Golpe bianco in Egitto, la democrazia può attendere

Marco Alloni
Corriere del Ticino, 21 giugno 2012

La giunta militare sta giocando tutte le sue carte per spodestare un Parlamento a maggioranza islamica e ridurre in partenza i poteri del prossimo Presidente eletto. Le ultime notizie sull’ex rais complicano ulteriormente lo stato di caos generale.

Il Cairo – Tra conferme e smentite sono ormai 24 ore che non sappiamo se Mubarak sia morto o vivo. È un classico egiziano, tanto che i giovani su internet hanno già pubblicato le prime barzellette: secondo le ultime agenzie di stampa Mubarak è morto, Mubarak è in coma, Mubarak sta bene, Mubarak sta facendo ginnastica.
Più seriamente esprimono il proprio scetticismo quanti, fin da martedì, hanno invaso piazza Tahrir per protestare contro le manovre della giunta militare e il suo proposito di sottrarre poteri alle altre istituzioni. A molti di costoro il decesso del “faraone” appare né più né meno che una farsa, l’ennesimo colpo di teatro per distrarre l’attenzione dei manifestanti dalle tresche militari e consentire all’ex raìs di uscire dalla prigione di Tura per guadagnare il più confortevole ospedale militare di Maadi.
Difficile stabilire la verità e quanto realmente stia accadendo. Certo la situazione è resa ancora più complessa dalla coincidenza degli scrutini presidenziali e dal caos che li sta accompagnando, con il rischio molto concreto che i risultati ufficiali vengano posticipati.

Una sola cosa appare per il momento evidente: alla fine hanno vinto di nuovo i militari. E c’è chi, fra gli analisti e i militanti, parla addirittura di “golpe bianco”.
Per quanto il risultato ufficiale della vittoria di Mohammad Morsi non sia ancora stato annunciato, il vero trionfatore di questa seconda tornata delle presidenziali egiziane è infatti il Consiglio Supremo delle Forze Armate del maresciallo Hussein Tantawi.
Certo, una visione parziale della situazione indurrebbe a pensare che l’Egitto abbia finalmente imboccato la strada della democrazia, secondo l’improprio riduzionismo secondo il quale una democrazia si esaurisce in libere elezioni. Ma appunto una democrazia non coincide con una semplice chiamata alle urne, e dimenticare il quadro generale è dimenticare le condizioni in cui gli scrutini hanno avuto luogo.

Innanzitutto bisogna fare un passo indietro e ricordare che il 30 marzo del 2011 la giunta militare emise una “dichiarazione costituzionale” in cui fissava in 62 articoli prerogative e limiti del futuro Presidente.
Ora, alle 22.00 di domenica scorsa – esattamente a ridosso della fine degli scutini – la giunta ha pubblicato un aggiornamento di tale dichiarazione in cui detti poteri e le sue relazioni con le altre istituzioni dello Stato sono ulteriormente circoscritti. All’articolo 56 si precisa che il Consiglio militare ha diritto di assumere tutti i poteri spettanti all’Assemblea del Popolo (la Camera bassa del Parlamento destituita dal decreto di incostituzionalità dell’Alta Corte Costituzionale) e pertanto di incorporare de facto il potere legislativo fino a che non verrà eletto un nuovo Parlamento.
Una dichiarazione che si colloca in un quadro giurisdizionale quanto meno ambiguo. La stessa Corte Costituzionale aveva infatti considerato incostituzionale la cosiddetta “legge di isolamento politico”, legittimando pertanto il rappresentante del passato regime Ahmed Chafiq a presentarsi al ballottaggio con Mohammad Morsi. Una mossa – se possiamo chiamarla così, ritenendo quanto meno dubbia la proclamata indipendenza della magistratura – che sostanzialmente riabilita l’accesso dei fulul (residuati del vecchio regime vicini all’esercito) alla politica nazionale e contemporaneamente estromette il Parlamento a maggioranza islamista dalla scena. Non a caso a riempire piazza Tahrir erano in maggioranza Fratelli musulmani e salafiti.

Ma la longa manus della giunta non finisce qui. C’è chi fra gli analisti parla addirittura di una strategia concordata tra Fratelli musulmani e Consiglio militare per spartirsi il controllo del paese nel caso il Presidente eletto non fosse l’ex delfino di Mubarak Ahmed Chafiq. Nella stessa “dichiarazione costituzionale completa” la giunta sembra infatti voler concedere alla fratellanza il seggio presidenziale a condizione di una radicale riduzione dei poteri del Presidente. Secondo tale dichiarazione, fintanto che non sarà varata una nuova Costituzione il Presidente non avrà diritto di intervenire né nel budget né negli affari generali dell’esercito, riconoscendosi di fatto subordinato ai militari e privo del titolo di loro “comandante in capo” come è sempre stato nella storia della Repubblica.

Di più, il Presidente potrà decidere di dichiarare guerra solo di concerto con il Consiglio militare. E in caso di manifestazioni o disordini nel paese sarà tenuto a chiedere l’intervento dell’esercito per sedare i rivoltosi e proteggere gli edifici di Stato. E ancora, la cosiddetta “assemblea costituente” responsabile di redigere la prossima Costituzione sarà anch’essa subordinata – qualora non trovasse al suo interno un accordo per decidere la propria configurazione e le sue modalità di azione – all’intervento dell’esercito. Quest’ultimo potrà dunque stabilire la sua conformazione e imporre un limite massimo di 3 mesi per la redazione della Costituzione, da sottoporre a referendum popolare entro 15 giorni dalla sua stesura. Ricordiamo che Mohammad El-Baradei, a questo proposito, stigmatizzava come una “seria Costituzione” richieda un’elaborazione di almeno un anno e non possa ricadere nel segno dell’improvvisazione.
Il quadro generale è dunque eloquente: politicamente, strategicamente, propagandisticamente e giuridicamente la giunta militare ha giocato e sta giocando le sue carte per spodestare un Parlamento a maggioranza islamica e ridurre in partenza – a priori – i poteri del prossimo Presidente eletto. Dunque, in buona sostanza, ha compiuto e sta compiendo quello che in gergo si chiama un colpo di Stato di basso profilo, un golpe bianco.

In questo contesto i festeggiamenti che i sostenitori di Mohammad Morsi hanno cominciato a tenere a ogni angolo del paese – soprattutto a piazza Tahrir e nei governatorati in cui sono maggioritari – hanno qualcosa di grottesco e preoccupante. C’è da chiedersi: esisteva dunque in partenza una combine fra loro e la giunta militare per determinare uno stato di cose eminentemente reazionario, che nel sottrarre al popolo le rivendicazioni della Rivoluzione tornasse a consegnare alla lobby militare tutte (o quasi) le prerogative del potere politico effettivo? Sono in molti a sostenerlo. Lo stesso corrispondente del “Guardian” al Cairo, Jack Shenker, scrive che la “dichiarazione costituzionale completa” rappresenta “un regalo che la giunta militare fa a se stessa” per poter procrasticare il proprio potere su tutto il paese. E il “Washington Post” rincara: “Il Consiglio Supremo delle Forze Armate vuole ricostituire la dittatura militare contro tutte le rivendicazioni portate dalla Rivoluzione”.

Quanto al voto, le sue dinamiche sono abbastanza elementari. Tanto per cominciare l’affluenza alle urne – nell’ordine del 50% circa degli aventi diritto al voto – è un’ulteriore conferma che la popolazione non ha colto in questo ballottaggio se non una scelta obbligata “tra i peggiori”, votando in gran parte scheda bianca in segno di protesta o astenendosi dal farlo. D’altronde è come se si fosse riproposta una vecchia dinamica antinomica che ricorda l’appello di G.W. Bush: “Chi non è con noi è contro di noi”. Molti egiziani hanno votato Morsi per paura dei generali incarnati dalla figura di Chafiq, molti altri hanno votato Chafiq per paura di una Repubblica religiosa o teocratica: si è dunque sostanzialmente votato più contro che per, più per paura che per convinzione. Un atteggiamento che invalida – se fosse ancora necessario sottolinearlo – il carattere democratico di questa prima elezione “democratica” dai tempi di Gamal Abdel Nasser.

Giovedì il risultato ufficiale. Almeno secondo previsioni che potrebbero – con lo sconvolgimento portato in Egitto dall’agonia di Mubarak – slittare a data da definire. Ma qualunque sia l’esito, le dinamiche generali restano allarmanti. Difficile prevedere che il popolo si unirà alla festa che il generale Mohammad Al-Assar ha indetto per la fine del mese quando – più formalmente che sostanzialmente – la giunta militare cederà i poteri al nuovo Presidente. È viceversa più probabile che – come già sta avvenendo ed è avvenuto a piazza Tahrir la notte scorsa, alla presenza di islamisti, liberali e movimenti rivoluzionari del gruppo 6 Aprile – gli egiziani torneranno a sollevarsi con esiti del tutto incerti e con il rischio molto concreto di una seconda Rivoluzione di piazza.

Mohammad Morsi si presenta nelle sue prime dichiarazioni come “Presidente di tutti gli egiziani, senza cercare rivalse di fazione né mirare a discriminazioni di sorta”. A parte l’avventatezza di proclamarsi tale per un provvisorio vantaggio di circa 500.000 voti sull’avversario – il Movimento dei Giudici Indipendenti parla di 900.000 voti in più – è chiaro che non ha debitamente tenuto conto delle reazioni della strada, che questa volta – se colpiranno non solo i delusi ma anche gli affamati – rischiano di diventare una vera e propria polveriera. Mubarak ha forse scelto di andarsene al momento giusto.