Democrazie in Medio Oriente: lavori in corso

Danilo De Biasio
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Neppure un regista perfezionista poteva pensare ad una sceneggiatura migliore: proprio mentre la filosofa Seyla Benhabib stava concludendo il suo complesso ragionamento sul “cosmopolitismo come alternativa alla nuova guerra civile globale”, ha fatto irruzione nell’accaldata aula universitaria la cantilena del muezzin. Luogo: Università di Bilgi, Istanbul. Periodo: dal 19 al 24 maggio. Argomento: c’è più democrazia nel mondo dopo le rivolte arabe? Protagonisti: un gruppo di filosofi, economisti, sociologi che hanno scelto la città “ponte” fra Europa e Asia. Ma se la domanda è chiara, la location perfetta, gli studiosi ben preparati, la risposta è molto più articolata. Giancarlo Bosetti, direttore di Reset, l’inventore di questo appuntamento arrivato alla sua quinta edizione, ritiene ad esempio che oggi ci sia effettivamente “più aspettativa di democrazia nel mondo. C’è sicuramente più democrazia in quei Paesi interessati dalle rivolte. Ma questo” – aggiunge Bosetti – “complica la visione di noi occidentali verso il Medio Oriente, perché quelle che chiamiamo < > hanno sconfitto regimi dispotici secolari, laici. La religione, l’Islam, si è fatta veicolo dell’opposizione e oggi si affaccia alla ribalta con una presenza ingombrante, perché la democrazia liberale richiede il rispetto delle minoranze, delle opposizioni e dei diritti civili. Ciò che i nuovi regimi nati dalle < > devono dimostrare di perseguire”. Fermiamoci un momento: prima di immaginare i possibili sviluppi del Medio Oriente, proviamo a capire come si è arrivati a questo punto, perché – come sempre Giancarlo Bosetti ha fatto notare – “era comodo per noi occidentali lasciare che certe dittature garantissero uno sviluppo laico dello stato incarcerando o esiliando i leader religiosi”.

Il professor Timur Kuran, che insegna alla Duke University, ritiene che una delle scintille delle rivolte sia stata l’indignazione delle masse arabe per la corruzione dei loro regimi. Non c’era bisogno delle sue slides per convincere la platea, ma resta una domanda: perché la corruzione dovrebbe annidarsi in particolare nei governi laici del Vicino Oriente? “La corruzione” – ci spiega Timur Kuran – “è un problema in tutta la regione. Sia i regimi secolari, sia quelli religiosi tendono ad avere più alti livelli di corruzione rispetto all’Europa e c’è un motivo storico a spiegarlo: i servizi pubblici, storicamente, in Medio Oriente sono stati forniti da trust islamici molto rigidi chiamati waqfs (sono fondazioni religiose, alimentate da lasciti, che gestiscono moschee, scuole, ospedali, terreni, eccetera. I ricavi sono vincolati al sostentamento di poveri, orfani, famiglie di morti in combattimenti, ndr). Le waqfs sono molto rigide, dunque se volevi cambiarne le regole dovevi corrompere chi le sovraintendeva”. La conclusione di Timur Kuran è quindi che nei governi dei Paesi islamici “la corruzione è diventata uno stile di vita”. Ma ci sono anche altre ragioni che spiegano le rivolte arabe e gli studiosi intervenuti agli Istanbul Seminars 2012 organizzati da Reset e dalla Bilgi University li hanno snocciolati: Micheline Ishay, che divide il suo insegnamento tra Denver e Dubai, ha sottolineato che “la disoccupazione e un maggior tasso di istruzione sono stati un potente propellente per le rivolte”; Asaf Savas Akat, un economista star dei dibattiti televisivi in Turchia, ha ipotizzato che la richiesta di una open society fosse diventata matura anche in Medio Oriente dove prima “non convivevano contemporaneamente equità, innovazione e una seria politica antitrust”. Esemplare la sintesi che ne ha fatto Giuliano Amato: “le rivolte arabe – ha detto – ci parlano di una rivendicazione di dignità”. Dignità che evidentemente è stata calpestata, anche in nome di quel “Washington consensus” che regolava i mercati in senso liberista e che – ha sostenuto il sociologo Andrew Arato – “prima l’elezione di Obama e recentemente quella di Hollande, cominciano a incrinare”.

Siamo così arrivati al futuro. I rivolgimenti arabi hanno abbattuto regimi autoritari corrotti e laici: la nemesi storica prevede inevitabilmente la vittoria dell’Islam politico, come lasciano intendere – notizia di pochi giorni fa – pure le elezioni egiziane? E, domanda che stuzzica soprattutto chi osserva dall’Europa: l’Islam politico è compatibile con la democrazia? Farsi queste domande a Istanbul, all’interno di un campus universitario dove ragazze velate prendono il fresco sotto gli alberi accanto alle loro colleghe che mostrano l’ombelico (ahinoi, non è ancora passata la moda dei jeans a vita bassa!), dove l’altoparlante del minareto non riesce a coprire la musica techno di Virgin Radio Turkiye suggerisce una risposta positiva ad entrambe le domande. In Turchia l’attuale partito/leader, l’Akp di Erdogan, incarna una forma di democrazia autoritaria, che usa la religione; un regime che costringe a rivedere le contrapposizioni semplicistiche laicità/religione, tradizione/modernità, Oriente/Occidente. Tutti gli studiosi partecipanti agli Istanbul Seminars hanno messo le mani avanti: il modello turco non è esportabile. Nilufer Gole, sociologa turca che insegna a Parigi, non nasconde il suo giudizio positivo sulle novità introdotte da Erdogan perché a suo dire dimostra “che un partito legato all’Islam può essere un attore politico in un sistema democratico: questo era impensabile prima e il fatto che sia diventato possibile apre molte chance nei paesi arabi”. Roberto Toscano, ex ambasciatore in Iran, alza un soppraciglio: “la democrazia intesa semplicemente come governo della maggioranza, verificato attraverso le elezioni, non è sufficiente a garantire una vita prospera, libera, pluralista, cioè quella che noi in Occidente definiremo una democrazia liberale. Facciamo un esempio: se domani si facesse un referendum in Afghanistan sulla condizione della donna la maggioranza voterebbe per il burka e per limitare le loro libertà. Sarebbe democrazia? Formalmente, solo formalmente, sì. Ma attenzione” – ci avverte l’ex ambasciatore Toscano – “non è un problema di religione, perché neppure laicità è sinonimo di democrazia. In Turchia, ad esempio, la laicità è stata un’imposizione”.

Perfino dalla Tunisia, la nazione che sembra essere incamminata verso una promettente democrazia – anche per ragioni storiche, vista l’impronta di laicità alla francese – arrivano notizie preoccupanti: se ne è fatto portavoce Moehsen Marzouk che con la sua Arab Democracy Foudation (basata significativamente a Doha!) ha avuto un ruolo importante nella cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini”. Al convegno di Istanbul ha portato notizie dell’espansione del fondamentalismo non solo nelle zone economicamente arretrate del suo Paese ma anche a Tunisi. Marzouk, da consumato uomo politico, se la cava però dicendo che “il problema non è l’Islam, ma i partiti che lo usano per il potere”. Il professor Massimo Campanini, autorità in materia, usa Gramsci e il suo concetto di egemonia per una riflessione interlocutoria sul post-rivolte arabe: “le condizioni per una potenziale democrazia islamica sono un wishful thinking”, dice, anche se poi aggiunge che quanto è accaduto sta ponendo nuove riflessioni anche ai principali movimenti musulmani, costretti a ripensare ai loro disegni.

Condizionati forse dal clima di Istanbul, specchio di una civiltà che ha saputo amalgamarsi (anche se ne hanno fatto le spese, come sanno bene armeni e curdi, alcune minoranze), l’incontro organizzato da Reset e dalla Bilgi University obbliga a interrogarci su “noi” e “loro”, sullo scontro di civiltà, sulla pretesa occidentale di stabilire le regole del gioco. Avishai Margalit, uno dei fondatori di Peace Now, autore insieme a Ian Buruma di un libro che distruggeva le teorie di Huntington, non ha dubbi: “macchè scontro di civiltà, è uno scontro economico e politico”. Vedere il confronto Islam/Occidente senza le lenti deformate della superiorità occidentale permette di intravedere i sentieri stretti su cui è possibile incontrarsi. Tra gli studenti spiccavano per la loro voglia di domandare, puntualizzare, polemizzare alcune ragazze velate; ponevano domande che visualizzavano il loro desiderio di non essere considerate meno libere delle loro colleghe a capo scoperto, esprimevano una rivendicazione identitaria di una democrazia che non vuole essere considerata di serie B. Mehmet Pakaci, uno degli intellettuali di riferimento del partito maggioritario in Turchia, prova a ribaltare le convenzioni: “il mondo musulmano ha cominciato nel XIX secolo ad adottare gli ideali occidentali dello stato/nazione che presupponevano il concetto di < >: prima non era così”. E per l’oggi il professor Pakaci sostiene che “ogni società ha bisogno di libertà civili e religiose, di un’economia forte, di istruzione efficiente, di ordine e sicurezza. Ci arriveranno anche le nazioni del Medio Oriente. A loro modo e con i loro tempi”.

In conclusione emerge dagli Istanbul Seminars il concetto di democrazia “work in progress” come piace definirla a Nilufer Gole. Un concetto un po’ pericoloso se interpretato come abbassamento degli standard minimi, per adattarli alle tradizioni culturali. “No – risponde la sociologa turca – è la natura stessa della democrazia. Trent’anni fa non c’erano nel discorso pubblico temi come l’omosessualità, il femminismo, i movimenti verdi, le molestie contro le donne”. Appunto – verrebbe da risponderle – qualcuno glielo dica a chi guida la stagione che sta chiudendo le < >.