L’Egitto cerca un presidente che profumi di democrazia

Marco Alloni
Il Corriere del Ticino

Il Cairo – “Per chi voterai alle prossime presidenziali?” è stato chiesto qualche settimana fa allo scrittore egiziano Bilal Fadl. “Per Mohammad El-Baradei” è stata la sua risposta. Il tono di celia era evidente (El-Baradei ha rinunciato alla competizione mesi fa) ma significativo. Come Fadl, sono in molti in Egitto a ritenere che le presidenziali siano orfane di candidati credibili. Mohammad Tolba, un salafita moderato, mi ha confessato: “Non andrò a votare, è tutta una farsa”.

Perché una farsa? Dobbiamo crederlo davvero? Certamente esistono ormai due fronti: quello che vede il bicchiere mezzo pieno e quello che lo vede mezzo vuoto. I primi esaltano la novità di un Paese nel quale, per la prima volta in sessant’anni, non si sa in anticipo chi vincerà le presidenziali. I secondi temono, gattopardescamente, che tutto stia per cambiare perché nulla cambi. E dove collocarsi non dipende solo dal proprio orientamento politico: una visione ad ampio raggio impone infatti di riconoscere che, comunque vadano le cose, vincerà soltanto il meno peggio. Tra i tredici candidati in lizza nessuno si propone in chiara linea di rottura con il passato.

Ahmed Chafiq è stato primo ministro nel governo Mubarak, e rappresenta la riscossa dei fulul (i residuati del vecchio regime) sulle rivendicazioni di piazza. A fronte della rivolta del 25 gennaio 2011, ebbe a dire: “State pure a Tahrir, vi distribuiremo le caramelle”. È evidente che si pone dunque come sostituto di Omar Soleiman – ex vice-presidente nonché capo dei servizi segreti sotto Mubarak – presso la porzione nostalgica della popolazione, che i recenti sondaggi dicono rappresentare il 30% del Paese.

Analogo discorso a proposito di Amr Musa. Costituisce costui un segnale di discontinuità rispetto al passato? La contiguità fra la sua e la politica di Mubarak è nella cronaca dell’ultimo ventennio: non fosse che per la sua nomina a capo della Lega Araba nel periodo in cui l’ex raìs ne temeva la popolarità al punto da trasferirlo fuori dai giochi interni del Paese. La sua figura e i suoi slogan ripropongono d’altronde una dualità stigmatizzata fin dal ’74 dallo scrittore Yusuf Iddris: “O il pane o la dignità”. Sembra che si debba attendere dal veterano Musa una politica orientata nel senso del lavoro per tutti a discapito di una “dignità democratica” libera dal giogo clientelare del sistema precedente.

Quanto a Hamdin Sabahi, nasseriano di ferro, e ad Abdel Moneim Abul Futuh, fuoriuscito della confraternita dei Fratelli musulmani, condivisero nel movimento studentesco degli anni Settanta una fiera battaglia contro la corruttela (già in auge sotto Sadat) e contro gli accordi di Camp David. Ma oggi le loro due figure pagano di abiti mentali che suscitano il sospetto di molti. Sabahi si richiama a un socialismo statalista che evoca sinistramente le centralizzazioni burocratiche e anti-libertarie del nasserismo. Abul Futuh alimenta l’inquietudine di chi teme la sua diserzione dalla fratellanza un’opzione soltanto strategica, che non ne garantisce in nessun modo – come il suo discorso progressista vorrebbe – l’indipendenza. Insomma, due affiliazioni all’Egitto pre-rivoluzionario che all’ipotesi di una potenzialità innovatrice lasciano davvero vaghi margini. Pure non pochi intellettuali – il letterato Alaa Al-Aswani, il poeta Abdel Rahman Al-Abdnudi, lo scrittore Sonallah Ibrahim – sostengono la candidatura di Sabahi… turandosi il naso.

Mohammad Morsi, presidente del partito Libertà e Giustizia (emanazione dei Fratelli musulmani), è a sua volta la versione “moderata” dell’islamismo politico. A lui si rifà l’elettorato della fratellanza dopo l’esclusione del più popolare Khairat El-Shatir. Ma anche nel suo caso la candidatura ricade nella logica del meno peggio: sottratta ai salafiti la figura carismatica di Hazem Abu Ismail – la cui madre americana ne ha pregiudicato l’accesso alle presidenziali – e silurato Shatir per una sentenza di condanna per terrorismo, Morsi non rappresenta infine, insieme ad Abul Futuh, che un residuale bacino di consolazione per i “barbuti”. Tanto che i giovani rivoluzionari non esitano a chiamarlo su Facebook “l’amico del padrone del progetto di Rinascita”, come Shatir presentava la propria campagna.

Gli altri candidati sono figure di contorno. Raccoglieranno nel migliore dei casi i voti di protesta e lo sdegno di chi non volendo non votare non voterà i favoriti.
Decisiva in questo contesto è invece l’opera persistente, di intollerabile ingerenza, del Consiglio Supremo delle Forze Armate. In questi giorni la giunta insiste nel voler imporre una “dichiarazione costituzionale” che non solo limiti i poteri del futuro presidente ma consenta all’Assemblea del Popolo (la camera bassa del Parlamento) di nominare e sfiduciare i governi a venire. Legittimando così la preoccupazione di Mohammad El-Baradei che, su Twitter, si domanda: “In queste condizioni quali poteri spetteranno allora veramente al presidente?”.

Già, quali poteri per il prossimo presidente se la pressione dell’esercito – depositario de facto del potere nella transizione in atto – gli vorrebbe imporre di rifarsi al Parlamento nella nomina del governo, e di non avere altre prerogative se non di nominare il procuratore generale, lo sheikh di Al-Azhar e il mufti della Repubblica? Quali poteri se alla giunta spetterebbe infine il prezioso compito di proteggere la legislazione costituzionale? E quale controllo su quest’ultima se, nel bilancio dello Stato, solo una commissione di difesa del Parlamento avrà titolo per valutare il budget dell’esercito e le sue fonti di entrata, tra l’altro dovendole conservare segrete e non diffondere alla stampa? E quale autonomia decisionale se – pur essendo capo delle forze armate – il futuro presidente non potrà decidere di decretare una guerra se non con la congiunta approvazione del consiglio militare e del Parlamento?

Le domande sono legittime. E le previsioni non troppo azzardate. Se le decisioni della giunta non otterranno l’approvazione dei maggiori partiti, i postumi delle presidenziali saranno ancora una volta scaturigine di scontri di piazza e sollevazioni popolari. Privo di Costituzione, l’Egitto procede d’altronde fin d’ora entro un margine di sostanziale incostituzionalità, stabilito dagli arbitrii della “dichiarazione costituzionale” proposta dalla giunta militare.

Non proprio un presidente fantoccio, dunque, il futuro presidente dell’Egitto. Ma certamente un presidente la cui legittimazione popolare è lungi dall’essere riconoscibile. Tanto più se consideriamo i cristiani e gli egiziani all’estero, i primi orientati a un voto di difesa (per Chafiq o Musa) pur di evitare lo tzunami islamista, e i secondi incredibilmente ignari del rischio “teocratico”, e disinvoltamente orientati sui candidati più o meno prossimi alla fratellanza.

Unica nota di conforto: la commissione presidenziale assicura che non ci saranno frodi, e che le donne dal velo integrale non saranno ammesse alle urne. Un po’ poco per sperare davvero di essere di fronte a una svolta epocale.

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Intervista a Hassan Nafaa, politologo ed editorialista del quotidiano “Al-Masry Al-Youm”

Come giudica la defezione di Mohammad El-Baradei dalla competizione?
Penso che sia stato un grande errore. Conosco molto bene El-Baradei poiché sono stato coordinatore della sua Associazione per il Cambiamento. Ma ammetto che non ha le qualità necessarie per poter essere un leader nazionale. Ha un’ottima visione strategica, ma non possiede un sufficiente senso di comunicazione. È inoltre sprovvisto di una personalità carismatica ed è troppo impegnato su fronti diversi da quello interno.

È rimasto sorpreso dalla sua decisione di ritirarsi?
No, perché capisco molto bene le sue motivazioni. Vorrei però aggiungere che fa parte della sua personalità non essere sufficientemente determinato.

Ma se avesse partecipato avrebbe potuto vincere?
Sì, perché in Egitto c’è una polarizzazione che avrebbe potuto rendere la sua candidatura una sorta di terza via. Molta gente non vuole infatti identificarsi né con il polo islamista né con quello dei residuati del vecchio regime. Lui, oltre a non essere abbastanza paziente, non conosce però a fondo né le tattiche politiche né le dinamiche elettorali interne.

Possiamo dire che gli elettori si trovino dunque oggi a dover votare per il meno peggio?
Non direi che i 13 candidati rappresentino il peggio delle candidature possibili. Rappresentano infatti l’intero spettro della politica egiziana, dall’estrema destra all’estrema sinistra. Penso che nello scenario attuale si possano individuare tre fronti: il fronte islamista, quello composto dalle due personalità legate al vecchio regime (Amr Musa e Ahmed Chafiq) e quello che rappresenta più da vicino la Rivoluzione, ma che purtroppo non ha espresso nessun candidato unitario come avrebbe potuto esserlo El-Baradei.

E questo terzo fronte da chi è composto?
Da Hamdin Sabahi, il nasseriano che ha fondato il Partito della Dignità, da Hisham Bastawisi, un giudice indipendente che è stato tra i promotori della Rivoluzione, da Abu El-Ezz El-Hariri, un famoso parlamentare della sinistra egiziana, e dall’attivista Khaled Ali, che è parte di quella giovane generazione che ha dato avvio alla Rivoluzione e combatte da sempre per la giustizia sociale e i diritti economici. Il problema è che tutti costoro sono molto divisi, e io temo che il voto per questo fronte rivoluzionario verrà disperso.

Non è contraddittorio che quanti rappresentano la Rivoluzione rischino di non essere eletti?
È un processo molto naturale in una Rivoluzione. Non abbiamo mai visto una Rivoluzione che abbia immediatamente portato al potere coloro che l’avevano promossa. O prendi il potere con la forza o lo cedi ad altri. E la Rivoluzione egiziana, oltre a non avere un leader unitario, era composta da tutte le correnti politiche: dall’estrema destra all’estrema sinistra. Quindi era estremamente divisa.

Quanto ha pesato, in questo mancato successo dei rivoluzionari, il ruolo dell’esercito?
L’esercito è stato fin dall’inizio contro l’opzione di una successione di Gamal Mubarak al padre, ma non per questo dichiaratamente dalla parte dei rivoluzionari. Voleva alcune riforme, ma non certamente quante ne reclamava la piazza. E i Fratelli musulmani sono riusciti a compiere quei compromessi con la giunta militare che, di fatto, hanno tagliato fuori i rivoluzionari dai giochi.

Come si spiega che una grande percentuale della popolazione, la cosiddetta maggioranza silenziosa, sia pronta a votare per i residuati del vecchio regime?
Dipende da come è stato gestito dall’esercito il periodo di transizione. Si è voluto far credere a questa maggioranza silenziosa che il cambiamento avrebbe portato disordine, povertà e instabilità. E che il vecchio regime avrebbe viceversa garantito sicurezza e ordine. In una popolazione con un 40% di analfabeti, questo è del tutto normale.

L’Occidente è preoccupato per questo tzunami islamista che si è abbattuto sull’Egitto fin dalle elezioni parlamentari. Quanto potrebbe incidere un’eventuale elezione di Abdel Moneim Abul Futuh, islamista moderato, su un’ulteriore islamizzazione del Paese?
Io ho annunciato pubblicamente il mio sostegno ad Abul Futuh. Perché è l’unico che abbia una vera chance di vincere le elezioni. Alcuni argomentano che Abul Futuh sia esattamente come Mohammad Morsi, il candidato dei Fratelli musulmani, e che una volta eletto tornerebbe nell’alveo della confraternita. Ma io ritengo che sia un discorso insensato. Le differenze ideologiche e politiche tra Abul Futuh e la dirigenza dei Fratelli sono infatti enormi, fin da prima della Rivoluzione. Naturalmente è un islamista, ma un islamista liberale. Ed è anche l’unico ad aver capito che gli islamisti dovranno fare i conti con le altre forze politiche. Penso quindi che rappresenti un’occasione storica per una rioganizzazione del Paese sul modello turco, e una concreta difesa contro un’islamizzazione radicale dell’Egitto.