Bandiera

Ettore Masina
Lettera 153, maggio 2012

A portarlo al pronto soccorso di un ospedale ateniese è stato un gruppo di giovani. Si occupavano di quel vecchio con una tenerezza che ha commosso il medico di guardia ma lo ha fatto anche arrabbiare: “Vostro nonno è in crisi respiratoria perché ha inalato i gas lacrimogeni della polizia. Non è grave, ma gli anziani, in questi giorni di violenza, bisogna tenerli in casa!”. I giovani – idioti! – hanno riso, guardandosi fra loro.

Più tardi il vecchio è stato dimesso. Il medico lo ha rivisto il giorno dopo in una grande fotografia su un giornale; con i suoi capelli candidi e il corpo appesantito dagli anni, stava in prima fila in un gruppo di manifestanti che si opponevano a una carica di poliziotti. “Anche Manolis in piazza” spiegava il quotidiano. Manolis Glezos, novant’anni, è uno dei due resistenti greci che, esattamente 71 anni fa, la notte del 30 maggio 1941, scalarono il colle Eretteo per strappare dal Partenone la bandiera nazista inalzatavi dagli invasori tedeschi. Con lui, quella notte, c’era un altro studente, suo coetaneo: Apostolos Santas detto “Lakis”. “Lakis” è morto il 30 aprile scorso. “Altrimenti – dice Manolis- sarebbe stato in piazza con me contro la dittatura internazionale che ci impone di diventare più poveri o di scomparire”.

Quale bandiera sventola oggi sulla Grecia? Quella di una storia gloriosa e terribile, sanguinosa e luminosa della quale anche noi (la nostra cultura, il concetto di civiltà, di democrazia) siamo figli o quella della legge barbara e regressiva del più forte che schiaccia il debole? Nelle ultime elezioni un numero pericolosamente alto di greci ha votato per una destra ottusa e violenta: il 40 per 100 dei poliziotti e dei militari ha scelto “Chrysi Avgi” (Alba dorata), una formazione neo-nazista che propone, fra l’altro, di minare le frontiere per bloccare l’ingresso di clandestini nel paese. Questa degenerazione politica è perfettamente funzionale al feroce cinismo del sistema capitalista mondiale.

Dovunque gli speculatori finanziari stringono i paesi nella tenaglia del loro potere, la democrazia entra in crisi. Sembra incredibile che non se ne accorgano gli statisti europei: non basta proclamare la propria fedeltà alle costituzioni liberali se poi ci si affida (o ci si arrende) alla brutalità di quello che fu chiamato l’imperialismo internazionale del danaro: l’umanità è ormai sospinta sul crinale apocalittico che divide le estreme speranze di chi crede nella dignità dell’uomo dal baratro dei regimi totalitari. Hitler è morto da più di mezzo secolo, il colonialismo italiano è stato rimosso dal nostro passato, lo stalinismo è un’immensa macchia di sangue sul registro delle utopie ma la sfrenata violenza dell’odierno sistema finanziario evoca la terribilità dei popoli gettati, nel secolo scorso, dalle peggiori dittature nella geenna del sottosviluppo: della fame, della perdita di ogni libertà, della deportazione. Non sembrano abbandonate nelle regioni maledette dell’impotenza e dell’insignificanza le masse (soprattutto giovanili) di disoccupati? Un popolo di 23 milioni e mezzo di persone soltanto nel nostro continente.

Sono anni che questa situazione va aggravandosi e troppi di noi non hanno avuto occhi per vederlo o hanno temuto di essere trattati da fanatici dalle persone sagge se ne parlavano. Ogni tanto quando ci raggiunge l’ultima brutta notizia dalle borse (questi lindi scannatoi delle speranze dei cosiddetti risparmiatori) restiamo sorpresi: ma com’è possibile? Sorpresi? Permettetemi di raccontarvi un minimo episodio. Il mese scorso sono stato a Zugliano per commemorare Turoldo e Balducci, nel ventesimo anniversario della loro morte. La manifestazione si è svolta in quella comunità cristiana fondata da don Pierluigi di Piazza che è oggi uno dei centri più vivi nella meditazione del vangelo e dei segni dei tempi. È uno dei luoghi in cui mi reco più volentieri perché mi sento accolto come un fratello. Questa volta i miei ospiti mi hanno fatto un regalo. Mi hanno donato il testo stenografico di una mia relazione. La data di quella mia chiacchierata è il 2 dicembre 1992.

Ebbene, io che non sono mai stato più che un manovale della politica, parlavo, fra l’altro, “di uno stato ridotto allo sfascio da trent’anni di clientelismo e dalle congiure del potere nel supremo disprezzo della democrazia; di una scuola incapace di rispondere alle autentiche esigenze dei giovani; di una classe dirigente che nell’affrontare il mostruoso deficit del bilancio nazionale anziché accentuare la pressione fiscale sui ricchi, taglia i redditi dei lavoratori dipendenti, taglia i finanziamenti agli handicappati e ai malati, mitizza il costo del lavoro, senza domandarsi quale sia il profitto del capitale…” etc. etc.

Dicembre 1992, il presidente del consiglio Giuliano Amato aveva appena varato la manovra Sangue & Lacrime, ricordate? A pagare di più –già allora, e da allora poi sempre – i cittadini meno abbienti. E descrivevo così i signori della casta che imponevano sacrifici crudeli alle classi “subalterne”: “Essi non sanno più quanto sia difficile il bilancio della famiglia di un lavoratore a reddito fisso; da anni non viaggiano su un autobus o su un treno di pendolari; non entrano in una corsia di ospedale; non ascoltano i giovani disoccupati, non fanno la fila davanti agli sportelli delle pensioni; non entrano in un mercato rionale, non conoscono, insomma, da vicino le tensioni che complicano e aggravano la vita dei comuni cittadini; e perciò spesso legiferano e chiedono alla gente, come in questi giorni, ulteriori sacrifici senza rendersi conto dei carichi che impongono…”.

Erano gli anni in cui l’economia dei mercati conteneva ancora qualche regola e proporzione di scambio: manufatti contro materie prime, lavoro anche duro contro riconoscimento di diritti basilari, Ma già stava profilandosi il più tragico dei mutamenti della storia: l’ irruzione dell’informatica in un’economia globalizzata consentiva agli insaziabili ricchi e alle loro consorterie di inventarsi un nuovo sistema internazionale, un mercato virtuale che permetteva agli speculatori nuovi margini di guadagno spostando con brutale rapidità da uno stato all’altro enormi capitali. I paesi meno ricchi sono stati aggrediti, vampirizzati, con la correità dei peggiori governanti nazionali ed esteri. Ricordate gli spot televisivi berlusconiani per insegnarci la riconoscenza per chi comprava il superfluo e svendeva il nostro bilancio?

La Grecia è un esempio di questa riduzione di sovranità: dopo il monumentale narcisismo delle Olimpiadi e l’acquisto, per ingloriosi obblighi diplomatici, di sottomarini tedeschi, al suo popolo è ormai concesso un solo diritto, quello di uniformarsi alle decisioni dei suoi sfruttatori. Mai l’umanità ha conosciuto nella sua storia una simile offensiva contro la dignità che milioni di operai e di contadini erano riusciti a conquistare negli ultimi due secoli, pagando un altissimo prezzo di sangue. A quella che era stata definita “civiltà del lavoro”, scrive adesso Eduardo Galeano, subentra la “civiltà della paura”: paura di non trovare lavoro, paura di perdere il lavoro trovato, paura che il lavoro diventi sempre più duro, paura che il lavoro venga sempre meno retribuito.

Retorica? Un numero crescente di lavoratori torna nei capannoni delle fabbriche emiliane frantumate dal terremoto, anche prima della verifica della loro abitabilità: preferiscono rischiare la morte piuttosto che il salario. E c’è di peggio. La paura si accompagna allo sberleffo con il quale gli “esperti” credono di rendere più incisive le lezioni che impartiscono ai cittadini. Come dice ancora Galeano, un tempo anche gli uomini della destra convenivano che le grandi miserie erano figlie di grandi ingiustizie; ma da qualche tempo hanno cominciato a predicare che la povertà è la punizione per le eccessive pretese dei lavoratori: “Avete voluto troppo. Adesso bisogna ridurvi il Welfare!”. (Qualcuno deve avere illustrato a Galeano l’ossessivo florilegio della nostra Matrigna Nazionale, Elsa Fornero).

Ammainata su tutta l’Europa la bandiera di Manolis e di Apostolos? Può darsi, e può darsi che altre ne vengano presto portate nelle botteghe degli antiquari, a cominciare da quella dell’Italia dei professori altezzosi e dei partiti precipitati nel marasma etico in cui agonizza la Seconda Repubblica.. E tuttavia molti di noi vecchi, che pure non siamo più in grado di scalare erettei né di domandare ai professori-badanti se proprio bisogna piegarsi ogni giorno un po’ di più al potere degli speculatori, sentiamo spesso che non tutto è perduto. Sappiamo bene di contare poco da molti punti di vista ma ci capita di sentire in noi, di tanto in tanto, all’improvviso, quel respiro della storia che si chiama speranza.

Ogni nostra esistenza lo testimonia: ogni scelta che abbiamo tentato e ogni scelta altrui alla quale abbiamo dovuto fare fronte ha richiesto quel respiro. Ogni lacrima di umiliazione, o di dolore ci ha estorto il coraggio di vivere. Dicono che la speranza sia prerogativa dei giovani, ma non è vero: i giovani di oggi sono disperati e quelli di un tempo erano ottimisti soltanto perché non conoscevano la storia che li attendeva. Noi la storia l’abbiamo vissuta tutta, come si spolpa un frutto e –ascoltate! – abbiamo imparato che giustizia, equità, eguaglianza, fraternità, vincono sempre le loro battaglie se a quelle battaglie partecipano gli uomini e le donne di buona volontà.