Siria, le armi vengono dal Golfo

Michele Paris
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Un recente articolo del Washington Post ha rivelato come nell’ultimo periodo i “ribelli” armati in Siria stiano ricevendo massicce forniture di armi dall’estero, in gran parte grazie agli sforzi dei paesi del Golfo Persico e sotto il “coordinamento” di Washington. La notizia conferma le intenzioni di questi governi di voler far precipitare la situazione nel paese mediorientale, alimentando le violenze e lo scontro con il regime di Assad, nonostante sia tuttora in corso la missione ONU promossa da Kofi Annan per cercare di trovare una soluzione pacifica ad un conflitto che si trascina ormai da oltre un anno.

Ufficialmente, gli Stati Uniti provvedono alla fornitura soltanto di “materiale non letale” all’opposizione siriana ma, di fatto, facilitano il trasferimento di armi appoggiando l’impegno in questo senso delle monarchie assolute del Golfo, le quali, come Washington, auspicano un cambio di regime a Damasco per infliggere un colpo mortale all’Iran.

Nonostante il presunto atteggiamento cauto degli americani, scrive il Washington Post citando anonimi funzionari del Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama sta comunque intensificando i contatti con i ribelli armati, per cercare di promuovere l’unità delle fazioni che ne fanno parte e per coordinare le iniziative contro le forze di sicurezza del regime.

Questo impegno viene puntualmente descritto come inevitabile per il governo americano, dal momento che la situazione in Siria continua a precipitare a causa della repressione senza scrupoli di Assad, lasciando ben poche speranze ad una soluzione negoziata della crisi. In realtà, la situazione sta precipitando anche e soprattutto a causa dell’atteggiamento degli USA e dei loro alleati nel mondo arabo che, come dimostra la massiccia fornitura di equipaggiamenti militari, cercano di alimentare il caos nel paese per giustificare una qualche forma di intervento esterno.

Secondo il Washington Post, mentre i ribelli fino a un paio di mesi fa erano a corto di armi, ora il materiale bellico abbonda nei depositi di Damasco, Idlib e Zintan, queste ultime due località al confine rispettivamente con Turchia e Libano, da dove transitano principalmente le forniture dirette all’opposizione.

Il nuovo flusso di armi verso la Siria sarebbe la conseguenza della decisione presa recentemente da paesi come Arabia Saudita e Qatar di sborsare centinaia di milioni di dollari per finanziare le operazioni anti-Assad nel paese. Il denaro proveniente dal Golfo finisce soprattutto per beneficiare quelle fazioni che avanzano l’agenda delle monarchie sunnite, a cominciare dai Fratelli Musulmani che, proprio grazie a questi appoggi esterni, si sono assicurati una posizione di spicco all’interno della struttura organizzativa dell’opposizione siriana.

L’importanza del ruolo giocato comunque dagli Stati Uniti è confermata dagli stessi esponenti dell’opposizione, i quali hanno rivelato di essere in contatto diretto con il Dipartimento di Stato americano per indicare a quali gruppi debbano essere indirizzate le forniture di armi.

Dopo le ritirate nei mesi scorsi da località propagandate come simbolo della resistenza dai media occidentali, come il quartiere di Baba Amr a Homs, i ribelli si ritrovano dunque ora sufficientemente equipaggiati per riprende l’avanzata e mettere in atto azioni sempre più spregiudicate. Un’evoluzione che, come dimostrano gli episodi sanguinosi di questi giorni, minaccia di aggravare la crisi, spingendo la Siria verso la guerra civile.

Ad aumentare le tensioni è stata inoltre l’altro giorno la diffusione della notizia, riportata da alcuni media russi, che gruppi di militanti anti-Assad sarebbero stati inviati in Kosovo per ricevere addestramento sulle tattiche di guerriglia. La rivelazione ha suscitato l’immediata condanna da parte del Cremlino, da dove da tempo già si punta il dito contro i governi occidentali, accusati di fomentare le violenze in Siria e di essersi schierati apertamente con l’opposizione per rovesciare il regime alleato di Mosca.

Lo stesso articolo del Washington Post ha infine evidenziato un’altra iniziativa degli Stati Uniti che potrebbe aumentare il caos in Siria nonostante l’appoggio formale al piano di pace di Kofi Annan. Esponenti dell’amministrazione Obama avrebbero cioè incontrato questa settimana una delegazione della minoranza curda siriana, finora rimasta in gran parte neutrale nel conflitto per il timore di finire nuovamente emarginata in un eventuale futuro regime a maggioranza sunnita.

Durante il meeting, gli americani, con ogni probabilità promettendo in cambio qualche concessione dal prossimo regime, avrebbero cercato di convincere i leader curdi in Siria a schierarsi apertamente contro Assad e ad aprire un secondo fronte nel paese per contribuire al logoramento delle forze di sicurezza di Damasco. Com’è ovvio, l’allargamento del conflitto porterebbe a nuove violenze in aree del paese fino ad oggi relativamente risparmiate dalle ostilità.

In uno scenario nel quale la possibilità di un intervento armato esterno appare ancora lontana, a causa della ferma opposizione di Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il rafforzamento delle opposizioni armate appare per gli USA e i loro alleati la soluzione migliore per giungere al cambio di regime a Damasco, anche se il Pentagono ha da tempo preparato i piani per un’ipotetica azione militare in Siria.

I presunti rappresentanti dei ribelli che operano sul campo, intanto, martedì hanno proceduto ad estendere per altri tre mesi il mandato alla guida del Consiglio Nazionale Siriano (CNS) di Burhan Ghalioun. La decisione, presa durante un incontro a Roma, ha provocato le polemiche di molti membri del CNS, poiché in precedenza era stata stabilita una rotazione alla presidenza del comitato esecutivo del gruppo, mentre Ghalioun si trova ora ad iniziare il suo terzo mandato.

Il CNS è d’altra parte attraversato da profonde divisioni tra le varie fazioni che lo compongono, sintomo principale della sua sostanziale impopolarità tra la grande maggioranza della popolazione siriana che vorrebbe rappresentare.

Nonostante riceva l’appoggio incondizionato e i massicci finanziamenti dell’Occidente e dei paesi del Golfo e trovi quotidianamente nei media mainstream un’ampia cassa di risonanza, il CNS continua a distinguersi per la mancanza di coordinamento tra i propri membri, la struttura rigida e anti-democratica ed è esposto all’eccessiva influenza dei Fratelli Musulmani a discapito delle fazioni secolari. Molti dissidenti hanno perciò abbandonato in polemica il CNS sia prima che dopo la discussa rielezione di Ghalioun.

A testimoniare dello stato in cui si trova l’organo su cui punta Washington per assicurare una transizione verso un nuovo regime a Damasco meglio disposto verso i propri interessi ha contribuito il parere espresso qualche giorno fa al Wall Street Journal dal veterano dissidente siriano Fawaz Tello. Quest’ultimo, dopo aver lasciato recentemente la Siria proprio per collaborare con i vertici del CNS a Parigi e a Istanbul, ha definito il Consiglio stesso “un cadavere che l’intera comunità internazionale sta cercando disperatamente di resuscitare”.