Afghanistan: armare i droni italiani?

Giuliano Battiston
www.lettera22.it

Il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia ieri: proprio nel giorno in cui, in Italia, si sono moltiplicati gli appelli per annullare la parata militare del 2 giugno. Inutile, costosa e soprattutto inappropriata, di fronte alle sofferenze della popolazione colpita dal terremoto in Emilia Romagna. Con i soldi risparmiati annullando la parata – ha scritto Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! -, si potrebbero soccorrere oltre 5mila sfollati. Sulla richiesta proveniente da un’ampia fetta della società civile italiana, il governo per ora tace. Come fa sulla notizia resa pubblica dal giornale statunitense: “l’amministrazione Obama progetta di armare la flotta italiana di droni Reaper”. Per ora, i droni sono usati per compiti di sorveglianza, ricognizione e raccolta informazioni; se fossero dotati di missili Hellfire e di bombe a guida laser, l’Italia sarebbe il primo paese straniero a far volare droni americani armati di tutto punto. Il primo paese dopo l’Inghilterra: in virtù del ruolo di alleati speciali degli Stati Uniti, già nell’ottobre 2007 gli inglesi hanno cominciato a impiegare droni disarmati in Afghanistan, ottenendo poi che venissero armati alla fine del 2008.

Quanto all’Italia, secondo le notizie raccolte dal Wall Street Journal, l’amministrazione Obama avrebbe inviato già ad aprile al Congresso una nota con i dettagli sulla vendita all’Italia di 6 kit per armare i droni Reaper, “versione più potente”, e dunque potenzialmente più mortale, dei Predator (grazie al Multi-spectral Targeting System MTS-B e al Lynx IIE Synthetic Aperture Radar). Dei 6 droni Reaper, i primi due sarebbero stati impiegati nell’operazione Unified Protector in Libia, mentre gli altri 4 dovrebbe essere operativi alla fine del 2012.

Dal Congresso sarebbe potuta arrivare un parere negativo entro il 27 maggio. Il fatto che ciò non sia avvenuto lascia intendere l’intenzione di accordare un parere positivo all’operazione, forse già questa settimana. Dal punto di vista legale, a questo punto – nota il WSJ – servirebbe, entro 15 giorni, una risoluzione condivisa sia dalla Camera che dal Senato. Un’ipotesi improbabile. Secondo una delle portavoce del Pentagono, il comandante Wendy Snyder, “il trasferimento di strumenti e servizi della difesa americana all’Italia, tra gli altri alleati, le permetterebbe di condividere parte dei costi e di contribuire alle operazioni che proteggono non solo le truppe italiane ma anche quelle degli Stati Uniti e di altri partner della coalizione”. Nessun cenno, ovviamente, alle percentuali che segnalano una preoccupante crescita delle vittime civili negli attacchi “mirati” dal cielo. Servirà un anno – dichiarano gli esperti interpellati dal giornale americano – affinché i sistemi vengano perfezionati e gli italiani addestrati all’uso delle nuove armi.

Dall’ambasciata italiana a Kabul, nessun commento sulla contraddizione tra i piani di ritiro del soldati e la richiesta di potenziare le linee di fuoco.

A Washington, molti sono entusiasti. Soprattutto quanti lavorano nel settore degli armamenti: secondo le previsioni degli analisti del Teal group, il giro di affari mondiale per i droni Reaper e Predator arriverà fino a 5,8 miliardi di dollari nel 2017, contro i previsti 4,3 del prossimo anno. Non mancano, però, gli scettici: “la tecnologia americana all’avanguardia non dovrebbe essere condivisa, questa è la mia opinione – ha dichiarato la democratica che guida la Commissione Intelligence del Senato, Dianne Feinstein – sono preoccupata della possibile proliferazione di questi sistemi d’armi”. Il WSJ riporta le recenti preoccupazioni dello stesso John Brennan, consigliere antiterrorismo del presidente Obama: “siamo preoccupati che, usando tali tecnologie, vengano stabiliti dei precedenti che potrebbero essere seguiti da altre nazioni, e non tutte le nazioni condividono i nostri interessi o la priorità che accordiamo alla protezione della vita umana, inclusi i civili innocenti”. Dietro le parole di Brennan, la solita schizofrenia: accusare gli altri di ciò che gli Stati Uniti già fanno.

Che i droni portino inevitabilmente con sé anche vittime innocenti lo testimoniano le ultime stragi afghane, così come le voci raccolte nel bel libro curato da Shahzad Bashir e Robert D. Crews, Under the Drones: Modern Lives in the Afghanistan-Pakistan Borderlands (Harvard University Press 2012, 328 pagine). Un volume che racconta le difficoltà di vivere sotto la costante minaccia che qualcuno, dal cielo, possa ucciderti.

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Italia, l’isola dei droni

Antonio Mazzeo
www.eilmensile.it

La Sicilia sarà l’isola dei droni. In occasione del vertice tenutosi il 21 e 22 maggio a Chicago, città natale del presidente Obama, la Nato ha perfezionato l’accordo per insediare nella base aeronavale di Sigonella il centro di comando e controllo operativo dell’Ags (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre alleato.

L’Ags sarà disponibile a partire del 2015 e comporterà l’arrivo in Sicilia di cinque velivoli senza pilota Uav RQ-4 Global Hawk (Falco globale) di ultima generazione (Block 40). Entro il 2017, invece, giungeranno tra i 600 e gli 800 militari, “analisti, piloti, assistenti e, soprattutto, formatori”, come indicato all’agenzia Ansa da un ufficiale dell’Alleanza a Bruxelles, “perché Sigonella diventerà una base molto importante di training per tutta la Nato”.

Il Global Hawk è il più grande e sofisticato velivolo senza pilota mai progettato. Con una lunghezza di 13 metri e mezzo e un’apertura alare di oltre 35, il drone è in grado di volare a circa 600 chilometri all’ora, a quote di oltre 20mila metri e in qualsiasi condizione meteorologica. Il suo potente apparato radar è capace di localizzare e tracciare piccoli oggetti in movimento o stazionari con estrema precisione. Un “grande fratello” con cui l’Alleanza Atlantica si prepara ad intervenire militarmente in uno scacchiere strategico che comprende l’Oceano Atlantico, l’Europa, l’Africa e il Medio oriente. “L’AGS è essenziale per accrescere la capacità di pronto intervento in supporto delle forze Nato per tutta le loro possibili future operazioni”, ha spiegato il vicesegretario generale per gli investimenti alla difesa, Peter C. W. Flory.

Il centro di controllo AGS gestirà le informazioni ottenute in cooperazione con i Global Hawk della Us Air Force di penultima generazione (Block 30), operativi da due anni a Sigonella e con il Bams (Broad Maritime Area Surveillance), il sistema di sorveglianza e intelligence in via di acquisizione dalla Us Navy, incentrato su una versione modificata del falco globale che trasporterà un carico addizionale di sensori di 450 chili. Al comando Ags di Sigonella faranno riferimento pure le numerose basi per i velivoli senza pilota d’attacco del tipo Predator e Reaper che le forze armate Usa gestiscono in Iraq, Afghanistan, Yemen, Gibuti e nelle isole Seychelles. Il nuovo sistema di sorveglianza terrestre opererà inoltre in coordinamento con le stazioni UAV della Cia di al-Dhafra (Emirati Arabi Uniti) e al-Udeid (Qatar).

L’Ags sarà finanziato solo da tredici paesi sui 28 aderenti all’Alleanza Atlantica: Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Stati Uniti. Al summit di Chicago sono stati firmati i primi contratti per un valore di 1,7 miliardi di dollari con il gigante dell’industria aerospaziale americana Northrop Grumman Corp. che dovrà fornire i cinque aerei-drone, i sensori e le telecamere di bordo e le stazioni radar terrestri. Secondo fonti ufficiali Nato, altri 2 miliardi di dollari verranno spesi nei prossimi 20 anni per rendere pienamente operativo il sistema e garantire la manutenzione e l’aggiornamento dei Global Hawk. Solo una minima percentuale degli ingenti finanziamenti alleati andrà alle società europee partner di Northrop Grumman, come Cassidian (sussidiaria missilistica di Eads), l’italiana Selex Galileo (gruppo Finmeccanica) e Koongsberg.

Proprio il massiccio trasferimento di risorse finanziarie pubbliche europee a favore della holding statunitense ha spinto buona parte dei paesi Nato a disertare il programma Ags. La iniqua ridistribuzione dei profitti tra gli alleati ha infastidito pure uno dei maggiori sostenitori della scelta di Sigonella come “capitale mondiale” dei droni, l’ex capo di Stato maggiore della difesa, generale Vincenzo Camporini. A conclusione del vertice Nato, il militare ha commentato che l’Alliance Ground Surveillance e gli altri programmi della cosiddetta Smart Defence (la strategia di difesa intelligente varata a Chicago) “sono stati voluti dagli Stati Uniti e hanno comportato acquisizioni off the shelf di materiale di produzione americana”. “Così si chiederà agli europei di mettere una parte più o meno cospicua di finanziamenti, ad esclusivo favore dell’industria della difesa Usa”, ha concluso Camporini.

Nessun commento invece dalle forze politiche rappresentate in sede parlamentare. Solo la Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella e la Federazione della Sinistra hanno duramente criticato la scelta di rendere operativo l’Ags in Sicilia. “Se si considera che contemporaneamente va avanti l’altrettanto pericoloso progetto del Muos in territorio di Niscemi appare chiaro come sempre di più l’isola stia diventando una piattaforma armata nel centro del Mediterraneo”, scrive l’ex deputato Prc, Luca Cangemi. “I prezzi che le popolazioni devono pagare a questa dilagante militarizzazione sono gravissimi in termini di devastazione dell’ambiente e di negazione di sviluppo. In particolare va ribadita l’assoluta incompatibilità delle attività militari previste a Sigonella con lo sviluppo dello scalo catanese di Fontanarossa, già oggi pesantemente penalizzato dalle interferenze delle forze armate statunitensi”. Per Cangemi, l’Ags comporterà un pericolo per il traffico aereo civile con effetti economici “disastrosi” in tutta la Sicilia orientale. Ma a Roma e Palermo la cosa sembra assai poco importare.