Informazione religiosa:capire i processi, non ricercare gli scoop di R.LaValle

Raniero La Valle
www.viandanti.org

C’è un documento giustamente dimenticato del Concilio che si intitola Inter mirifica ed è dedicato agli “strumenti di comunicazione sociale”, cioè, nell’esemplificazione dei vescovi, la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili. Giustamente dimenticato, perché è un documento mediocre, ed è indicativo di ciò che il Concilio sarebbe stato se non avesse messo nelle vele il vento dello Spirito.

Quando il decreto “Inter mirifica” fu discusso dai Padri il Vaticano II era ancora in rodaggio, e non aveva ancora preso coscienza della sua vocazione. Di fatto il documento sui “media” da un lato riproponeva i consueti temi ecclesiastici sulla “buona stampa”, dall’altro voleva annoverare tra i mezzi di apostolato che la Chiesa avrebbe “il diritto innato di usare e possedere” anche i nuovi strumenti, ignoti alle vecchie encicliche, come la televisione “e simili”.

Formare una “retta” opinione pubblica

Cionostante quel documento conteneva degli spunti di indubbia novità. Anzitutto i vescovi, con un certo candore da neofiti, definivano “meravigliosi” (“mirifica”) questi strumenti che prima la Chiesa aveva considerato sospetti; in secondo luogo li ritenevano utilissimi, e anzi necessari, per realizzare il “diritto all’informazione”, che deve essere universale perché tutti, con la “conoscenza degli avvenimenti e dei fatti”, possano contribuire alla promozione del bene comune. Della libertà d’informazione invece il documento non parla, perché a quel punto dei lavori (siamo alla seconda sessione) il Concilio non era ancora giunto a sposare la libertà.

E c’è un terzo punto degno di rilievo. Il documento riconosce l’enorme importanza, oggi, delle opinioni pubbliche; perciò, dice il Concilio, tutti devono adoperarsi, anche mediante questi mezzi “alla formazione e diffusione di rette opinioni pubbliche”. Ma se questo vale per la società, vale anche per la Chiesa; si può perciò affermare, sulla base di questo magistero, che esiste un dovere, in capo sia ai pastori che ai fedeli, di contribuire alla formazione di una “retta opinione pubblica” nella Chiesa.

Informare e partecipare al dibattito

È in questo quadro che si pone il problema dell’informazione religiosa, che non solo deve dar conto “degli avvenimenti e dei fatti” attinenti alle religioni e alle Chiese, ma deve anche dar conto delle opinioni pubbliche delle Chiese e contribuire essa stessa al formarsi dell’opinione pubblica nella Chiesa.

Il momento in cui massimamente si manifestò questo ruolo dei media, fu in occasione del Concilio Vaticano II. Ricordare oggi il Concilio vuol dire anche ricordare che se esso divenne ben presto patrimonio comune, nel suo stesso farsi, fu grazie alla mediazione dei giornali, cattolici e no, e ai servizi della televisione che allora non era stata messa ancora al servizio delle merci.

Fu uno spettacolo inusuale quello di giornali – come “L’avvenire d’Italia” in Italia, o “Le Monde” e “Le Figaro” in Francia, o “El Pais” in Spagna, o “America” negli Stati Uniti – che non solo riferivano, ma spesso partecipavano al dibattito teologico che si svolgeva tra i vescovi al Concilio; e in questo informare e partecipare soprattutto il giornalismo cattolico, più dall’interno interessato all’evento, raggiunse il suo apice; e non solo fece partecipare il popolo cristiano al vissuto quotidiano del Concilio, ma portò ai vescovi riuniti in San Pietro l’eco delle reazioni e dei processi di ricezione del popolo cristiano di fronte alle novità del Concilio; e questo certamente contribuì al formarsi di un’opinione pubblica conciliare nella Chiesa, che doveva poi diventare il vero presidio della sopravvivenza dello spirito del Concilio contro i tentativi di normalizzazione attraversati dalla Chiesa negli anni successivi.

Sembra difficile pensare oggi a un’informazione religiosa che si fermi all’ufficialità o si riduca alle cronache dei riti e dei documenti romani; né basta a ravvivarla la rincorsa alle notizie sullo scandalo dei pedofili o sulle strane contese di potere che trapelano dai palazzi vaticani. Ciò potrà anche servire a qualche scoop, o contribuire a creare nella società un’opinione pubblica scettica o risentita nei riguardi della Chiesa, ma di certo non concorre al formarsi di una “retta” opinione pubblica nella Chiesa, né a far capire che cosa veramente nella Chiesa sta avvenendo.

Per corrispondere a questo compito l’informazione religiosa dovrebbe calarsi nei processi in atto nella Chiesa e far capire all’opinione pubblica (soprattutto ecclesiale) quali sono le vere alternative che si stanno giocando in questa fase di transizione aperta dal Concilio e in parte chiusa dalla Sede romana, riguardo alla pastorale, alla teologia e alla missione della Chiesa.

Due esempi: i lefevriani e la lirtugia

Un’informazione religiosa all’altezza del suo compito avrebbe dovuto ad esempio (ed ancora dovrebbe) chiarire i motivi di fondo (e non solo disciplinari) della rottura tra la Chiesa cattolica e i lefebvriani. Occorrerebbe far comprendere che in gioco non ci sono solo la riforma liturgica, l’ecumenismo, l’accoglienza reciproca tra le religioni, la libertà di coscienza e la libertà di religione, ma l’idea stessa che la Chiesa possa “aggiornare” il messaggio di salvezza. Non si tratta affatto di una disputa dottrinale o di potere tra Roma e una setta scismatica, si tratta di due visioni e due modelli diversi di Chiesa che sono compresenti nella compagine ecclesiale anche al di là della diaspora lefebvriana; e che sia una questione di profondissimo impatto sull’opinione pubblica nella Chiesa è dimostrato dal fatto che quando il papa decise la riammissione dei vescovi lefebvriani nella comunione ecclesiale, pur mantenendo essi il loro rifiuto del Concilio, ci fu una sollevazione della Chiesa intera che si espresse nelle lettere e nei messaggi inviati dai vescovi in Vaticano, con una “veemenza” di cui il papa stesso confessò, nella sua lettera di risposta, di essere rimasto turbato e sorpreso.

Un analogo coinvolgimento dell’opinione pubblica ecclesiale l’informazione religiosa avrebbe dovuto suscitare quando fu riammesso all’uso facoltativo il vecchio Messale romano che era stato sostituito dopo il Concilio. Si sarebbe dovuto far capire che non era in gioco solo il latino della messa o il posizionamento dell’altare nel presbiterio, ma era in gioco una “legge del pregare” (lex orandi) che è anche la “legge del credere” (lex credendi); e poiché le due leggi, quella prima e quella dopo il Concilio, non sono affatto uguali ma differiscono anche in risvolti pastorali e teologici importanti, il loro livellamento per un uso opzionale e alternativo non può che introdurre una grave ambiguità nella preghiera pubblica e nella fede della Chiesa, e perciò nel suo annuncio.

Cose di cui i giornali possono discutere

Così io penso che l’informazione religiosa abbia un compito assai rilevante nella ormai imminente ricorrenza dei cinquant’anni dall’inizio del Concilio, cui seguirà un apposito “anno della fede”. Molto infatti dipenderà dal modo in cui il Concilio sarà ricordato e riproposto al popolo cristiano, quando nella Chiesa è aperto ufficialmente un conflitto delle interpretazioni, individuato da Benedetto XVI nella triplice varietà di un’ermeneutica della continuità, della rottura e della riforma. In effetti nessuna di queste tre ermeneutiche può dare da sola ragione del Concilio, che è stato nello stesso tempo nella continuità della Chiesa e della fede, nella discontinuità della pastorale e delle lingue, e nella (tentata) riforma degli ordinamenti. La vera ermeneutica conciliare è pertanto una interpretazione che tutte le comprenda, e che specularmente al progetto istitutivo del Concilio, si potrebbe definire come “ermeneutica dell’aggiornamento”.

E qui nascono i problemi che una informazione religiosa adeguata dovrebbe assumere: quali “aggiornamenti” sono avvenuti sul piano pastorale, dottrinale, liturgico, istituzionale? Un discernimento è necessario perché una fonte di equivoco potrebbe nascere dal fatto che nell’ “anno della fede” saranno richiamati e per così dire riconsegnati al popolo credente – a richiesta di una “nota” della Congregazione per la dottrina della fede – sia i testi del Concilio sia il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, e relativo “compendio”. A parte la diversità dei generi letterari, (che peraltro, secondo il Concilio, andrebbero prescelti secondo il discrimine della pastoralità) la fungibilità tra le due presentazioni del patrimonio cristiano, cattolico e apostolico che verranno proposte va bene quando queste coincidono, ma quando presentano un divario che raggiunge la prospettiva stessa della preghiera e della fede, l’opinione pubblica nella Chiesa deve essere aiutata ad orientarsi.

Così è per esempio della prospettiva in cui Concilio e Catechismo collocano il peccato e le sue conseguenze; il Catechismo li colloca nella relativamente recente dottrina del peccato originale, che comporta la revoca all’uomo da parte di Dio dell’integrità della natura con cui da lui era stato creato, il Concilio li colloca nell’antropologia evangelica di un uomo che ha peccato fin dall’inizio e che pecca, ma in cui non è mai venuto meno il modello di Cristo cui Adamo stesso è stato conformato, e che Dio non abbandonò dopo la caduta ma a cui sempre, “sine intermissione” ha continuato a donare gli aiuti necessari alla salvezza. Le due diverse narrazioni implicano accentuazioni diverse di pessimismo o di ottimismo antropologico, da cui discendono rilevanti conseguenze nella comprensione del rapporto tra Dio e l’uomo e della capacità dell’uomo di farsi strumento di Dio nella storia.
Non sono cose di cui possono discutere i giornali?

Quando sulla Chiesa soffiava il vento del Concilio, lo fecero, e la Chiesa ne fu molto contenta.