La religione, la spiritualità, lo spazio pubblico

Roberto Rivosecchi
www.italialaica.it | 17.05.2012

Per i teologi e le teologhe del terzo mondo (Consultazione latinoamericana dell’Asett sulla Religione, settembre 2011) le religioni, quelle agrarie, legate cioè al passaggio dal nomadismo alla stanzialità, sono entrate o stanno per entrare in una crisi irreversibile. I sintomi, un certo agnosticismo, la perdita dell’ingenuità con senso critico più accentuato, hanno preso avvio nei secoli passati con la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo e le varie ondate di industrializzazione. La moderna società della conoscenza, ormai dotata di strumenti interpretativi in grado di rivendicare la piena autonomia dalle tradizioni ancestrali, elevate al rango di rivelazione divina, rifiuta l’interpretazione della realtà a due livelli, con un theòs al di sopra di noi, da cui dipendiamo e verso cui andiamo. Rifiuta altresì l’interpretazione del nostro percorso terreno in termini di prova con giudizio finale ad opera di un Signore supremo.

Si tratta, dicono i teologi e le teologhe, di una grande invenzione umana grazie alla quale i gruppi di nomadi, cacciatori e raccoglitori, trasformatisi in sedentari e convertiti all’agricoltura, hanno consolidato e reso stabile nel consenso la nuova struttura sociale e il nuovo tipo di convivenza. Questa è la religione: la particolare configurazione che, a seconda dei tempi e dei luoghi, assume la spiritualità costitutiva dell’essere umano. Forme storiche, contingenti e mutevoli, le cui capacità di penetrazione-accettazione, al fine della omogeneizzazione e del controllo sociale, vanno a soddisfare al tempo stesso la spiritualità individuale e collettiva. Come è avvenuto nella società agraria. La religione integra lo spirituale individuale nel sentire collettivo. Ma non è più la spiritualità, dimensione originaria e permanente, ad alimentare e rendere viva la religione. Al contrario.

La connessione diretta con il mistero e la nostra esigenza di trascendenza vengono a dipendere ed annacquarsi nella struttura standardizzata ed inclusiva che l’uomo si è dato. Non fa differenza: pubblico o privato, tutto è religioso. Anche la morale, costruzione tipicamente umana, diventa Sapienza divina, calata dall’alto. Assieme alla sua ancella, la legge naturale, infusione in noi dell’intelligenza divina, fornisce le fondamenta sulle quali costruire la vita dell’oggi per il domani escatologico.

Tutto ciò si porta dietro la pretesa di infallibilità, i dogmi e il controllo del pensiero. Ovvio che la dimensione spirituale attuale non possa più esprimersi in questa arcaica e superata forma religiosa. Occorre uno scatto evolutivo: reinventare e reinterpretare un paradigma religioso che sappia stare al passo coi tempi. Tempi infiniti di attesa a parte, vien da dire che, ove trattasi comunque di costruzione umana e pur sempre di esclusivo appello alla fede, tanto vale tenersi quello stagionato e consolidato dei nostri padri: vino vecchio in otri vecchi. Il problema vero è l’uso dello spazio pubblico. Quanto questo paradigma cioè, vecchio o nuovo, ci lascia di consapevolezza autoreferenziale.

Punti fermi restano la distinzione tra spiritualità e religione, la prima anteriore e costitutiva della seconda, e la rivendicazione di una morale produzione umana, non più servita sul piatto della religione. Le teorie democratiche post secolari, che hanno recuperato la presenza delle religioni nello spazio pubblico, sembrano essere state troppo di manica larga. Hanno dimenticato questi punti fermi, dimostrando scarsa fiducia nell’uomo quale interprete principale di spiritualità e morale.

Preferiscono affidarsi alla religione assegnandole un ruolo a tutto tondo nello spazio pubblico. Ma non è forse dal condizionare la pubblica opinione che passa l’appropriarsi delle istituzioni e la produzione delle leggi? Habermas e Rawls, quando distinguevano fra sfera pubblica e sfera istituzionale (qui le religioni non possono imporre le loro leggi), non potevano neanche immaginarsi il quasi ventennio di populismo berlusconiano, che, in un simbiotico rapporto di “do ut des”, ha fatto dono alla Chiesa di Roma non solo dello spazio pubblico ma della stessa produzione legislativa, in particolare sui temi cosiddetti non negoziabili.

In totale assenza di vigilanza sui limiti delle concessioni, sia ben chiaro, non alle religioni, ma alla Chiesa romana, si sono posti strumenti secolari, quali la ragione e l’autonomia dello Stato, a servizio della fede, con risultati esiziali per la convivenza democratica, che in tal caso diventa espressione parziale di libertà. “La marcia per la vita contro l’aborto”, approdata a Roma nei giorni scorsi, con il Sindaco Alemanno in fascia tricolore, simbolo delle istituzioni, continua nella linea della svendita dei valori secolari. Addirittura va più in là, proponendo un ripensamento (abolizione della 194), in base a principi religiosi, di quanto era stato già legiferato a livello delle istituzioni. Evidente, ai limiti dell’arroganza, la mancanza di reciprocità: alla concessione dello spazio pubblico non corrisponde il riconoscimento da parte della Chiesa del principio di non intromissione nella sfera istituzionale.

Si dovrebbe essere coscienti delle continue invasioni di campo. In realtà la teoria e la letteratura, come dice Nadia Urbinati, ignorano il fenomeno. Qui da noi la Chiesa, sembra aver adottato l’atteggiamento del Berlusconi dei tempi d’oro: il vittimismo. L’uno si lamentava dell’invadenza della magistratura, quasi considerandosi legibus solutus, l’altra, dopo aver occupato tutto lo spazio possibile, dando disposizioni sull’ultraterreno e sul terreno, continua a mettere le mani avanti, lamentandosi che si vuol relegare il fenomeno religioso all’interno della coscienze e delle sacrestie. Per di più in larghi settori della tradizione cattolica sembra affermarsi l’obiettivo di una religione civile, assunta agli onori delle cronache grazie agli “atei devoti”, che si nutra della tradizione giudaico-cristiana, culla della civiltà occidentale europea.

In merito si è espresso il teologo Carlo Molari. La definisce religione morta in partenza, in quanto non più in relazione con la fede viva, con la spiritualità. Tuttalpiù valida per la bandiera, per la Lega e per i voti. Questi stessi tradizionalisti dettano la linea: la strada non passa per l’integrazione multiculturale all’inglese, né per l’assimilazione laicista alla francese, ma per il rispetto dei diritti della persona. Quale rispetto? Forse quello delle leggi ad personam? Qui da noi il populismo ha permeato di sé anche la religione, sino a soffocare la ragione: si vuol far passare l’idea di una minoranza conculcata.

C’è qualcosa che non quadra. Se adattiamo, seguendo ancora Nadia Urbinati, le attuali teorie democratiche, che affermano la presenza delle religioni nella sfera pubblica, al nostro Paese vediamo come “siano inadeguate e troppo semplicistiche”. Il che accade perché da noi, nella sostanza, c’è una sola religione. Quello che in società dal pluralismo religioso può diventare un principio di estensione di libertà, altrove può concretizzarsi come privazione di libertà. La riflessione degli studiosi si è sviluppata nell’ambito di ambienti protestanti, connotati appunto dalla presenza di una molteplicità di religioni Qui da noi, come si constata quotidianamente, essendo unica, la presenza religiosa può arrivare a essere determinante sia nell’orientamento dell’opinione pubblica che delle istituzioni, sino a costituire un vulnus alla regola aurea della “uguale libertà”.

L’aver riconosciuto alle religioni la praticabilità a pieno titolo dello spazio pubblico è stata una conquista democratica. I problemi sono sorti nella nostra realtà sia per la mancanza dei requisiti essenziali (il pluralismo religioso), sia per la svendita e la voluta irrisione, in un particolare contesto di regime sacro e profano, degli imprescindibili valori secolari. Nello spazio pubblico abbiamo cercato di ammorbidire i dogmi. Ma i dogmi sono sempre i dogmi. Anzi la chiesa si irrigidisce e chiede sempre di più. Vuole le nostre anime. Da laici offriremo un dialogo paziente, ma vigile.