Nuova evangelizzazione: alcuni nodi irrisolti di P.Dall’Oglio

Paolo Dall’Oglio *
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È di per sé estremamente significativo e promettente che i Sinodi dei Vescovi siano preparati da una larga consultazione ecclesiale, che potrebbe coinvolgere i cristiani a tutti i livelli e in tutti i loro ruoli. È con questo spirito di partecipazione e di comunione che ho letto e riletto i Lineamenta; non sono sempre riuscito a dominare una certa passione polemica, ma non l’ho censurata perché vorrei che dicesse quanto mi stanno a cuore queste problematiche dalle quali dipende il futuro della Chiesa e del suo servizio del Regno.
I Lineamenta per il prossimo Sinodo su “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012) sono zeppi di spunti stimolanti; tuttavia, a causa dell’assenza di alcune questioni e delle mancate sottolineature, prevalgono in me delusione teologica, preoccupazione per il futuro del sentire cattolico e timore che questioni urgenti non saranno adeguatamente affrontate.

I rapporti con l’islam

D’Islam si parla poco e solo negativamente. Nel quadro dello scenario politico della “nuova evangelizzazione” (NE), il “mondo islamico” è considerato il “nuovo attore” emerso sulla scena mondiale creando una “situazione inedita e totalmente sconosciuta” (n. 6). Non mi pare tanto vero. L’Islam è partner problematico e inaggirabile del teatro politico e culturale globale dal settimo secolo a oggi.

Fa piacere che, trattando della nuova emergenza del bisogno religioso e spirituale, s’inserisca “l’incontro e il dialogo con le grandi tradizioni religiose, in particolare quelle orientali” (n. 8). Tuttavia la comunanza tra le tre religioni abramitiche non è mai evocata. Guardare all’India è certo buono, ma distogliere lo sguardo dalla fraternità in Abramo con l’Ebraismo (mai citato!) e l’Islam non può esserlo.

Il fatto che la visione favorevole ai musulmani del Concilio Vaticano II sparisca regolarmente dai Lineamenta dei Sinodi (mi riferisco per esempio a quello sulla Parola di Dio e a quello sul Medio Oriente), anche se poi ritorna “dalla finestra” dei lavori sinodali, è un segno d’islamofobia preoccupante.

L’impressione complessiva è che la Chiesa cattolica si proponga come protagonista globale unico. Il documento indica continuamente un soggetto cristiano audace e zelante nel proporre la fede evangelica, come causa prima, trainante e finale dell’evento umano. L’intento di creare nuove sicurezze, d’offrire un sistema definito d’appartenenze, è preoccupante: in un mondo pluralista la Chiesa sceglie di costruire la sua isola globale. L’esilio della cattolicità profetica sarà lungo. Nell’attesa d’invertire la tendenza, non resta che seguire il consiglio di Geremia: piantar vigne e costruire case durature.

La povertà nella e della chiesa

Una questione che si presenta al cuore leggendo i Lineamenta è quella davvero irrisolta della povertà evangelica nella Chiesa. La questione non sta solo banalmente nell’accumulo finanziario, ma, di più, in un’estetica dell’arricchimento e del lusso che contraddice la bellezza di Nazaret. Intendiamoci, non è che la questione povertà non riguardi le altre Chiese!

Non c’era d’aspettarsi che i Lineamenta si rifacessero alla Teologia della liberazione; di fatto non lo fanno, ma l’impressione è che i redattori del documento siano omogenei culturalmente alla manipolazione post-moderna che pretenderebbe di aver risolto in chiave liberale e consumista il dramma della questione sociale.

In un certo senso, lo sfondo è quello dell’enciclica sulla carità di Benedetto XVI, dove la rassegnazione ecclesiale ai sistemi produttivi capitalisti internazionalizzati sembra un dato di realtà indiscutibile, che è solo da correggere con la carità. Sicché la Chiesa rinuncia ad accompagnare l’umanità sui sentieri degli escatologismi liberatori sociali e delle utopie egualitarie, e si assume in modo stabile la funzione di correttivo sociale e di balsamo per le piaghe più scandalose.

La questione della ricchezza della Chiesa, come ostacolo all’autenticità dell’evangelizzazione, resta da affrontare, ma i Lineamenta non lo fanno, se non di striscio (n. 22). La testimonianza della vita evangelica in povertà non può essere relegata a una rara specificità carismatica. Oggi pare che l’autorità ecclesiastica in generale sia rassegnata a un trend di vita borghese se non addirittura alto-borghese sicché sembrerebbe che non ci sia più il desiderio di riproporsi il problema.

L’esercizio dell’autorità

Dal punto di vista dell’autorità, la mancanza di democrazia resta teorizzata e l’apparato rimane dirigista e centralizzato.

La partecipazione dei fedeli più larga e responsabile possibile alla vita della “cosa comune” ecclesiale è sicuramente un bene perché va nel senso della fede adulta. Ciò andrà conciliato con la dimensione carismatica – e dunque paradossalmente elitaria della Chiesa (profetica) – e la prerogativa del clero ordinato (la storia dirà un giorno se potrà anche essere femminile), la quale rappresenta concretamente un riferimento d’obbedienza alla dimensione trascendente e soprannaturale del corpo tutto.

Penso che si possa tranquillamente dire “viva la democrazia nella Chiesa” e che con questo non si tradisca necessariamente l’essenziale della coscienza ecclesiologica. Voler vedere questo principio applicato alla e nella istituzione ecclesiastica non significa promuovere una rivoluzione democratica che verrebbe a ferire l’essenziale delle prerogative della successione apostolica e della responsabilità pastorale che ne deriva, a cominciare da quella del papato.

Non è banale, non è polemico, porre la questione della forma storica dell’esercizio dell’autorità relativa al carisma pastorale. In diverse occasioni, per esempio in riferimento al dialogo con le Chiese sorelle ortodosse, sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI si sono espressi in favore d’una revisione dell’esercizio del munus petrino, dunque dell’autorità papale, considerando questo come un cantiere teologico ed ecclesiologico aperto.

Il cantiere antropologico

In dialogo con quella parte dei Lineamenta che tratta dell’ecologia della persona umana (n. 21), vorrei ribadire la necessità d’affrontare la questione del cantiere antropologico contemporaneo in un modo diverso da quello che sembra proposto qui. Nei Lineamenta sembrerebbe che i doveri dei figli di Adamo verso l’ambiente naturale siano coniugati con un’idea della natura umana considerata acriticamente stabile e non evolutiva. Il proprio dell’uomo sembra invece quello di essere artificiale per natura.

La natura umana è ormai quella di dover gestire la propria identità specifica in una prospettiva di responsabilità morale radicale, dove la relazione a Dio non sarà più quella della mera obbedienza al Creatore-legislatore, ma bensì quella d’un partenariato drammatico, dove Dio ripone ormai la propria fiducia nell’autonomia della responsabilità umana. Sicché tutte le gravi scelte, nuove e urgenti, che si pongono a un’umanità che ha perso la possibilità di vivere naturalmente della natura, la obbligano a reinventarsi, non secondo natura ma secondo cultura. Qui si tratta d’altronde di rendersi conto che salvaguardare ciò che resta della natura (vegetale, animale, umana del pianeta) è una gravissima responsabilità collettiva e quindi un’enorme compito delle comunità religiose.

Se la nuova evangelizzazione non affronterà, finalmente, le questioni dell’antropologia post-naturale, in dialogo con le scienze applicate come l’ingegneria genetica, sarà difficile che possa dire qualcosa di convincente alle generazioni high-tech.

Infine, non sorprende che, accanto all’esclusione della questione femminile (per non parlare di quella della comunità GLBT – gay, lesbiche, bisessuali e transessuali), anche la teologia mariana risulti minimale e marginale nei Lineamenta. Ritengo che nessuno possa oggi illudersi, nella Chiesa Cattolica, che la questione femminile, e più in generale le questioni di genere, possano essere definitivamente congelate o poste in naftalina. L’evoluzione antropologica contemporanea avrà un impatto diretto sulla forma gerarchica della Chiesa a venire.


* Gesuita, laureato in lingua araba e teologia, è stato ordinato presbitero a Damasco nel rito siriaco. Nel 1991 ha riaperto il monastero di San Mosè l’Abissino (in arabo Mâr Mûsa al-Habashî) in Siria, dedicandosi in particolare all’ospitalità e al dialogo islamo-cristiano.

Il testo integrale della riflessione può essere consultato on-line alla pagina: http://www.deirmarmusa.org/it/node/223 Riduzione a cura di Franco Ferrari