I dogmi di Berlino e i danni della smemoratezza storica

Barbara Spinelli
Repubblica, 13 giugno 2012

Da qualche giorno si parla, non senza speranza, della proposta avanzata il 7 giugno da Angela Merkel alla televisione tedesca. Un’unione economica e politica dell’Europa, grazie alla quale la moneta unica potrà sormontare i propri squilibri, l’indebitamento degli Stati diverrà comune debito europeo, l’Unione potrà emettere eurobond garantiti solidalmente, sorvegliare le banche unificandole. L’obiettivo sarebbe una Federazione, ottenibile attraverso nuove graduali cessioni di sovranità nazionali: ancora in mano agli Stati, esse sono impotenti di fronte ai mercati. La terra promessa è bella, ma è tutt’altro che chiaro se il Cancelliere voglia, e presto, quel che annuncia. Se non stia guadagnando tempo, dunque perdendolo. Comunque, l’idea è di sfidare il suo principale interlocutore: il nuovo Presidente francese. Ricordi, la Francia, che se l’Europa non si fa la colpa è sua, non dei tedeschi. È da decenni che Parigi avversa cessioni di sovranità, e ora è messa davanti alle sue responsabilità. Né pare recedere: due ministri, degli Esteri e dell’Europa, votarono contro la Costituzione nel 2005.

La rigidità francese è certo corresponsabile del presente marasma – Hollande potrebbe prendere sul serio la Merkel, costringendola a fare quel che dice di volere – ma se ascoltiamo le parole del Cancelliere e soprattutto quelle di Schäuble, ministro del Tesoro, il piano somiglia molto a un villaggio Potemkin: un prodigio, ma di cartapesta. Di poteri rafforzati delle istituzioni europee la Merkel parlò il 14 novembre 2011 (al congresso democristiano), e poi in una conferenza a Berlino il 7 febbraio, ma mai l’idea divenne formale proposta. Il più esplicito è stato Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Subito dopo l’elezione di Hollande, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 25 maggio, per stuzzicare i francesi: mettere in comune i debiti, ha detto, è impossibile senza Federazione. “Perfino nei paesi che reclamano gli eurobond, come in Francia, non constato su questo tema né dibattito pubblico, né sostegno popolare a trasferimenti di sovranità”.

Il fatto è che nella posizione tedesca c’è qualcosa di profondamente specioso, e insensatamente lento. Intervistato dall’Handelsblatt, il 5 giugno, Schäuble afferma che l’unione politica è un progetto di lungo termine. Prima bisogna vincere la crisi: ogni Stato con le sue forze, e con piani di austerità che pure hanno mostrato la loro inanità. Fanno male, i piani? Sfiniscono i popoli, e aumentano perversamente i debiti nazionali? Il ministro lo nega: quasi sembra considerare la sofferenza un prelibato ingrediente della rinascita europea. La domanda frana nei paesi indebitati? Niente affatto: “I programmi non diminuiscono il potere d’acquisto, siamo solo di fronte a crisi di adattamento”. L’Unione crollerà? Anche questo viene negato: “I grandi scenari apocalittici non si sono mai inverati”.

La negazione dei fatti, unita a un impressionante oblio storico (come si fa, in Europa, a dire che gli scenari apocalittici non si sono mai inverati?): sono gli elementi che impregnano oggi la posizione tedesca. Se questa appare così immobile, è perché un dogma la paralizza. È il dogma della “casa in ordine”, in voga tra gli economisti tedeschi dagli anni ’20: se ogni Stato fa ordine come si deve, la cooperazione internazionale funzionerà e a quel punto si penserà all’unione politica, all’unione bancaria per far fronte alla crisi spagnola, alle misure per l’Italia pericolante. Come spesso accade ai dogmi, essi contengono incongruenze logiche e un’abissale indifferenza al divenire storico.

Il difetto logico, spesso sconfinante nell’ottusità, è palese nel ragionare dei vertici tedeschi. Si riconosce che l’euro senza Stato è zoppo, si rievoca quel che Kohl disse a proposito dell’unione politica, necessario complemento della moneta unica. Per la Merkel come per Schäuble, tuttavia, l’unione ha senso dopo che gli Stati avranno aggiustato le finanze: non diventa lievito della ripresa, ma si aggiunge ex post, quasi un premio. Che significa, allora, dire che l’euro senza Stato è il vizio d’origine dell’unione monetaria? Se i rimedi ai vizi sono rinviati, vuol dire che non sono ritenuti farmaci cruciali. Cruciale è il giudizio dei mercati, non arginabili con un cambio di paradigma nella costruzione europea. Cruciale è il culto del dogma, impacchettato con carta europeista in modo da imbarazzare i francesi. È quel che Walter Benjamin, in un frammento del 1921, chiama religione del capitalismo: quest’ultimo diventa “puro culto”, che non redime ma colpevolizza soltanto. Non a caso, dice Benjamin, Schuld ha in tedesco due significati: debito e colpa.

La smemoratezza storica non è meno funesta. Berlino dimentica non solo gli anni ’20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra. Charles Maier, storico a Harvard, spiega che il piano funzionò perché non era condizionato: le riforme sarebbero venute col tempo, grazie alla ripresa europea. Oggi toccherebbe alla Germania avere quell’atteggiamento, che legò riduzione dei debiti e rimborsi dei prestiti alla crescita ritrovata. Scrive Maier: “Gli europei dovrebbero ricordare il monito di George Marshall, nel ’47: “Il paziente sprofonda, mentre i dottori deliberano”” (New York Times, 9-6-12).

Anche Obama, quando invita i tedeschi a crescere di più e fa capire che è in pericolo la sua rielezione, è privo di visione lunga. Il vissuto del dopoguerra, la leadership americana che incitò all’unificazione europea, è scordata. Solo ieri la Casa Bianca ha menzionato, auspicandola, l’unione del nostro continente. Gli uomini degli anni ’50 che Jean Monnet cita nelle Memorie, (John McCloy, consigliere di molti Presidenti; Dean Acheson, segretario di Stato; David Bruce, ambasciatore Usa in Francia) è come fossero ignoti. Nè sembra dir qualcosa, a Obama e agli europei, la storia stessa dell’America: il passaggio dalla Confederazione di Stati sovrani alla Federazione che Hamilton (allora segretario al Tesoro) accelerò nel 1790 cominciando col mettere in comune i debiti accumulati durante la guerra d’indipendenza.

Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l’economia, nel dicembre 2011, evoca quell’esperienza a uso europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l’idea di una Banca centrale.
Invece di preoccuparsi dei poteri forti, Monti ha una grande opportunità: preparare per il prossimo vertice Ue una controproposta europea, basata sul rilancio, la comunità delle banche, la parziale comunitarizzazione dei debiti, da presentare insieme ai governi che lo desiderano, Grecia in primis. I veri poteri forti non sono in Italia. Vale la pena prospettare – non in conferenze ma ai partner – un’unione politica vera.

Non un’unione di cartapesta, ma un piano che dia all’Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni (a cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie e le emissioni di biossido di carbonio), e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo, come suggerisce lo storico Maier. Oggi l’Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l’America prima di Hamilton. Se la Merkel non ci sta, gli Stati favorevoli si contino, nel Consiglio europeo. Non succede il finimondo se Berlino è messa in minoranza. Accadde ai tempi dell’euro con la Thatcher. Il primo che in Europa farà votare su proposte serie passerà alla storia.

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Il nichilismo tedesco. O la banalità del male (economico)

Lelio Demichelis

Chi salverà l’Europa dal suo nichilismo? Chi la riporterà sulla strada del bene sociale? Chi imporrà ad Angela Merkel di smetterla con le sue politiche insensate fatte di austerità e di ideologia neoliberista? Ci provano gli Stati Uniti, che pure non sono esenti da colpe e da responsabilità, questa crisi è nata in America e da lì si è propagata al resto del mondo e soprattutto all’Europa. Ma almeno ci provano. L’Europa, invece, segue la strada opposta, quella dell’insensatezza, dell’ostinazione, della coazione a ripetere ricette economiche palesemente contraddittorie (pensare di favorire la ripresa producendo e diffondendo recessione) e ancora una volta si è sottomessa all’ultima versione del nichilismo, ancora tedesco e associato alla nuova volontà di potenza, questa volta economica, di Berlino. Al vertice in tele-conferenza tra i ministri finanziari del G7 del 5 giugno pare che contro la Germania siano volate parole grosse dell’America contro la Germania, l’ideologa e insieme l’ideologia della politica (sic!) economica europea; e da allora è stato un crescendo di azioni per cercare di isolare politicamente la Germania e le sue paranoie (come definirle altrimenti?) da pareggio di bilancio; mentre da Stiglitz a Krugman e non solo, è ormai un coro di economisti che accusano l’Europa e Berlino di violare appunto le più elementari regole dell’economia.

Nichilismo, si è detto. Concetto difficile, molteplice, scivoloso. Nichilismo, quando il niente prende il posto di Dio (ma anche delle idee, dell’utopia). Nichilismo come volontà/voluttà di portare a niente ogni cosa. Di azzerarla. Nichilismo come volontà del neoliberismo di portare a niente lo stato sociale e la stessa società (‘la società non esiste’, diceva la madre di tutti i neoliberisti, Margaret Thatcher). Nichilismo, ancora, come tendenza carsica, ricorrente dell’Europa (o dell’intera storia dell’Occidente, secondo Emanuele Severino). Una volontà nichilista dell’Europa (oscura, antropologica, del proprio sé profondo) di dissolvere se stessa, di annichilirsi, di farsi del male e di fare del male; e questo non perché i grandi valori siano scomparsi, ma affermando viceversa un valore (oggi, il pareggio di bilancio) che è tanto assoluto da produrre la altrui (la Grecia, il Portogallo) ma anche la propria (l’Europa) dissoluzione, il proprio diventare niente.

E questo dopo avere cercato invece per decenni di costruirsi come unione politica ed economica, come vera e concreta costruzione appunto e non più come distruzione, dopo due guerre mondiali; come volontà positiva di mettere in comune realtà, identità, culture diverse sì ma anche e finalmente consapevole, l’Europa, che solo costruendo qualcosa in comune – fatto quindi di condivisione, aiuto e collaborazione – sarebbe uscita dal proprio nichilismo e dalla propria paranoia di auto-distruzione.

Nichilismo. E il male; oggi il male (sociale e politico) indotto dalla stessa Europa producendo, in nome di questa ideologia neoliberista una forma nuova di sofferenza inutile su bambini (mezzo milione di piccoli indigenti in Grecia), anziani, lavoratori, cioè sui soggetti più deboli (e già deboli) della società. Un male banale. E Hannah Arendt: il male prodotto non da demoni terribili, ma da uomini apparentemente normali che diventano i suoi servitori più o meno consapevoli ma anche zelanti; servitori oggi rappresentati da piccoli ma potentissimi burocrati/tecnocrati come i Commissari europei o la troika Bce/Fmi/Ue in missione in Grecia. Un nuovo male banale (questa volta economico) in un’Europa indifferente al male, alla sofferenza e al dolore sociale che essa stessa sta producendo in Grecia, in Spagna, in Italia. Una indifferenza per il male che si è prodotto e che ancora sta producendo, una indifferenza radicale per le sofferenze inferte all’essere individuale e sociale dei paesi in crisi, un male sociale dovuto appunto al prevalere dell’ideologia sulla realtà, un’ideologia che produce un male ritenuto necessario in nome del bene da raggiungere (ancora: il pareggio di bilancio: tanto è caduta in basso l’idea dell’Europa!), un male banale ma che sembra a volte sconfinare persino in una sorta di voluttà/piacere/godimento a fare il male.

Se ora qualcosa comincia a cambiare (Angela Merkel che parla finalmente di unione politica, sperando che non sia una boutade per depistare gli avversari), questo non avviene però certo nel nome di politiche finalmente e doverosamente keynesiane, o alla Beveridge. L’ideologia neoliberista continua infatti a dominare la scena europea e la sua forza e la sua pervasività (la sua egemonia culturale e politica) sono dimostrate dalla lentezza con cui Monti, Draghi e Obama e Hollande cercano (almeno) di allentare le rigidità e l’ostinazione tedesche. Tutto questo tenendo sempre conto del fatto che Monti e Draghi non stanno certo diventando keynesiani (mai!, dicono all’unisono), ma restano ben saldi a difesa della loro roccia ideologica (nel mare in tempesta della realtà sociale che la circonda, ma che l’ideologia non vede e non vuole vedere) del libero mercato e delle riforme strutturali da fare. Riforme che in realtà si focalizzano sempre e unicamente sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, sul taglio dei redditi, sull’aumento delle tasse (ma non per tutti).

Nichilismo e pulsione (o indifferenza) a compiere il male pur sapendo di produrlo: un male sociale, impoverendo deliberatamente la popolazione di Grecia, Italia, Spagna e Portogallo, tagliando i posti di lavoro, riducendo la spesa pubblica in istruzione, ricerca e sanità – e il Censis ha scoperto che 9 milioni di italiani non hanno più i soldi per curarsi. Un male ovviamente non necessario ma voluto per insipienza, per indifferenza, se non per voluttà di punizione (ipotesi da non escludere): se l’ideologia neoliberista non fosse egemone si sarebbero potute infatti praticare politiche neokeynesiane; creare, come suggeriva recentemente Nadia Urbinati, un new deal europeo; pensare un piano per il lavoro secondo i suggerimenti di Luciano Gallino: ovvero, il potere avrebbe potuto fare il vero bene sociale e politico, puntando su sostegno dei redditi, garanzie per i deboli, tutela delle pensioni, dando soprattutto fiducia e togliendo la paura dalla vita della gente (certo, rinviando a poi ogni ipotesi di pareggio di bilancio: ma scopo di una politica democratica dovrebbe essere quello di ridurre il male sociale, non di produrlo deliberatamente). Un male che è nato da un potere politico/economico che per salvare se stesso (le banche, la finanza, la speculazione) non ha esitato (in nome dello stato di emergenza e dello stato di eccezione che ha saputo generare) a produrre male, sofferenza, crisi e a scaricare tutto questo sui senza colpa.

Potere, male e nichilismo. Nella replica, questa volta in nome dell’economia di mercato e dell’ideologia neoliberista, di un rapporto antico e sempre ricorrente tra potere e sudditi (con i cittadini ridotti nuovamente a sudditi in nome dello stato d’eccezione economico). Un male che nasce da una rete di relazioni di potere, di saperi e di poteri orizzontali nella società e nell’economia (una nuova microfisica foucaultiana di saperi/poteri fatta da borse, agenzie di rating, Bce, università economiche, stili di vita, pratiche competitive, mode, eccetera) che regolano la vita intera di ciascun nodo di una rete che lentamente ma inesorabilmente si sta stringendo. Dentro ad un capitalismo e a una tecnica come apparato capaci di creare solo per distruggere, perché intrinsecamente nichiliste, perché questo è l’imperativo categorico di produzione, consumo e finanza. E tecnica. Appunto, produrre per far consumare, produrre per poi portare tutto a niente; e il consumo, di fatto, come forma edonistica del nichilismo.

E quindi, e ancora, oggi serve umiliare, sanzionare, disciplinare, mettere sotto, far fare penitenza ai popoli (non ai banchieri, non ai politici corrotti), far accettare il male che si deve ricevere avendo commesso una colpa intollerabile (il deficit e il debito pubblico) – e questo senza poter reagire (e attenzione a come si vota, altrimenti scatta il ricatto: basta aiuti), perché appunto la democrazia, in tempi di nichilismo, di male per indifferenza e per neoliberismo è diventata un optional se non un fastidio, da bypassare sempre e comunque. E tutto questo per piegare un paese e i suoi cittadini a una disciplina economica che diventa una disciplina morale, o meglio moraleggiante o meglio ancora: immorale.

Tutto nel nome di un’etica protestante declinata malamente e di un potere pastorale cattolico che rivendica al pastore (la Germania, Angela Merkel, la Bce) il potere/dovere di guidare il gregge e di prendersi cura di ogni singola anima/pecora/nazione, preoccupandosi di ritrovare e di riportare nel gregge ogni anima/pecora nera perdutasi commettendo peccato di deficit e di debito pubblico, pecora nera da riportare all’ordine nel gregge neoliberista dopo opportuna penitenza, punizione, ravvedimento imposto. Etica protestante (la predestinazione virtuosa della Germania, il dover fare da sé) e pastorato cattolico (il pastore come guida morale, la confessione dei peccati davanti al pastore/troika/Bce e poi il pentimento) mescolati insieme; e insieme, mescolati con l’ideologia neoliberista, il super-pastore. Neoliberismo da intendere davvero come biopolitica, come economia che governa appunto la vita intera delle persone, piegandola ai suoi interessi: biopolitica basata da un lato sul lasciar fare (impresa, consumo, edonismo, libertinismo economico, divertimento e spettacolo, rete, godimento, finanza facile per tutti) e dall’altro sul far fare solo ciò che è utile al mercato e alla finanza (indebitarsi, spendere, consumare, non pensare). Una biopolitica che ha in sé – come ogni bio-politica – il proprio opposto, la propria tanato-politica, quella politica che contro-agisce sulla vita delle persone e della popolazione producendo appunto morte (reale: i suicidi, la povertà, la disoccupazione; o metaforica/esistenziale: la paura, la sfiducia). Biopolitica e tanatopolitica a volte insieme e in parallelo (la ricchezza per pochi e le disuguaglianze per molti prodotte insieme dalla globalizzazione neoliberista); a volte ancora insieme ma anche in successione, la seconda conseguente e come effetto della prima (oggi l’austerità e la penitenza, la sofferenza e il dolore sociale, dopo il godimento, il divertimento, e il piacere indotti dalla biopolitica neoliberista negli ultimi 30 anni).

Austerità dunque. Austerità come penitenza, come disciplina; come espiazione di una colpa, come giudizio inappellabile, come sanzione. Come male necessario al capitalismo per salvare se stesso. Non l’austerità virtuosa del consumare meno e meglio, del rispettare l’ambiente e i diritti delle future generazioni. L’austerità come pura e dura tanatopolitica neoliberista.