Italia: La crescita rivoluzionaria

Giovanni Perazzoli
www.micromega.net

Per uscire dalla crisi del debito sovrano dovremmo avere più crescita. Vero. Ma è proprio la crescita che in Italia sgomenta e mette paura. Sarebbe rivoluzionaria. Se l’Italia non cresce questo lo si deve infatti all’intreccio monopolistico-familistico che domina incontrastato e soffoca non solo l’economia, ma ogni aspetto della vita italiana: il giornalismo, le università, la sanità, persino il calcio. Dopo aver riempito di famigli ogni realtà pubblica e privata, è ovvio che non ci sia crescita. I casi di tracolli economici dovuti al controllo della casta (che non è costituita solo dai “partiti” e nemmeno da tutti i partiti) sono tanti. Esempi di oggi, la crisi di Rai2, il declino del Tg1: moltiplicate per l’intero paese e per anni di controllo, di familismo, di nepotismo, di accurata selezione dei peggiori, e avrete una ragione del perché il paese non cresce.

A sinistra questo aspetto dovrebbe essere colto al volo. La crisi dovrebbe essere l’occasione per avviare un cambiamento. Al contrario, riducendo il problema a un fatto d’investimenti, si dice una cosa opportuna, ma anche “innegabile” come una tautologia, e che non esaurisce il problema, mentre offre su un piatto d’argento la salvezza alle oligarchie che possono continuare a controllare tutto.

L’Italia non cresce, in ultima analisi, per mancanza di democrazia. I costi li pagano i precari, i lavoratori, le donne e i giovani e i meno giovani senza santi in paradiso. Non c’è crescita, ma non c’è neanche mobilità sociale: e le due cose si tengono insieme. Anche il precariato ha una delle sue ragioni principali nella necessità di supplire, con persone competenti che non possono chiedere nulla, alla mancanza di competenze del sistema familistico. Avveniva già nelle corti delle aristocrazie.

La casta e l’economia chiusa (ovvero di casta) sono realtà complementari. Non è un caso se nella crisi dell’euro sono proprio i paesi più democratici – come l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Francia, la Finlandia – che stanno meglio. E non ci prendiamo in giro: non bisogna essere dei giganti economici per avere uno Stato ordinato: paesi piccoli, come l’Olanda o la Slovacchia, non hanno i nostri problemi; anzi gli olandesi stanno anche meglio dei tedeschi.

La crescita è un tipo di società. Lo si impara dal vecchio liberalismo: non c’è crescita quando l’economia è soffocata dagli intrecci familistici, dagli aiuti di Stato mirati a salvare un sistema oligarchico che si autoelegge a insostituibile garanzia di stabilità del Paese. Non si tratta di un problema esclusivamente “morale” (stupisce che esistano ancora, dopo tutto quello che abbiamo visto, dei temerari che arrischiano tali giudizi): è anche un problema economico; del resto ben noto, perché è all’origine di ogni decadenza.

La nostra oligarchia, politica e non solo, che adesso strilla disperata, attaccandosi a chiunque possa darle ragione (soprattutto con lo scopo di allontanare da se stessa la responsabilità della crisi), fa pensare alle vecchie aristocrazie che furono messe fuori gioco delle rivoluzioni liberali europee. Gli uni intrecciati agli altri, per non farsi troppo male e per garantirsi reciprocamente. Un figlio preso di qua, uno di là, come nelle antiche famiglie medievali, tutti ostaggi di tutti. Non solo nel pubblico, ma anche nel privato: non si apre una grande attività privata senza proteggersi le spalle con le assunzioni giuste. Il merito? Roba da tedeschi. Che cosa rivela – ammesso che abbia un senso – il fatto che per assumere i meritevoli il governo propone degli sgravi fiscali? Centrata l’ironia di Giorgio Meletti, il governo offre degli incentivi, “come se oggi le imprese assumessero il deficiente raccomandato al posto di quello bravo solo perché tanto costano uguale”. Adesso però che i soldi sono finiti, perché, o anche perché, ovviamente, l’economia di casta ha creato un paese debole, floscio, senza idee, se la prendono con il nemico straniero. Bisogna mantenere il vivaio di trote. Non resta allora che il “chiagni e fotti” nazionale. In questo, però, va riconosciuto, sono bravissimi (un’attitudine affinata nei secoli).

Occorrerebbe (e non basta) liberalizzare, ma non verso il basso. La crisi del nostro debito sovrano non la si risolve con più taxi alla stazione. Questo non è liberalizzare, ma un modo per fare il contrario: è un modo per spaventare la gente, come facevano i vecchi latifondisti che si facevano difendere aizzando i loro contadini contro i propri nemici (che non necessariamente erano i nemici anche dei contadini, anzi, spesso era il contrario). Gli mettevano in mano il forcone, e vai. Oggi il nemico è la Germania, che ci sta pure bene nella parte del cattivo. E comunque, si decidano: la sovranità di emettere debito è la nostra, quella di pagarlo però no? No, lo devono pagare i tedeschi, perché hanno fatto meglio di noi; così imparano.

Ma tutto purtroppo si tiene. Liberalizzare significherebbe sciogliere in alto la sacra unione degli intrecci che sono il complemento della corruzione generale, ciò che fa sì che l’Italia sia il paese in Europa con i salari più bassi e il costo della vita più alto, con un welfare clientelare e non al servizio dei cittadini, e con gli scandali economici e le bancarotte più inverosimili, che si perdono nella notte dei tempi. Le liberalizzazioni dovrebbero andare verso l’alto, non verso il basso. Anche perché più destrutturati di così, in basso, si muore. Ma stranamente i responsabili della stagnazione sono i tedeschi e i lavoratori italiani “troppo garantiti”. Una curiosa sinergia di responsabilità.

La crisi in Italia fa paura per questo: non perché non c’è crescita, ma per la ragione opposta, perché bisognerebbe crescere. Se non arriva una soluzione che permetta la solita vecchia “crescita assistita”, non resterebbe altra soluzione che crescere sul serio. Ma questo significherebbe riformare ‘o sistema. Piuttosto di farlo, però, il sistema scarica addosso ai soliti i costi delle rendite, punta i piedi con provvedimenti contro l’articolo 18 ecc. Già più utile sarebbe l’abolizione dell’albo dei giornalisti.

Per questo la “crescita” in Italia non può che essere raccontata e invocata in un senso minore, parziale, e di corto respiro, con la mediocrità che da qualche tempo ci affligge. Il senso della crescita deve essere quello della solita vecchia assistenza alla decotta, ma sempre vorace, “razza padrona” (dei vecchi tempi). Quindi, pompare soldi nel “sistema” e realizzare infrastrutture. Così tutto resta come è, e in più i vari amici fanno un sacco di soldi. Curiosamente, non è apparsa in Italia la notizia che riporta der Spiegel: Hollande per la crescita propone di fare la Tav.

Però. La crisi appare drammatica sui giornali italiani, mentre non occupa molto l’attenzione di quelli stranieri, che aprono con la Siria, la regina d’Inghilterra e altre notizie. Per l’euro si arriverà a una soluzione di compromesso. Poi temo che sarà facile capire chi in Italia ha vinto e chi, invece, ha (di nuovo) perso. Però, senza saperlo.