La comprensione fra le culture e la rinuncia all’universalità

Paolo Bonetti
www.italialaica.it| 22.06.2012

Qualche giorno fa “Repubblica” ha pubblicato un ampio stralcio dell’intervento del cardinale Angelo Scola al comitato internazionale della Fondazione Oasis, che si è riunito a Tunisi per discutere sul tema “La religione in una società in transizione. Come la Tunisia interpella l’Occidente”. Scola, fra gli attuali gerarchi della Chiesa cattolica, è forse quello che ha il maggiore spessore culturale e che si pone, con più realismo e minore esibizionismo intellettuale, il problema dei rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo e le sue irreversibili trasformazioni antropologiche e morali. Naturalmente il primo problema di fronte al quale la riflessione di Scola è costretta a prendere posizione, è quello della pluralità e del confronto fra le diverse tradizioni religiose e culturali, nel momento in cui appare sempre più insostenibile la pretesa del cristianesimo, di quello occidentale in particolare, di coincidere con l’universalità della natura umana e di potersi proporre come il modello religioso e morale al quale le altre religioni e culture dovrebbero tendere. L’arcivescovo di Milano è consapevole che “una delle componenti della crisi in Occidente è infatti la crisi dell’universale della religione, anzi più precisamente di una religione ben precisa, o meglio dell’interpretazione culturale predominante che essa aveva assunto nel corso del Medioevo”. Con l’avvento della modernità, si è avuto un “attacco frontale al valore universale della singolarità cristiana”. La secolarizzazione che ne è seguita ha prodotto nuovi universali ( “la Scienza, la Ragione, il Diritto, poi più rozzamente la Razza, la Classe o il Mercato”), ma tutti, a detta del cardinale, si sono mostrati incapaci di mantenere le loro promesse, sicché oggi siamo approdati a “una rinuncia compiaciuta all’universale, e dunque alla ricerca di un senso umano della propria esperienza. Fino a quando è scoppiata la bolla economico-finanziaria, che ci ha tolto la gaiezza per lasciarci soltanto la rassegnazione”.

E’ certamente vero che il tempo che viviamo non è particolarmente adatto alla coltivazione del mito ottocentesco delle “magnifiche sorti e progressive” satireggiato da Leopardi, ma direi che non è il caso di deprimersi troppo. Quegli “universali” che Scola sembra rimpiangere, perfino nelle loro forme secolarizzate e degradate, hanno prodotto, nel corso di alcuni millenni di storia, conflitti radicali e incomponibili fra le diverse tradizioni religiose e culturali, proprio perché ciascuno di essi pretendeva di cogliere la vera essenza dell’umanità, di indicare la direzione del suo sviluppo e il fine a cui avrebbe dovuto tendere. Ma bisogna anche dire che il cardinale (e gli va dato atto con piacere di questa affermazione) coglie, nel sommovimento prodotto dalle recenti rivoluzioni arabe, il presentarsi, anche in quel mondo, della fondamentale questione della libertà. Arriva addirittura a dire che in quelle rivoluzioni, peraltro così diverse l’una dall’altra e il cui esito è tutt’altro che scontato, c’è un insegnamento prezioso, quello che “all’universale si arriva prendendo sul serio la singolarità irriducibile di persone, giacché l’universale è concreto oppure non è”. E aggiunge che, nella complessa storia del difficile rapporto che “il Cristianesimo ha instaurato con la modernità politica, tra rifiuto, illusione passatista e assunzione critica delle istanze positive, si possono rinvenire elementi utili anche per i popoli musulmani e per la domanda di libertà che le loro rivoluzioni hanno così potentemente messo in campo”. Dunque, la secolarizzazione non è stata poi quell’evento negativo che sembra trapelare da altre affermazioni di Scola, se ha consentito alla religione cristiana (ma sarebbe meglio dire alla Chiesa cattolica, dal momento che nel cristianesimo in quanto tale una tensione alla libertà c’è fin dalle origini) di aprirsi alla pluralità e alla convivenza delle culture.

Resta però una contraddizione di fondo fra l’accettazione di quella che laicamente potremmo chiamare religione della libertà, che postula necessariamente la coesistenza e il dialogo, e la pretesa delle religioni istituzionalizzate di essere ciascuna, ancora oggi e nonostante certe affermazioni ecumeniche, detentrice di una verità salvifica da far conoscere e magari da imporre agli altri con mezzi più o meno pacifici. I cristiani sono oggi sottoposti, in varie parti del mondo, a persecuzioni tragiche, vittime di un’intolleranza che bisogna condannare senza alcuna ambiguità. Ma non possiamo dimenticare (senza che questo giustifichi in alcun modo i loro persecutori) che essi hanno per secoli tentato di imporre e spesso ci sono riusciti, con la forza delle armi, del denaro e del potere politico, la loro pretesa universalità alle altre religioni e culture. E tuttora, anche nelle società democratiche, cercano di piegare il potere civile ai loro scopi. Hanno troppe volte dimenticato, come giustamente sostiene il filosofo Gianni Vattimo che pure si dichiara cattolico, che la carità è più importante della verità o di quella che pretende di essere tale. Benedetto XVI ha pubblicato, qualche anno fa, l’enciclica “Caritas in Veritate”, ancorando l’insegnamento di Gesù ai dogmi della teologia; ma se si vuole davvero aprire un dialogo con le altre religioni e anche con i non credenti, bisogna rovesciare radicalmente questa impostazione del problema della libertà. Come diceva un maestro di laicità da me ricordato in un precedente editoriale, Guido Calogero (e lo diceva in opposizione ad una nota affermazione di san Paolo), non la pretesa di conoscere la verità ci dà la libertà, ma la libertà ci permette di aprirci alle molteplici verità delle differenti culture con cui veniamo a contatto. E in questa apertura sta il significato profondo della carità.