La Serbia verso Bruxelles

Carlo Musilli
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In Serbia si è chiuso un weekend di bulimia elettorale: sette milioni di persone chiamate alle urne per scegliere un nuovo presidente, nuovi parlamentari e perfino nuovi amministratori locali. Sulla carta sarebbe possibile un vero sconvolgimento, ma la sensazione è che il destino del piccolo Paese balcanico sia già legato alla volontà di Bruxelles. Lo scorso primo marzo è arrivato il via libera alla candidatura per l’ingresso nell’Ue e, comunque siano andate le ultime consultazioni, il cammino della Serbia verso l’Europa non dovrebbe più essere in discussione.

Questo ovviamente significherà un surplus di austerity per una popolazione già ridotta alla fame. Fra i compiti del Parlamento in arrivo – ad esempio – ci sarà la riduzione del rapporto deficit-Pil fino al 4,25%, come già concordato con il Fondo Monetario Internazionale.

E’ praticamente certo che il prossimo presidente serbo non ostacolerà questo percorso. I candidati alla poltrona più prestigiosa sono ben 12, ma i grandi favoriti al primo turno sono solo due, gli stessi di quattro anni fa: il riformista filoeuropeo Boris Tadic, presidente uscente, e il conservatore nazionalista Tomislav Nikolic, capo dell’opposizione. A meno di miracoli, saranno loro a contendersi lo scettro nel ballottaggio in programma fra due settimane. Fondamentali saranno i voti dei socialisti guidati da Ivica Dacic, nella scorsa legislatura alleato di Tadic e ministro degli Interni, in passato portavoce di Slobodan Milosevic.

Nel corso della campagna elettorale, per la prima volta l’adesione all’Ue non è stata un argomento centrale. I due super favoriti hanno anche evitato di toccare con troppa enfasi il tasto più incandescente a livello internazionale, quello del Kosovo. Sulla ex provincia proclamatasi indipendente nel 2008 i serbi si esprimeranno con un voto organizzato dall’Ocse. Ma anche su questo fronte sembra che a Bruxelles dormano sonni tranquilli: qualunque sia la composizione del nuovo governo, nessuno oserà tornare ai vecchi toni delle rivendicazioni territoriali.

Alle elezioni di quattro anni fa l’Europa aveva appoggiato apertamente Tadic. Il voto arrivava ad appena quattro mesi dalla secessione dei kosovari e il timore era che il Paese potesse ripiombare nel nazionalismo.

La vera novità di oggi è lo sdoganamento internazionale di Nikolic: pur continuando a preferire l’ex presidente, l’Ue non ritiene più che il suo avversario rappresenti una minaccia. Questo non toglie che l’ok alla candidatura per l’ingresso nell’Unione sia stata letta da molti come un indiretto sostegno al vecchio amico Tadic, che non ha mancato di esaltare il fatto come un successo personale.

Quanto alla battaglia per i seggi in Parlamento, è un’altra storia. Da questo punto di vista le parti sono invertite rispetto alle presidenziali: prima del voto era dato in vantaggio il partito di Nikolic (Sns), che secondo i sondaggi potrebbe staccare i democratici di Tadic di ben cinque punti (33% a 28%). A quel punto la strada più probabile dovrebbe essere l’alleanza con i nazionalisti di Vojislav Kostunica per creare la coalizione di governo.

Ma si tratterebbe di un matrimonio problematico, perché Kostunica è rimasto l’unico vero spauracchio euroscettico. Non è poi da escludere che i socialisti prendano abbastanza voti da compensare il gap e che il trucchetto di Tadic dia i suoi frutti: l’ex presidente ha scelto le dimissioni proprio per far in modo che tutte le elezioni si svolgessero lo stesso giorno, nella speranza che questo gli consenta di recuperare un po’ di terreno alle legislative.

Intanto i serbi hanno altro a cui pensare. La disgregazione sociale del Paese è grave e ad approfittarne potrebbe essere Dveri, un nuovo partito di estrema destra, intollerante e xenofobo, che rischia di entrare in Parlamento superando la soglia di sbarramento al 5%.

Non è sbagliato parlare di euroscetticismo diffuso (anzi, il 70% della popolazione si dice contrario perfino all’ingresso nella Nato). Il malcontento dei cittadini è però legato in primo luogo alla pesantezza della crisi economica. La disoccupazione è arrivata al 23% (+10% negli ultimi quattro anni) e per i fortunati che ancora hanno un lavoro lo stipendio medio è di 360 euro al mese.

L’economia sommersa è pari a un terzo del Pil, per un valore di quattro miliardi l’anno. Solo nell’ultimo quadriennio la moneta serba, il dinaro, ha perso il 30% del suo valore e il debito pubblico è cresciuto del 16%, a 14,4 miliardi di euro. Chi è andato a votare ieri lo ha fatto sperando in migliori prospettive di lavoro, in un salario più dignitoso, in uno Stato meno corrotto. Difficile che tutto questo possa arrivare dalla grande famiglia Ue.