La Nato e il dilemma afgano

Michele Paris
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I 28 paesi membri della NATO hanno chiuso lunedì l’atteso vertice di Chicago approvando formalmente il piano americano per la chiusura delle operazioni militari in Afghanistan entro la fine del 2014. La risoluzione del conflitto, tuttavia, continua ad essere complicata, tra l’altro, dalle difficili relazioni di Washington con il Pakistan e dalla resistenza di molti paesi europei a provvedere al finanziamento delle forze di sicurezza afgane nel contesto della crisi economica in atto e della crescente impopolarità di una guerra che si trascina ormai da oltre un decennio.

Secondo il calendario stabilito dagli Stati Uniti, tutte le missioni di combattimento ISAF (International Security Assistance Force) dovranno essere ultimate e trasferite alle forze di sicurezza locali entro la metà del prossimo anno, mentre l’intero contingente straniero sul suolo afgano verrà ritirato alla fine del 2014. Oltre a dipendere dalla situazione sul campo, però, il ritiro delle truppe di occupazione sarà tutt’altro che completo, dal momento che gli USA si sono già assicurati le permanenza di un certo numero di propri soldati ben oltre il 2014 grazie all’accordo sulla partnership strategica siglato tra Obama e il presidente Karzai qualche settimana fa a Kabul.

In ogni caso, secondo il piano statunitense, per mantenere le forze di sicurezza afgane dopo il 2014 saranno necessari 4,1 miliardi di dollari all’anno. Il conto sarà pagato in buona parte da Washington, ma, a parte 500 milioni di dollari a carico del governo di Kabul, i paesi alleati dovranno sborsare complessivamente 1,3 miliardi. La richiesta di denaro per continuare a finanziare le operazioni in Afghanistan è giunta proprio all’indomani del G8 di Camp David, durante il quale i partecipanti hanno sostanzialmente concordato sulla necessità di proseguire le politiche di rigore nei rispettivi paesi.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha comunque assicurato che a Chicago alcuni paesi membri hanno già promesso di fare la loro parte, tra cui l’Italia che dovrebbe garantire 120 milioni all’anno. L’impegno di molti governi è del tutto teorico, dal momento che lo stanziamento di denaro si scontra con la sfiducia sempre maggiore dell’opinione pubblica verso il conflitto in Afghanistan e con i malumori diffusi per le misure di austerity imposte dagli ambienti finanziari internazionali.

Che la promessa di chiudere la guerra in Afghanistan, fatta da Obama nella sua città, sia solo retorica lo ha confermato anche il comandante delle forze di occupazione, generale John Allen. In un’intervista rilasciata domenica, quest’ultimo ha ammesso che il calendario annunciato dalla Casa Bianca per il disimpegno delle forze armate dal paese verrà difficilmente rispettato.

Alla luce delle serie minacce che persisteranno nel prossimo futuro, Allen ha definito come probabile l’impiego del contingente ISAF in operazioni di combattimento per tutti i prossimi due anni e mezzo. Inoltre, anche se le responsabilità di condurre azioni di guerra verranno gradualmente trasferite agli afgani, la NATO conserverà la facoltà di impiegare a questo scopo le proprie truppe che rimarranno sul campo.

A complicare il piano di ritiro e il passaggio di consegne all’esercito afgano c’è anche la decisione del neo-presidente francese, François Hollande, di ritirare i 3.300 soldati del proprio paese già entro la fine del 2012. Hollande lo ha ribadito alla vigilia del summit di Chicago in un faccia a faccia con Obama, anche se negli ultimi giorni ha fatto una parziale marcia indietro dalla sua promessa elettorale, annunciando che alcune truppe francesi rimarranno in Afghanistan dopo la fine dell’anno con il compito di addestrare le forze di sicurezza locali.

Le questioni legate all’Afghanistan erano state anticipate dallo stesso Obama domenica in un incontro separato con il presidente Karzai. In un’atmosfera meno tesa rispetto ai precedenti faccia a faccia, pubblicamente i due hanno riconosciuto a vicenda i sacrifici fatti dai rispettivi paesi in oltre dieci anni di guerra, mentre Obama ha incoraggiato Karzai ad adottare le riforme democratiche necessarie a facilitare la transizione politica quando terminerà il mandato di quest’ultimo nel 2014.

La due giorni di Chicago non ha però risolto lo stallo tra gli Stati Uniti e il Pakistan sulla riapertura delle rotte di terra nel paese centro-asiatico ai convogli NATO diretti in Afghanistan, chiuse da Islamabad lo scorso novembre in seguito all’uccisione da parte dei militari americani di 24 soldati pakistani in uno scontro di frontiera. Dopo settimane di negoziati tra le due parti, un accordo appariva imminente ma sembra essere fallito a causa della mancata intesa sull’entità del pedaggio richiesto dal governo pakistano e che dovrebbe passare da 250 a ben 5 mila dollari per ogni singolo convoglio in transito.

Per favorire le trattative e, verosimilmente, per procedere con un annuncio congiunto, il presidente pakistano, Asif Ali Zardari, era stato invitato all’ultimo minuto al vertice di Chicago ma, in assenza di un accordo, non è stato ricevuto da Obama, anche se ha avuto un lungo incontro con il Segretario di Stato, Hillary Clinton. Secondo molti osservatori, un accordo sulla riapertura del territorio pakistano al passaggio delle forniture NATO dirette in Afghanistan dovrebbe essere comunque vicino. Le difficoltà sono legate principalmente al diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione pakistana, visto che la classe dirigente locale appare ben intenzionata a normalizzare i rapporti con Washington, da cui riceve annualmente ingenti finanziamenti.

Il sostanziale ottimismo manifestato a Chicago contrasta con la realtà sul campo in Afghanistan, dove il sentimento anti-occidentale continua ad alimentare la resistenza all’occupazione. Oltre ai recenti nuovi episodi che hanno visto membri delle forze di sicurezza afgane aprire il fuoco su soldati ISAF, proprio domenica sono stati registrati almeno due attentati suicidi che hanno fatto un numero imprecisato di vittime tra le truppe americane.

Nella giornata di domenica, il Patto Atlantico ha poi deciso di rendere operativo il sistema di difesa missilistico che verrà installato in alcuni paesi dell’Europa orientale e che dovrebbe essere ultimato nel 2018. Il sistema serve ufficialmente a difendere l’Europa da eventuali missili iraniani, ma la Russia lo considera una minaccia al proprio deterrente nucleare. Soprattutto per questo motivo, con ogni probabilità, il presidente Putin non ha partecipato né al G8 di Camp David né al summit NATO di Chicago, inviando al suo posto il primo ministro Medvedev.

L’industria bellica americana ha infine beneficiato nuovamente della generosità dei paesi NATO. Domenica a Chicago, infatti, l’Alleanza ha firmato un contratto da 1,7 miliardi di dollari con Northrop Grumman per l’acquisto di un “sistema di sorveglianza e di intelligence” che include cinque droni Global Hawks.

Lo stimolo all’aumento delle spese belliche anche in tempi di austerity fa parte dello sforzo da parte di Washington per ridurre l’impegno economico americano all’interno della NATO, per la quale provvede ora per circa i tre quarti del bilancio, e di aumentare quello degli alleati. Da qui l’appello di Obama ai paesi membri per investire nelle “strutture difensive e nelle nuove tecnologie per rispondere alle nostre esigenza collettive”.

Le politiche militaristiche della NATO a Chicago sono state promosse ancora una volta tra l’ostilità della maggioranza della popolazione e con l’adozione di metodi da stato di polizia. A confermarlo è stata la durissima risposta delle forze di sicurezza americane alle dimostrazioni pacifiche andate in scena nel fine settimana nella metropoli dell’Illinois.

Solo domenica sono stati arrestati 45 manifestanti, mentre in precedenza erano stati fermati cinque giovani con l’accusa di aver progettato azioni terroristiche contro siti sensibili a Chicago, come la residenza privata del sindaco, Rahm Emanuel, e il quartier generale della campagna per la rielezione di Obama. Come già accaduto nel recente passato in seguito ad operazioni ideate interamente dall’FBI per alimentare il panico nella popolazione e giustificare misure gravemente lesive dei diritti democratici, i cinque arrestati sono stati di fatto incastrati da due informatori della polizia che hanno montato ad arte i presunti attentati terroristici nel corso del summit della NATO.