Il lavoro delle donne fra produzione e riproduzione biologica, domestica e sociali dentro l’attuale crisi economica

IFE Italia
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Le interpretazioni sul modello neoliberista ed il dibattito sulla crisi attuale e sui suoi possibili esiti agiscono però una rimozione perché trascurano di considerare la struttura sociale di genere e quindi le persistenti diseguaglianze tra donne e uomini.

Il processo di globalizzazione neoliberista che ha fornito i necessari fondamenti teorici alle scelte economiche e politiche degli ultimi trent’anni si è fondato sulla costruzione del “mercato globale” caratterizzato dalla frammentazione dei luoghi di lavoro e delle filiere produttive, dal formidabile aumento della forza lavoro (in particolare femminile), dalla precarizzazione generalizzata del lavoro, dalla forte competizione intercapitalista con il conseguente dumping sociale, dalla finanziarizzazione dell’economia, dallo svuotamento dei diritti al e del lavoro e dalla decostruzione dei sistemi pubblici di protezione sociale.

Le interpretazioni sul modello neoliberista ed il dibattito sulla crisi attuale e sui suoi possibili esiti agiscono però una rimozione perché trascurano di considerare la struttura sociale di genere (inteso sia come “ elemento costitutivo dei rapporti sociali fondato sulle differenze percepibili fra donne e uomini sia come primordiale modalità di significare i rapporti di potere” secondo la definizione che ne diede, nel 1980, la torica americana Joan Wallach Scott) e quindi le persistenti diseguaglianze tra donne e uomini generate dall’intreccio dei due sistemi di potere dominanti: il patriarcato e il capitalismo.

Al contrario se i processi in atto venissero analizzati anche con un’ottica di genere si coglierebbero i tanti aspetti che spiegano i processi avvenuti nella fase neoliberista e quelli che agiscono nella crisi attuali.

Ne proponiamo alcuni:

1. l’occupazione in italia fra il 1970 e il 2009 aumenta di quasi 5 milioni (da 19 milioni a 24 milioni circa) (vedi “Aspetti delle trasformazioni del lavoro nel caso italiano” di Elio Montanari e Osvaldo Squassina,)
Il settore dove l’aumento è esponenziale è quello dei servizi (+152,2%). La connotazione dell’aumento non è solo settoriale ma riguarda anche le posizioni professionali sia dipendenti che indipendenti.
Quelle dipendenti sono aumentate/i significativamente (nel 1970 erano circa 14 milioni , il 71% del totale, nel 2009 diventano 19 milioni circa, cioè il 76,6% del totale).

Quindi secondo i dati di Montanari/Squassina l’occupazione negli ultimi 40 anni è aumentata in modo molto significativo e questo aumento ha riguardato soprattutto le lavoratrici e i lavoratori dipendenti in particolare nel settore dei servizi. Se si desse un corpo all’astrattezza delle cifre si scoprirebbe che l’aumento occupazione ha riguardato soprattutto le donne. _ Questo fenomeno ha riguardato ogni parte del mondo. L’ occupazione femminile è aumentata progressivamente e in modo consistente, (pur se in modo non sufficiente a colmare il gap preesistente. così come dimostra il rapporto della “Commissione Europea sulla parità” secondo il quale l’occupazione femminile in Europa sta ancora, al di sotto del 15% rispetto a quella maschile ).

Il Rapporto dell’Osservatorio internazionale sul lavoro (Ilo) (sintesi in italiano) indica che il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro fra il 1980 e il 2008 è aumentato dal 50,2 al 51,7% (+1,5%), mentre il tasso maschile è diminuito passando dall’82 al 77,7%. Di conseguenza, il divario di genere nei tassi di partecipazione alla forza lavoro è sceso da 32 a 26 punti percentuali. Gli incrementi nella partecipazione femminile pur se registrati pressoché in tutte le regioni del mondo sono stati significativi soprattutto in America Latina. Anche in Italia l’occupazione femminile è aumentata benché recenti dati ISTAT confermino che solo il 46,3% delle donne lavora (a fronte del 66% della Germania, del 60% della Francia o del 71,5% dei Paesi Bassi) tanto che nell’arco di un decennio l’incremento della partecipazione delle donne alla forza lavoro è di 2,4 milioni di unità pari all’11,8%, doppio in valore assoluto rispetto a quello maschile e triplo in percentuale.

Questo processo di “femminilizzazione del lavoro”, inteso sia come aumento quantitativo di manodopera femminile sia come generalizzazione delle condizioni di lavoro storicamente “assegnate” delle donne (part-time, flessibilità, precarietà, bassi salari) è stato una delle caratteristiche strutturali del modello neo-liberista.
Da questo punto di vista possiamo dire che l’aumento di manodopera femminile è stato utilizzato come strumento di precarizzazione complessiva dei rapporti di lavoro (non a caso è stata prima di tutto la forza di lavoro femminile ad essere investita dalle molteplici “moderne” forme di precarietà occupazionale: dall’assunzione a tempo determinato, al lavoro a domicilio e in affitto, al telelavoro…).

Inoltre l’aumento di manodopera femminile non ha per nulla scalfito antiche disuguaglianze. Le donne continuano ad essere meno pagate degli uomini, svolgono mansioni perlopiù esecutive, difficilmente sono inserite nelle èquipe dirigenziali (in Europa, a parità di prestazione lavorativa i salari delle donne sono inferiori di oltre il 15% rispetto a quelli maschili e solo il 32% delle donne sono manager nonostante abbiano occupato il 75% dei nuovi impieghi creati negli ultimi 5 anni). In larga misura ciò è dovuto al fatto che l’intensità della competizione globalizzata ha privilegiato soggetti privi di altre preoccupazioni che non fossero quelle legate alla carriera, che non partoriscono e che possono permettersi il lusso di non prendersi cura nemmeno di loro stessi perché qualcun’altra lo fa per loro.

Come tutti i fenomeni complessi la femminilizzazione del lavoro è stata ed è un fenomeno contraddittorio perché insieme agli elementi negativi sopradescritti, produce e diffonde una migliore “coscienza di genere” e quindi una positiva ricaduta sull’auto-percezione delle donne. La femminilizzazione cioè ha consentito e consente di rompere, in particolare al sud del mondo, antiche segregazioni, scardinare dipendenze totali, attivizzare sul piano sindacale, sociale e politico moltissime donne e mettere in crisi le strutture più soffocanti del patriarcato. E’ stato così anche agli albori dell’industrializzazione in Occidente quando il considerevole ingresso delle donne nel mondo del lavoro consentì la messa in discussione dei rapporti tradizionali fra i sessi, svelò la natura sessista della nostra società e identificò la struttura di potere del sistema patriarcale. Una struttura che si fonda su uno schema che agisce sia nella vita sociale che in quella privata: le donne hanno meno diritti e meno opportunità degli uomini perché considerate secondo sesso (secondo la brillante definizione di Simone de Beauvoir).

L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro incrina, dunque, la divisione sessuata del lavoro: il privato alle donne ed il pubblico all’uomo, la produzione all’uomo e la riproduzione biologica e domestica alle donne e quindi pur se in modo contraddittorio, il lavoro salariato ed esterno alla famiglia determina un processo d’emancipazione femminile che favorisce l’ autonomia personale ed economica delle donne consentendo lo svelamento delle gerarchie di potere che agiscono nella relazione uomo-donna, nel corpo sociale e nei rapporti di produzione.

2. Se si analizzano i dati utilizzando lo sguardo di genere e di classe si colgono altre e sostanziosi intrecci.
In Europa, secondo i dati ILO (cit.) nella fascia 20/49 anni la percentuale delle donne che lavorano scende dal 75,4% al 61,1% nel caso di donne con figli. Le donne con bambini quindi lavorano meno (-11,5 punti percentuali) di quelle che non ne hanno, mentre gli uomini che sono padri lavorano più di quelli che non lo sono (+6,8 punti). Le donne che svolgono un lavoro part – time hanno figli nel 23% dei casi contro il 15,9% di quelle che non ne hanno. Secondo un’indagine di Isfol curata da Marco Centra e pubblicata nel 2010, il 40,8% delle donne che hanno lasciato l’attività lavorativa dichiara di averlo fatto per prendersi cura dei figli, dedicarsi esclusivamente alla famiglia, accudire persone non autosufficienti.

Nella relazione agli “Stati Generali sul lavoro delle donne in Italia”, organizzata dal CNEL nel febbraio 2012, Linda Laura Sabbadini rivela che nelle coppie di occupati le donne tra i 25 e i 44 anni lavorano in totale 53 minuti in più al giorno dei loro partner , che il divario cresce in presenza di figlie/i e che in ogni caso il 71,9% delle ore dedicate al lavoro famigliare (lavoro domestico,di acquisti di beni e servizi) è a carico delle donne. Sabbadini rivela altresì che l’asimmetria di carichi di lavoro familiare è diminuita negli ultimi 20 anni di 12 punti in percentuale. Però poiché sono più i tagli operati dalle donne che dagli uomini (1 minuto all’anno!) è probabile che questo abbassamento dell’asimmetria non si è determinato per un aumento dei carichi di lavoro maschile ma per l’utilizzo di figure quali le colf e le badanti. Cioè di altre donne.

3. La crisi del sistema neoliberista sta producendo una drastica riduzione dei posti di lavoro salariato (licenziamenti, ristrutturazioni, delocalizzazioni, chiusure di aziende) ed un aumento esponenziale del lavoro gratuito di riproduzione sociale determinato dal fatto che , dentro la crisi, i vincoli di Maastricht e la follia del pareggio di bilancio (che l’Europa chiede di mettere in Costituzione) hanno consentito gli Stati un ulteriore draconiano taglio dei sistemi pubblici dei servizi alla persona.

Se proviamo a dare una prima, parzialissima forse addirittura azzardata, lettura della crisi utilizzando la categoria di “genere” possiamo intravedere alcune possibili tendenze:
– i licenziamenti femminili ( a volta “di massa” come nel caso delle lavoratrici dell’OMSA o potenzialmente di “massa” come per le fabbriche dell’indotto FIAT che producono tappezzeria per autoveicoli) tornano ad essere giustificati dal fatto che una donna può comunque tenersi occupata grazie al lavoro domestico (sic!); . con le due manovre finanziare del 2011 le risorse a disposizione del sistema delle autonomie locali, (comuni, province, regioni) tra il 2011 e il 2014 verranno tagliate per più di 40 miliardi di euro : 12 miliardi in meno ai comuni, 2,8 alle province, 27 alle regioni (sanità).

Se ai tagli si aggiungono il rispetto del trattato di Maastrick, la follia del pareggio di bilancio (messo addirittura in Costituzione) ed i tagli prodotti dalle nuove manovre del governo Monti oltre la mannaia del patto di stabilità che mette in ginocchio tutti i Comuni”, non serve essere aquile per capire che assisteremo all’agonia di ciò che rimane del sistema pubblico di welfare e ad un aumento esponenziale dei lavori di riproduzione sociale (e domestica) che finiranno per essere garantiti solo grazie al lavoro gratuito delle donne.
Se la si osserva da questa visuale la proposta (condivisibile) della ministra Fornero di rendere obbligatorio anche per i padri un periodo di congedo parentale rischia di essere uno dei soliti specchietti per le allodole.
Così come lo è stata la proposta di potenziare la rete dei servizi pubblici con l’aumento di contribuzione femminile, nel settore pubblico, dovuto all’innalzamento dell’età pensionabile; la crisi potrebbe produrre scenari ancora più destrutturanti rispetto al modello del sistema pubblico dei servizi che avevamo conosciuto. Il taglio netto alle risorse destinate al sistema pubblico (nella misura prima descritta); i pesanti licenziamenti dovuti alla crisi che riducono ulteriormente la base materiale ( cioè il lavoro garantito) su cui si è poggiato il sistema pubblico dei servizi; il superamento del modello di salario complessivo per cui pagare le tasse non serve più ad ottenere dei servizi pubblici (sanità, scuola, assistenza sociale, …) ma quasi esclusivamente a contenere/sanare il debito pubblico; la difficoltà di tenuta della stessa logica sussidiaria fra settore pubblico e privato a causa del costante affievolirsi del finanziamento pubblico, costringono a mettere in discussione categorie di pensiero fondate su un modello economico, produttivo e sociale che non esiste più per ripensare dalle fondamenta uno Stato Sociale che sappia continuare a riconoscere bisogni, attivare risorse, garantire diritti.

4. A nostro avviso e se il quadro è quello descritto c’è bisogno di ridare corpo ad un femminismo che non accompagni i processi in atto ma li sovverta per agire le rotture necessarie con le compatibilità date. Se il femminismo si “accoda” acriticamente alla ripetizione di ritornelli o di slogans (per quanto tempo ancora dovremo sentir parlare di “soffitto di cristallo”, di chiedere “parità di mansione a parità di salario, di denunciare l’“ineguale distribuzione fra generi del lavoro di cura” senza che nulla cambi?) ormai svuotati del loro carattere conflittuale rischia di non essere più capace di leggere e comprendere la realtà e quindi di non essere più in grado di promuovere un coscienza critica , proposte coerenti e pratiche conflittuali;

Ci servono categorie , paradigmi, pratiche rinnovate. E serve un approccio politico nuovo. A proposito di una rinnovata “politica femminista” alcune filosofe francesi (Genevieve Fraisse e Nicole Edith Thevenin per citarne alcune) propongono interessanti riflessioni che proviamo a illustrare, sinteticamente, per punti:

– saper tenere insieme il soggetto e l’oggetto e quindi smettere di parlare di “lavoro” in astratto per considerare l”e donne e gli uomini che lavorano”, i loro diritti, le loro aspirazioni, le loro paure, i loro sentimenti, dunque le loro vite.
Nel nostro seminario ci siamo chieste : cosa intendiamo per lavoro oggi? Che senso ha il lavoro nella crisi globale? Com’è cambiato il senso del lavoro? Desideriamo liberare il lavoro o liberarci dal lavoro? Come possiamo pensare il lavoro salariato in una prospettiva ecologica e di cura che si ponga l’obiettivo della trasformazione della società? In che modo il femminismo può scardinare la separazione tra il lavoro produttivo e il lavoro come autoaffermazione politica, cioè coscienza di sé stesse in una dimensione collettiva? Il lavoro può diventare “bene comune” cioè attività non alienata in grado di produrre benessere collettivo o non può che restare confinato alle dinamiche del profitto e della produzione di merci di consumo? ;
– risignificare il principio di “eguaglianza” partendo dall’idea che essa non è una norma ( le “pari opportunità” per intenderci) ma un vero e proprio processo (che “promuove pensiero” , “costruisce soggettività collettive” e “pratica politica”) da riempire di quel carattere conflittuale che gli ha consentito di animare le lotte delle donne ed anche degli uomini in ogni parte del mondo;
– riaffermare un ”universalismo” dei diritti non falsamente neutro cioè in grado di non dimenticare o rimuovere le differenze di genere , provenienza, orientamento sessuale che sappia contenere le contraddizioni, materiali e simboliche, fra l’eguale ed il diverso, fra l’uno ed il multiplo.

Come IFE Italia , cioè come un’ associazione femminista ad orientamento politico, crediamo che solo affrontando questi nodi di fondo potremmo definire una scala di priorità concrete su cui impegnarci collettivamente.