Un Muro lungo dieci anni

Michele Giorgio – Near Neast News Agency
http://nena-news.globalist.it

«Stanno costruendo il nuovo muro di Auschwitz…Si tratta di un’operazione inutile che è una disgrazia per la dignità del nostro popolo». A far uso di queste parole, il 17 giugno del 2002, non furono i palestinesi, sgomenti di fronte all’avvio, qualche giorno prima, della costruzione da parte di Israele del cosiddetto «Muro di Separazione» nella Cisgiordania occupata. A scriverle, in un comunicato, furono le «Donne in Verde», una delle espressioni più estremiste del movimento dei coloni israeliani. In quei giorni caotici e insaguinati, i coloni temevano che i loro insediamenti si sarebbero ritrovati un giorno al di là della barriera, costringendoli a rientrare in Israele, pur di non sottostare all’autorità di uno Stato palestinese indipendente.

Che ingrati i coloni. I governi israeliani hanno sempre lavorato per loro. E così fece anche quello dell’epoca guidato da Ariel Sharon. Il «piano di disimpegno» annunciato dal premier israeliano che ha legato per sempre il suo nome al massacro di migliaia di civili palestinesi a Sabra e Shatila (Libano), in realtà prevedeva l’uscita di coloni e soldati dall’incontrollabile Striscia di Gaza, non certo dalla Cisgiordania della biblica Eretz Israel. Così dieci anni dopo i coloni non solo sono ancora al loro posto e in insediamenti sempre più grandi, ma si ritrovano quasi tutti all’interno dell’ampia porzione di territorio palestinese ritagliata dal Muro e di fatto già annessa a Israele.

E quella che i leader israeliani si affannavano a descrivere, nel silenzio-assenso dei colleghi occidentali, come una «barriera di sicurezza» non permanente, volta solo a sbarrare il passo ai kamikaze palestinesi, si è rivelata un progetto politico che indica il confine occidentale (km in più, km in meno) tra Israele e quello Stato palestinese che non è mai nato e forse non nascerà mai. E se a ciò aggiungiamo il controllo che Israele rivendica sulla Valle del fiume Giordano, lungo il confine tra il Regno Hashemita e la Cisgiordania, emerge ancora più evidente la natura politica del Muro.

Oggi, a due giorni dal decimo anniversario dall’accensione dei motori delle ruspe che spianarono i terreni palestinesi a Kfur Salem dando inizio alla costruzione del Muro, e fino al 9 luglio, ottavo anniversario della storica (ma mai ascoltata) «Advisory Opinion» della Corte Internazionale di Giustizia sulla completa illegalità del progetto israeliano, il centro per la tutela dei diritti umani al Haq di Ramallah (affiliato alla Commissione internazionale di giuristi di Ginevra) porterà avanti una campagna, «Annexation Wall: 10 Years Too Long», per sensibilizzare l’opinione pubblica, sia a livello locale che internazionale. Si comincia questo pomeriggio con una ampia mostra fotografica sulla barriera israeliana alla Galleria Ma’mal di Gerusalemme Est. «Durante la campagna promuoveremo numerose attività – spiega al manifesto Shawan Jabarin, direttore di al Haq – Stiamo lavorando a video con le testimonianze di persone e famiglie che sono state particolarmente colpite della costruzione del Muro».

La campagna si chiuderà con un’iniziativa co-organizzata con l’International Center for Transitional Justice alla quale interverranno accademici, avvocati e membri dei Comitati palestinesi di resistenza popolare. Tra i partecipanti dovrebbe esserci anche l’ex premier giordano Al-Khasawneh, che era giudice alla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004. A svelare il carattere politico del Muro fu l’intervento del 22 aprile 2004 di Ariel Sharon davanti alla Knesset. Raggiante, il premier descrisse la decisione di George W. Bush – messa nero su bianco in una lettera di garanzie inviata a Israele qualche giorno prima – di appoggiare il suo piano di disimpegno dai palestinesi «un successo senza precedenti». Aveva ragione, per la prima volta un presidente Usa aveva accettato in modo ufficiale quello che dietro le quinte Washington riteneva già scritto sulla pietra: Israele ha il diritto di annettersi ampie porzioni della Cisgiordania occupata, in particolare quelle con le maggiori concentrazioni di colonie.

Un via libera che i palestinesi considerarono come il colpo più duro dal punto di vista diplomatico subito dalla Nakba, nel 1948. Era una negazione del diritto internazionale, il riconoscimento di un atto di forza. E gli effetti sul terreno si videro negli anni successivi con il percorso del Muro che, su e giù per la Cisgiordania, ben distante dalla Linea Verde internazionale, realizzava il disegno di annessione. «La lettera del presidente (Bush) – proclamò quel 22 aprile Ariel Sharon – contiene il riconoscimento inequivoco americano del diritto di Israele a confini difendibili e a difendersi con vigore ovunque e inoltre contiene l’impegno a conservare la sua forza di dissuasione davanti a ogni minaccia».

Quell’assegno in bianco consegnato a Sharon avrebbe però fatto i conti con qualcosa che il presidente Usa più accondiscendente nei confronti di Israele non aveva previsto. La resistenza popolare palestinese alla costruzione del Muro. Mobilitate proprio dall’opinione espressa della Corte Internazionale di Giustizia nel luglio 2004, le popolazioni di Bilin, Nilin, Masra, Beit Jala, Beit Sahour, Budrus e di tanti altri villaggi palestinesi che si sono visti portare via la terra, la vita, il futuro dalla costruzione della barriera, diedero vita ad una protesta che ancora non si spegne. Manifestazioni continue, con la partecipazione di attivisti internazionali e anche israeliani schierati con i palestinesi. Nel nome del diritto e contro la legge del più forte.