Lo straniero è cittadino?

Rosa Ana De Santis
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Se ne parla sempre di più nel dibattito politico contemporaneo e la questione della cittadinanza per gli stranieri rappresenta, non soltanto nel nostro Paese, un esempio paradigmatico di come i fatti abbiano di gran lunga superato la speculazione teorica. Gli immigrati regolari si comportano infatti come cittadini a tutti gli effetti: pagano le tasse e i contributi, partecipano alla vita politica, specialmente quella locale, rappresentano una quota significativa della società civile e delle famiglie, dovuta anche alla forte tendenza di fare figli, contrariamente agli italiani.

La ricerca in questione in Italia è stata condotta dall’Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità). Sono stati intervistati 797 immigrati che risiedono a Milano e Napoli. La ricerca è stata realizzata, oltre che dall’Ismu, anche da King Baudouin foundation, Migration policy group e ReteG2 – Seconde generazioni. L’80% degli immigrati in Italia chiede di poter accedere alle urne e votare. E’ infatti questo diritto-dovere di partecipazione politica ad esprimere sul piano simbolico e fattivo la natura del diritto di cittadinanza.

Strano, se non bizzarro, lasciare che ad esprimere il diritto di voto siano italiani che vivono fuori confine da generazioni, lontanissimi dal contesto nazionale, e che il medesimo diritto sia interdetto a chi contribuisce alla sopravvivenza del sistema Italia e ne vive e ne patisce limiti e opportunità.

La differenza infatti tra le due categorie è tutta esclusivamente legata al sangue. Italiani e non italiani. Sembrerebbe un discrimine enorme, più che valido come legittimazione, eppure un po’ di ragionamento senza coloriture nazionaliste ci aiuta a smascherarne facilmente la sostanza concettuale. E’ l’italianità ad essere legata allo status di cittadinanza e non il contrario. Non esiste infatti, tralasciando le derive pericolose che ne deriverebbero, una genitura italica pura in senso genetico-etnico. Gli italiani sono un po’ aragonesi, un po’ angioini, normanni, tedeschi. Diverse le loro storie, le origini etnico-geografiche, il sangue così tanto al centro delle rivendicazioni xenofobe.

Portogallo ed Italia sono i paesi in cui è più difficile trovare lavoro, Sempre in Italia il requisito dei documenti e l’iter burocratico rappresentano un ostacolo fortissimo al ricongiungimento familiare. Eppure il nostro paese vanta una posizione record nel coinvolgimento concreto degli stranieri alla vita civica.

Rimangono le difficoltà a parlare la lingua per mancanza di tempo e difficoltà ad accedere a corsi sostenibili, quasi tutti affidati alle forze del volontariato. Rispetto all’Europa nel nostro paese, nelle città campione di Milano e Napoli, gli stranieri dichiarano di sentirsi poco valorizzati rispetto ai titoli di studio, in controtendenza quindi con altri paesi. Situazione questa che tocca, peraltro, anche i cittadini italiani.

Da più parti politiche arriva l’urgenza di normare la cittadinanza “di fatto” e di sistematizzarla in diritti riconosciuti, dal momento che i doveri ci sono già. Siamo in un vuoto giuridico tale per cui mentre un evasore fiscale può accedere ai servizi pubblici, nella totale impunità, un lavoratore regolare immigrato che paga tasse e servizi pubblici non può esprimere voto e partecipazione politica mentre aiuta tutto il Paese a pagare le pensioni, tenere aperte scuole e ospedali, mettere benzina al trasporto pubblico.

Il processo è già avviato, pur nella rimozione ufficiale della questione. Ad averlo inaugurato è stato proprio quel mito capitalista della globalizzazione che tanto osannato per l’opportunità dei guadagni urbi et orbi, sembra piacere sempre meno all’Occidente quando ad essere globalizzati sono i diritti, le conoscenze, la facilità dei contatti che ne segue. La globalizzazione si è trasformato in un cavallo di Troia restituendo indietro il colonialismo atavico con tutti gli interessi.

Da tempo la cittadinanza è un esercizio di funzioni secondo la legge e non una variabile cromosomica. Non c’è discorso più convincente di una bella fotografia sugli Stati Uniti d’America, su qualche grande metropoli europea o sulle nostre fabbriche. O ancora meglio dentro le nostre case.