresentatività politica e riproduzione del
capitalismo;
• libertà di espressione e controllo culturale.

Per inciso: in qualche misura non è traducibile nella succitata sequenza di items anche il nocciolo programmatico del governo guidato da Mario Monti?
Sia come sia, è fondamentale che attraverso tali strutture reticolari gli attori vengano messi in grado di comunicare tra loro, aumentando le sinergie e limitando le contraddizioni. Componendo i ricorrenti conflitti che derivano da interessi contrastanti.
Per questo l’Internazionale globale dei potenti in rete ha bisogno di punti materiali che fungano da centri di raccordo non virtuale delle relazioni: luoghi fisici di rendez-vous e incontro.

Qualche nome di tali luoghi è già saltato fuori: Commissione Trilateral, gruppo Bilderberg… E altri si intuiscono: i summit del G8 come i consigli di amministrazione delle multinazionali sono altrettanti conclavi in cui l’establishment mondiale concorda una visione del mondo ad esso omogenea; che si diffonde grazie a un’intensa azione di proselitismo. Del resto – come è stato più volte osservato – la conversione ideologica in senso ultraliberista dei funzionari internazionali – dal Fmi all’Ocse, al Wto – non si è verificata ex nihilo. Visto che sono state proprio le organizzazioni multilaterali ad accompagnare il capovolgimento delle convinzioni economiche in chiave anti keynesiana-welfariana. A partire dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.

Cominciò sul lago Lemano

Una formidabile opera di networking sottotraccia. La prima maglia della futura rete del comando mondiale venne intrecciata oltre sessant’anni fa, nell’aprile del 1947, agli albori della Guerra Fredda, quando il filosofo liberista Friedrich Hayek convocò in Svizzera, sulle rive del lago Lemano, un manipolo di intellettuali affini, come lui intimamente convinti che «il liberalismo di Keynes era una variante del socialismo con falso nome»: [7] Karl Popper, Wilhelm Röpke, Bertrand de Jouvenel, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Bruno Leoni e pochi altri.

Nasceva così la Mont Pelerin Society, il “network carbonaro” di quelli che allora si definirono “i bolscevichi della libertà”. Che poi così “carbonari” non dovevano essere, se ben presto molti di loro vennero insigniti del premio Nobel per l’economia, strettamente controllato dai banchieri svedesi.
Margaret Thatcher non cesserà mai di sbandierare l’influenza esercitata da quei “liberali da Guerra Fredda” sulla sua carriera politica, sul suo pensiero antagonistico.
Di fatto, quella prima aggregazione un po’ dilettantesca diventò il best practice per le altre a venire, infinitamente meglio strutturate e approvvigionate di quattrini.

Sicché ora, dopo tredici lustri dalla prima riunione della Mont Pelerin, non si contano più i cenacoli internazionali che aggregano i detentori del potere decisionale del pianeta, non tanto per infondere loro coraggio di fronte a un popolo eccessivamente tentato dalle chimere del collettivismo, quanto per rendere più fluido il mercato liberale del mondo, per cancellare i malintesi e gli argomenti di frizione che potrebbero presentarsi e preparare le prossime offensive (istruzione, cultura, sanità). Non si tratta più, come ai tempi di Hayek, di raggruppare gli ultimi mohicani temprandone l’inclinazione alla dissidenza. Le convinzioni economiche sono state sconvolte, gli ex eterodossi sono diventati pietre di paragone del pensiero dominante e mâitres à penser delle organizzazioni intergovernative. [8]

Non si difende più una fede, si diffonde un modello. Serge Halimi, allievo di Pierre Bourdieu e animatore de «Le Monde diplomatique», ha ricostruito con efficacia il climax di questi cenacoli del Potere coperto: «Quelli di Bilderberg si riposano bevendo un bicchiere al bar con Kissinger o Wolfowitz. Jimmy Carter è stato un membro estremamente attivo della Trilaterale; il suo consigliere per la Sicurezza Zbigniew Brzezinski ha diretto tale organizzazione, di cui Raymond Barre ha presieduto una delle riunioni.

Nel 1991, prima di arrivare alla Casa Bianca, Bill Clinton si fece conoscere al di fuori degli Stati Uniti in occasione di una riunione del gruppo Bilderberg, un cenacolo frequentato tuttora da Valéry Giscard d’Estaing. L’americano David Rockefeller o il francese Thierry de Montbrial sono transitati da un’istituzione all’altra. Generali americani, capitani d’industria italiani, uomini politici francesi, banchieri inglesi, editorialisti, laddove si tesse la propaganda della “mondializzazione”: l’accordo tra queste persone, di gradevolissima compagnia, va quasi sempre da sé». [9]

Del resto, ambienti i cui posti sono ricercatissimi; sicché la soddisfazione di far parte di un così prestigioso consesso smussa sul nascere eventuali frizioni. Il tutto favorito dal fatto che le riunioni si svolgono a porte chiuse.
Per fare show ci sono, semmai, le telecamere del Forum di Davos. Dove si possono invitare anche personaggi che non appartengono alla selecta minoria. Compresi gli ultras liberisti, che fanno bene pacchetto di mischia ma che non sempre appaiono presentabili in ambienti felpati e rarefatti. Per cui, magari, domani farà il suo show davanti alle telecamere del Canton dei Grigioni perfino il Michele Boldrin di NoisefromAmeriKa, con tanto di tenuta sbulinata e orecchino sul trucido (ossia il mercatista anarcoide che riceve ancora un certo credito dalle nostre parti; probabilmente grazie al calcolato equivoco di qualificarsi docente di economia “all’università di Washington”: in effetti lui insegna a Saint Louis Missouri, in una facoltà delle Grandi Pianure intitolata al primo presidente americano).
Mentre, dove si conta davvero, sono di rigore luci soffuse, flanelle e gessati d’ordinanza.

Ciò non significa che in questi sobri consessi non vengano prese decisioni di un’assoluta brutalità. Come ci hanno dimostrato i recenti fatti di Grecia. Dove lo zampino di Goldman Sachs ha lasciato tracce abbastanza maleodoranti, quanto evidenti.

Il default greco, spia per un paradigma indiziario

Valga come testimonianza davanti al tribunale dell’umanità nell’ipotetico processo alle malefatte di un primario “azionista del mondo” – quale la succitata banca d’affari di New York – la ricostruzione delle vicende all’origine della catastrofe in cui è stato precipitato il governo di Atene; a firma del giornalista investigativo americano Greg Palast, collaboratore di Bbc, «Observer» e «Guardian».
Una testimonianza che si commenta da sola:

Ecco cosa ci hanno raccontato: l’economia della Grecia è esplosa perché una banda di greci sputa-olive, trangugia-ouzo e culi pigri si rifiuta di lavorare per una giornata intera, se ne va in pensione di lusso anticipata e si gode costosissimi servizi sociali finanziati con l’indebitamento. Ora che il conto è arrivato e i greci devono pagarlo con tasse più alte e tagli al welfare, loro corrono a ribellarsi urlando per strada, sfasciando vetrine e bruciando banche.
Io questa storia non me la bevo, perché il documento che ho in mano è marcato come “Riservato”.
Vado al dunque: la Grecia è la scena di un crimine. I greci sono vittima di una frode, di una truffa, di una fregatura, di una fandonia. E, tappate le orecchie ai bambini, l’arma fumante del delitto è in mano a una banca di nome Goldman Sachs.

Nel 2002 Goldman Sachs ha segretamente acquistato 2,3 miliardi di euro di debito pubblico greco, convertendoli tutti in yen e dollari, e rivendendoli immediatamente alla Grecia. Un affare con cui Goldman ha perso un sacco di soldi. Sono stati stupidi? Come una volpe: l’operazione era un imbroglio basato su un falso tasso di cambio fissato dalla banca.
Goldman aveva siglato un accordo segreto con il governo greco dell’epoca per nascondere l’enorme disavanzo statale: la falsa perdita di Goldman Sachs era il falso guadagno dello Stato greco. Il governo liberista di centrodestra di Atene avrebbe poi rimborsato la ‘perdita’ della banca a un tasso usuraio, ma con questo folle escamotage avrebbe camuffato il suo deficit facendolo rimanere sotto la soglia del 3 per cento del Pil. Fico! Fraudolento ma fico.
Ma i trucchi costano cari di questi tempi: oltre al pagamento di interessi assassini, Goldman ha chiesto alla Grecia anche una parcella da oltre un quarto di miliardo di dollari.

Quando nel 2009 il nuovo governo socialista di Gheorghios Papandreou è entrato in carica, ha aperto i libri contabili e i pipistrelli di Goldman sono volati fuori. Gli investitori sono andati su tutte le furie, chiedendo interessi mostruosi per prestare altro denaro necessario a ripagare questo debito.
I detentori di titoli di Stato greci, colti dal panico, sono corsi ad assicurarsi contro la bancarotta dello Stato. Quindi sono schizzati in alto anche i prezzi delle polizze contro il fiasco dei bond, in gergo Credit default swap (Cds). E indovinate chi ha fatto un sacco di soldi vendendo questi Cds? Goldman Sachs.
Goldman e le altre banche sapevano benissimo che stavano vendendo ai loro clienti prodotti in putrefazione, merda dipinta d’oro. Questa è la loro specialità. Nel 2007, mentre le banche vendevano Cds e mutui subprime, Goldman teneva una “posizione corta” scommettendo sul fatto che i suoi prodotti finanziari sarebbero finiti nel cesso. Con quest’altra truffa, Goldman ha guadagnato un altro mezzo miliardo di dollari. [10]

Intanto in Grecia «l’economia si disintegra e la società si sfalda». [11]
L’ipotetica Assise mondiale della Decenza condannerebbe la banda guidata dal signor Llyod Blankfein, amministratore delegato della banca d’affari, a severissime pene detentive. Il Forum planetario della finanza e della ricchezza applaude ammirato il lucrosissimo colpaccio.

Mario Monti, affiliato da tempo al network degli esperti di Goldman Sachs, dovrebbe essere pienamente a conoscenza dei termini della questione. Eppure, intervenendo il 15 febbraio al Parlamento di Strasburgo, espone l’intera vicenda come se riguardasse soltanto gli “affari interni” del Paese disastrato, addebitabili esclusivamente ai suoi dirigenti: «La politica greca è stata un perfetto catalogo delle peggiori pratiche della politica dei nostri Paesi».

E le spintarelle esterne? Ancora una volta silenzio, come sempre: forse non c’era, forse dormiva.
Poi si premura di esprimere fiducia nel nuovo corso di Atene, guidato da quel Lucas Papademos che qualche contatto con i consulenti truffaldini della solita istituzione finanziaria stelle-e-strisce lo deve pur aver tenuto; visto che era lui il Governatore della banca centrale greca tra il 1992 e il 2002, svolgendo un ruolo poco chiaro nel mascheramento dei conti pubblici compiuti sotto la supervisione operativa di Goldman Sachs.

Insomma, quanto emerge è una rete di fratellanze di tipo paramassonico, che avvolge anche i percorsi professionali degli attuali “Supermario” in campo: Mario Draghi, il quale – in qualità di vice presidente della GS International per l’Europa tra il 2002 e il 2005 – è stato associato a quel dipartimento “imprese e Paesi sovrani” che poco prima del suo arrivo aveva collaborato con i greci nel truccare i loro conti; Mario Monti, consigliere internazionale di GS dal 2005, che era impegnato a fornire consulenze sugli affari europei.
Una fratellanza da cui – a quanto pare – discende l’obbligo immediato del prudente silenzio di convenienza.

Un premier per l’Italia semilibera

Lo scenario globale non è più lo stesso. Dopo la fine della divisione del mondo in blocchi con l’implosione dell’impero sovietico, dopo l’11 settembre.
L’Occidente ha smarrito la condizione di soggetto geopolitico unitario, [12] l’Europa non riesce a colmare i suoi deficit di democrazia.
In tale desolazione, può apparire una sagace uscita di sicurezza quella di collegarsi alle reti informali di relazioni tra potenti, che risultano ancora in grado di produrre le decisioni che ci condizionano (il mito dei cosiddetti “Mercati”, eufemismo per non fare nomi e cognomi di chi preferisce restare nell’ombra; in caso contrario potrebbe – come dire? – adombrarsi).

Di più: la soluzione rappresentata dall’affidare la guida del Paese a un ambasciatore accreditato presso tali reti – e Mario Monti di certo lo è – pare essere l’unica/ultima scelta ad oggi percorribile. Anche se è una scelta da Paese che continua a languire in quella condizione di semi–protettorato in cui abbiamo vegetato per buona parte del secondo dopoguerra. Quando – lo si ricordava – uno dei confini tra i due blocchi passava per Roma (e l’altro attraversava Belgrado). Con tutte le terribili conseguenze che ne derivavano; anche in termini di inquinamento del sistema politico e di vassallaggi vari a scapito della sempre conclamata indipendenza nazionale.
Poi ci siamo illusi che tale condizione fosse finita e la festa iniziata.

Con il dilettantismo arlecchinesco e imbonitorio di Silvio Berlusconi al governo abbiamo preteso di baloccarci nel lungo sogno del “nuovo miracolo italiano”, che si è rivelato un incubo.
Mentre la nostra politica estera flirtava con i Putin e i Gheddafi nella più allegra delle irresponsabilità, tanto da farci depennare dal novero dei Paesi affidabili. Mentre il declino sociale, economico e civile avanzava a grandi passi, nonostante le fumisterie consumistiche propagandate dagli strumenti mediatici di distrazione di massa.
Non avevamo capito – da bravi provinciali – che se prima i confini invalicabili erano difesi dalle armi degli eserciti, al tempo della finanza globale tale funzione viene esercitata manipolando i simboli della ricchezza e il denaro.

Con Monti e i suoi professori ci stiamo risvegliando. Ma è un risveglio amaro, che non consente troppe illusioni.
Certamente non lascia adito alla speranza di una rapida rifondazione democratica del Paese. Seppure taluno ritenga che la componente più attrezzata culturalmente della compagine ministeriale (i Fabrizio Barca, i Francesco Profumo), compreso il Corrado Passera a cui l’effetto poltrona sembra infondere una più chiara connotazione da leader innovatore (nonostante i non confortanti pregressi), potrebbe evolvere nel nucleo attorno al quale ricostruire quel ceto dirigente credibile e capace di governance che non abbiamo mai avuto; al servizio di un dibattito pubblico democratico finalmente degno di questo nome.
Il tutto rimandato al dopo emergenza. Mentre “il dopo” di Mario Monti sembrerebbe dipendere dalla vocazione ecumenica (bipartisan, detto in politichese) insita nel personaggio: una prospettiva conciliatoria di stampo istituzionale.
In ogni caso – ad oggi – la crisi del sistema-Italia non è stata ancora debellata e i condizionamenti derivanti dall’essere un semiprotettorato restano fortissimi.

Dunque, ben venga il sobrio e algido Monti senza grilli per il capo; portando con sé la restaurazione conservatrice e le sue ricette di pura manutenzione della linea di galleggiamento. Dopo il regime reazionario che ci ha fatto naufragare sugli scogli alla stregua di uno Schettino qualunque della Costa Crociere.
Certo, un ritorno al passato e alla consapevolezza delle “compatibilità” deludenti che ci vengono imposte dall’esterno. Con tutto quanto ciò comporta.
Basta saperlo. Basta rendersene conto. Sobriamente, pure noi.

NOTE

[1] M. Douglas, Credere e pensare, Il Mulino, Bologna 1992, pag. 143.
[2] C. Tecce, “L’ironia non è il suo forte”, «il Fatto Quotidiano», 3 febbraio 2012.
[3] K. Kraus, Aforismi in forma di diario, Newton Compton, Roma 1993, pag. 20.
[4] V. Zucconi, “L’America applaude l’italiano in loden”, «la Repubblica», 10 febbraio 2012.
[5] C. Wright Mills, La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966.
[6]. M. Castells, Comunicazione e Potere, Egea, Milano 2009, pag. 48.
[7] S. Ricossa, prefazione a La sovranità del consumatore di Bruno Leoni, Ideazione Editrice, Roma 1997, pag. 10.
[8] S. Halimi, Il grande balzo all’indietro, Fazi, Roma 2006, pag. 209.
[9] ibidem pag. 210.
[10] G. Palast, “Grecia, un collasso targato Goldman Sachs”, In These Times.
[11] M. Castells, “La tempesta greca”, «Internazionale», 1 marzo 2012.
[12] L. Caracciolo, America Vs. America, Laterza, Bari 2011, pag. 155.