Europa: o cambia o muore

Fabrizio Casari
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Sondaggi che si alternano, paure diffuse, corse agli sportelli bancari. Il conto alla rovescia per le elezioni greche agita i sonni dei greci e delle banche di tutta Europa. Uscendo dalle tecnicalità linguistiche degli economisti e degli apprendisti stregoni allocati presso i partiti, la lettura dello scenario europeo appare indicare davvero il classico ballo sul ponte del Titanic. Parafrasando: se Atene piange, Roma non ride.

E’ vero che l’Italia gode di fattori di cui Atene è priva (i suoi cittadini hanno una ricchezza pari a 8 volte l’intero debito; la reputazione internazionale è maggiore; il PIL è decisamente superiore e la quota maggioritaria del suo debito è posseduta da italiani) ma è anche vero che il debito intero della Grecia è quello di due o tre regioni italiane. In questo senso c’è poco davvero da stare allegri e, preso atto che la cura Monti non offre particolari risultati, è forse arrivato il momento di vedere la Luna oltre che il dito.

E se il dito indica Grecia, Italia o Spagna, la Luna indica l’Europa. E’ ormai evidente che oltre la strada del rigorismo tedesco (ma non solo), che ha nel rientro nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht il mantra unico, ci sono altre soluzioni, altre proposte di politiche economiche che vengono avanzate da altri economisti.

La cancelliera Merkel continua ad opporsi con tutte le sue forze (che non sono poche) e i suoi amici (che invece pochi sono) all’idea di una inversione di tendenza nelle politiche economiche continentali. Bisogna capirla: i tedeschi stanno realizzando affari colossali grazie alla crisi economica. Questa, ad oggi, ha portato la Germania al livello massimo di potenza e l’Europa a quello d’impotenza. Il nodo è essenzialmente politico, per non dire culturale: la Germania intende dare una lezione di vita ai Paesi che considera troppo deboli per condividere il suo “spazio vitale”. Paese “serio”, la Germania, ma è bene diffidare da chi si (auto)definisce serio: di solito ha un secondo fine. Grazie alla condanna inflitta ai greci dalla dittatura rigorista di Frau Merkel, la Germania oggi è in grado di emettere titoli di stato a costo zero. Un numero sempre maggiore di avvoltoi è pronto a finanziare il dominatore d’Europa anche senza ricevere un euro di interessi sulla somma prestata.

Bene ha funzionato quindi il mantra disfattista che accomuna il rigorismo stolido del governo tedesco e l’istinto predatorio della speculazione internazionale: ora gli investitori sono pronti a mettere da parte il guadagno di oggi in vista di un profitto enorme di domani. In una eventuale fase di post-break-up dell’euro, il neo-marco diventerebbe ovviamente divisa ultra-pregiata, in grado di apprezzarsi nei confronti della divisa in cui è denominato il bilancio dell’investitore. Il solito film: pioggia di denaro sulla speculazione, pioggia di sangue sui popoli. Era questo il sogno europeo?

Sembra verificarsi quanto non scritto (ma fortemente pensato) dai padri dell’Europa, che vedevano la formazione dell’unità continentale in primo luogo come necessità storica per fermare l’espansionismo tedesco, che già con l’impero di Prussia prima e con il nazismo poi indicò chiaramente all’Europa il ruolo che la Germania ritiene le spetti nel continente. L’Unione europea, infatti, nacque soprattutto dall’esigenza di contenere l’espansionismo tedesco, prima di divenire una teoria politica affinatasi teoricamente con il manifesto di Ventotene.

Ma il resto dell’Europa non può rimanere a guardare, ostaggio del volere germanico che punta su un’Europa a due velocità. Sulle modalità con le quali affrontare la crisi c’è anche un’altra strada: trasformare la BCE in una Banca centrale sul modello della FED, che possa finanziare direttamente le economie nazionali ed assumere il ruolo di garanti del debito dei paesi in difficoltà.

Si può ragionevolmente obiettare che questa strada vedrebbe i virtuosi farsi carico dei debiti dei viziosi, ma se si vogliono proporre politiche continentali uniche non è possibile adottarle solo per quanto riguarda il pareggio di bilancio. Le garanzie continentali sul debito implicherebbero poi una parziale cessione di sovranità da parte dei Paesi interessati: le stesse politiche economico-fiscali e la vigilanza sui conti avrebbero una regia centralizzata. Ma non è già così nei fatti?

Molti economisti internazionali (tra cui almeno 5 Premi Nobel) non ritengono importanti le preoccupazioni europee sulla crescita dell’inflazione, problema minore in una fase recessiva come quella che abbraccia tutta l’eurozona. Più in generale, all’Europa serve recuperare terreno nella crescita, cioè nella produzione di beni e servizi di qualità con i quali sfidare il mercato globale. E per farlo, soprattutto per i paesi che più vedono avanzare la recessione economica, serve da subito una sterzata decisa in senso keynesiano, con il rilancio degli investimenti pubblici per creare occupazione e rilanciare la domanda interna, unica strada per alzare la quota di PIL.

Se in Italia si vuole ridurre l’indebitamento in rapporto al Pil, la strada non è ridurre le spese e aumentare le entrate, perché ridurre il welfare ed aumentare le tasse genera depressione economica e conflitto sociale, entrambi ingredienti poco graditi ai mercati oltre che ai popoli. Peraltro, anche riducendo le spese, parallelamente alla diminuzione del PIL non cambierebbe il differenziale negativo, producendo così solo maggiore disperazione sociale a fronte di identico indebitamento. Solo il gigantesco conflitto d’interessi di cui Monti è portatore può occultare questa realtà.

La strada dev’essere diversa: investire e creare lavoro, perché una maggiore occupazione rilancia la domanda interna e i consumi e questo permette di aumentare il PIL. Solo rimettere l’Italia in sicurezza dal punto di vista del riassetto idrogeologico avrebbe bisogno di decine di miliardi di euro come investimento iniziale e fornirebbe decine di migliaia di posti di lavoro. Potrebbero vedere la parola fine le inutili, dannose grandi opere e le missioni militari all’estero se proprio non si sapesse dove attingere fondi, ammesso che la banca europea d’investimento non fosse stata creata allo scopo.

Creare lavoro è la sfida decisiva, considerando che una disoccupazione al 12% della forza lavoro è la minaccia più pericolosa per la stabilità del sistema paese. Nuovi prodotti e nuovi servizi, nuova occupazione e nuovi mercati, riduzione della pressione fiscale sulle imprese che assumono e investono ed opere pubbliche sono le gambe del tavolo dove si poggia l’aumento del PIL.

E aumentare il PIL è un modo diretto ed efficace di ridurre il differenziale con il debito, soprattutto se quest’ultimo viene contestualmente ridotto tramite manovre di razionalizzazione e ristrutturazione dello stesso. A sostegno di ciò si dovrebbe agire anche sul fronte delle entrate: un incremento della tassazione sui movimenti speculativi in Borsa dovrebbe essere la prima mossa in vista di un riequilibrio della tassazione tra redditi da capitale e da lavoro, oggi scandalosamente a vantaggio dei primi.

Insieme a ciò, la ristrutturazione del debito è fondamentale: molto ci sarebbe da discutere sulla natura del debito e la sua esigibilità, ma non è questa la sede. Però spostare velocemente le lancette della fase di parità dal dicembre 2013 di almeno due o tre anni oltre non è una bestemmia, ma pura saggezza. Secondo fonti autorevoli, se si dovesse rientrare da qui al prossimo anno, ci sarebbero da reperire 190 miliardi di euro.

Ma se per una manovra di 25 hanno dovuto proporre lo smantellamento dei diritti nel mercato del lavoro, finte liberalizzazioni, umiliazione del welfare e veri regali alle banche, cosa dovranno proporre per trovare gli altri 175 rimanenti nello spazio di un anno? In effetti, anche proseguendo su questa strada, nel 2013 non arriveremmo comunque all’effettivo pareggio di bilancio, visto che il deficit rimarrebbe comunque almeno allo 0,5% e diverrebbe zero solo nel 2014 (così dice il governo almeno, ma è una stima poco credibile).

Ora è evidente che la crescita economica priva dei capitali indispensabili e la rinegoziazione del debito priva delle garanzie necessarie resterebbero buone intenzioni. E chi se non la BCE – cioè l’Europa tutta – dovrebbe assolvere il compito? Per la cancelliera Merkel sentir parlare di eurobond (che sono comunque una piccola soluzione e solo a breve termine) è già motivo d’itterizia, figuriamoci proporre a Berlino una modifica degli scopi della BCE. Che pure, però, sarebbe il primo utile passo per uscire dalla crisi.

La speculazione, infatti, aggredisce l’Italia, la Grecia e la Spagna non perché la loro esposizione debitoria sia drammatica, ma perché diversamente da altri paesi, che pure denunciano un indebitamento molto maggiore (Stati Uniti e Giappone, solo per fare un esempio), i paesi europei non dispongono di una Banca Centrale a protezione, che venga cioè in soccorso acquistando quote del debito tramite, ad esempio, l’acquisto dei titoli di stato, ma non solo.

La BCE, diversamente dalla FED statunitense, non batte moneta e non fornisce liquidità ai paesi e alle banche, fregandosene allegramente (loro) del rischio oggettivo di un punto o due in più d’inflazione. Gli Stati Uniti e il Giappone non sono vincolati dai parametri di Maastricht e non hanno il limite del 3% della quota di differenziale negativo tra Pil e indebitamento.

Intendiamoci: Maastricht è una costruzione insostenibile, basata su parametri che non sono riscontrabili in nessuna delle grandi teorie economiche; eppure, nonostante l’ossessione per l’inflazione, lo stesso trattato permette deroghe in fasi di crisi acute.

Alcune proposte di “finanza creativa”, come quelle di Monti sullo scorporo di una parte del debito sono in parte esercizio di ingegneria contabile, mentre la vera inversione di tendenza sarebbe quella di modificare lo statuto della BCE, rendendola a tutti gli effetti una Banca Centrale, consentendogli auspicabilmente in prospettiva di battere moneta ma almeno, sin da subito, assegnandogli comunque il potere di erogatore di prestiti in ultima istanza.

Perché prestare alle banche e non agli stati è un giochino che serve soprattutto a garantire alle banche un ulteriore profitto: non è un caso che i fondi che la BCE ha negato alla Grecia sono stati destinati alle banche europee. La differenza è che alle banche è stato richiesto l’uno per cento d’interesse, mentre le stesse, che hanno poi prestato alla Grecia, lo hanno fatto in cambio del 18% d’interesse. Un diciassette per cento di differenza che va tutto nelle casse degli istituti di credito. La domanda è: quale operazione finanziaria rende così tanto senza nessun esborso? E può la Grecia pagare ulteriori interessi per una partita di giro utile solo agli azionisti delle banche? Si può dire grazie per il colpo di grazia?