La forza della terra

Mauro Magatti
La Repubblica, 23 maggio 2012

Con la crisi del 2008 siamo entrati nella “seconda globalizzazione”: la fase espansiva è terminata, come sappiamo bene, e si avvia una nuova stagione in cui la questione della crescita va ripensata, a partire dalla ridefinizione del rapporto tra economia e politica.

Come ad una vasca a cui è stato tolto il tappo, le economie contemporanee, integrate nei mercati e nel sistema tecnico planetario, rischiano di girare a vuoto, bruciando in un batter d´occhio quanto faticosamente riescono a produrre. È questo il nodo che struttura oggi i rapporti tra economia e politica. Ed è rispetto a questo nodo che i dibattiti di questi mesi – tanto quelli sull´Europa quanto quelli sulla crescita – debbono essere ridefiniti.
Nella sua teoria politica, Schmitt contrapponeva il mare alla terra: il primo è il regno dell’instabilità, del movimento, della libertà; la seconda indica stabilità, ordine, distinzione.

In questa prospettiva, si capisce perché, dal momento in cui l’ordine terraneo europeo collassa a seguito della scoperta dell’America, l’intera vicenda moderna si trova a fare i conti con il tema della tecnica: «il passo verso un’esistenza puramente marittima provoca la creazione della tecnica in quanto forza dotata di leggi proprie. (…) lo scatenamento del progresso tecnico è comprensibile solamente da un´esistenza marittima (…) tutto ciò che si lascia riassumere nell´espressione “tecnica scatenata”, si sviluppa solamente… sul terreno di coltura e nel clima di un´esistenza marittima».

Ora, dopo gli anni rampanti della “prima globalizzazione”, la crisi apre una nuova fase riportando in primo piano la questione “politica”, cioè la ridefinizione di confini e rapporti di forza: nel nuovo “mare tecnico” che avvolge ormai l´intero pianeta – e definito da quell´insieme di infrastrutture, codici, protocolli, standard in grado di prescindere da qualsiasi connotazione spaziale o culturale – che significato ha la “terra”? Ovvero, com´è possibile, nelle nuove condizioni, la ricostruzione di comunità di mutuo riconoscimento di natura fondamentalmente politica?
Etimologicamente, il termine “terra” significa secco, non umido, in contrapposizione al mare, ambiente liquido e infido e come tale difficile da dominare. Dante usa l´espressione “gran secca” per dire che la terra, per esistere, deve emergere dal mare – rispetto al quale sta in relazione, senza esserne sommersa. La terra dà dunque il senso di una solidità e di una permanenza, cioè di una storia, di un lavoro, di un futuro. Ma anche di un servizio.

Nel mare tecnico, la terra “emerge” là dove si rende di nuovo possibile la vita umana associata, mettendo la tecnica al servizio dei suoi abitanti. Ma affinché ciò sia possibile, sono richiesti impegno e investimento: anche oggi, per portare frutto, la terra va lavorata e curata. Parlare di terra, nell’era tecnica, è, dunque, una scelta eminentemente politica. Lo dimostra la ricerca sulle “global region”: ad affermarsi sono quei territori (città, regioni o stati) che riescono a ricomporre la tecnica con il senso, la mobilità con la vivibilità, l´efficienza con l´affettività, la crescita con il limite. Ma, soprattutto, lo dimostra la crisi europea: senza un´integrazione politica capace di determinare una interruzione, una differenza, la sola infrastrutturazione “tecnica” espone alla forza di un mare imperscrutabile, finendo per provocare la sommersione di un intero continente.

Ma se, infatti, non si dà “terra” senza emersione, al tempo stesso nessuna terra può vivere indipendentemente dal mare – che, fuor di metafora, è oggi il sistema tecnico planetario, con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard.

Da queste considerazioni derivano diverse proposizioni di ordine politico. La prima è che, oggi, la terra si ridefinisce come contenitore di un valore che, invece di disperdersi, si sedimenta. Essa, cioè, esiste solo là dove si compie questa capacità di creazione e di deposito. Lo scrivono efficacemente Porter e Kramer: per reggere le sfide della “seconda globalizzazione” – quella che si delinea con la crisi e le sue conseguenze – occorre produrre – senza limitarsi a consumare – “valore condiviso”, laddove la nozione di “valore” non è riducibile ad una declinazione meramente economicistica.

In un mondo aperto e in movimento, il valore, che fa emergere la terra, è il riconoscimento di un interesse comune – che possiamo chiamare anche bene comune – e che, proprio per questo, si costituisce come differenza rispetto all´ambiente circostante.

Da questo punto di vista, nel mare della tecnica la terra è il luogo politico della cura dell´umano che fa la differenza. E questo non solo perché, in un mondo dove tutto è mobile e interscambiabile, i confini tendono a essere stabiliti più che dal potere di coercizione – a cui i flussi sfuggono – dalla capacità di una particolare comunità di creare condizioni qualitativamente differenziali, di ordine economico e non solo. Non si può più puntare sulla mera espansione quantitativa, ma bisogna scommettere sulla capacita innovativa e creativa. Prendendosi cura delle persone e dell’ambiente in cui vivono.

La terza proposizione è che la terra non si può più pensare, oggi, come separazione, ma solo come relazione. Mai come oggi le sirene della “chiusura forzosa” possono apparire suadenti. Ma la verità è che, persa l’autosufficienza, la terra si costituisce solo in rapporto al mare della tecnica, da un lato, e ad altre terre emerse, dall´altro. Non basta più rivendicare o peggio pretendere una diversità.

Secondo Richard Sennett la direzione da seguire si comprende richiamando la distinzione biologica tra parete e membrana cellulare: la prima trattiene tutto per quanto può e dà via quanto meno possibile; la seconda, invece, porosa e resistente, permette il fluire dei vari materiali senza per questo perdere la propria struttura. In un mondo complesso e in perenne movimento, per continuare a esistere – cioè emergere nel mare tecnico – occorre chiudere quel tanto che è necessario per essere veramente aperti. La “chiusura” di cui abbiamo bisogno consiste nello stipulare “nuove alleanze” in grado di costruire confini che non sigillano, ma che mettono in relazione una differenza con il mondo intero.

Così se riconosciamo che il tempo dell´espansione infinita è alle nostre spalle, allora possiamo ammettere che, in futuro, per crescere, qualsiasi terra dovrà reimparare a “fare economia”, cioè a usare al meglio, cioè in modo sostenibile, le risorse disponibili. Senza sprechi, senza privilegi, senza eccessi. Il che non è necessariamente un male.

Come negli anni ´30 la Grande Depressione così oggi la Grande Contrazione nella quale siamo immersi potrà essere risolta solo da una diversa idea di crescita. Al cuore del nuovo modello di crescita c´è la questione della “produzione del valore” – abbandonando la strada facile ma perversa della speculazione finanziaria. Nella “seconda globalizzazione” si affermeranno quei territori, quelle comunità che sapranno “produrre valore”. Un valore economico e spirituale insieme, capace di tenere insieme apertura e chiusura, efficienza e senso, individualismo e convivialità, immanenza e trascendenza.

Alla politica il compito strategico di riannodare i fili di una trama sociale che non esiste più nelle forme del XX secolo: in un mondo avanzato, tecnicamente e culturalmente evoluto, la politica stabilizza ciò che è instabile, fa permanere ciò che è contingente, radica ciò che è mobile.

(L’autore è docente di sociologia alla Cattolica di Milano)