Se il lavoro non è un diritto, la democrazia è un fast food

Maria Mantello
www.micromega.net

«Il lavoro non è un diritto, va guadagnato, anche con il sacrificio!». È quanto Elsa Fornero ha dichiarato al Wall Street Journal, proprio a ridosso dell’approvazione della sua contestatissima riforma sul lavoro. Una staffilata sulla carne viva degli italiani che sempre più stanno perdendo dignità e diritti che solo il lavoro garantisce nel duplice valore di emancipazione dal bisogno e di realizzazione umana. Quel lavoro che come la Costituzione esige è un diritto fondamentale proprio per uscire dalla dimensione di sudditanza e servaggio. Perché non ci siano servi e padroni, sfruttati e sfruttatori.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, è l’incipit della nostra Costituzione ed è la straordinaria proclamazione di democrazia, dove il lavoro “per diritto e non per piacere” spezza clan familisti e cricche di potere, proprio nella misura in cui garantisce ad ognuno promozione individuale e sociale: indipendente economicamente e libero di estrinsecarsi e svilupparsi nella creatività del suo lavoro.

Ecco perché il lavoro è un diritto fondativo del nostro patto costituzionale, e impegna lo Stato democratico a creare le condizioni che lo rendano effettivo nell’attenzione alle possibilità e scelte individuali. Sembra strano, ma di questa considerazione per la scelta del tipo di lavoro più congeniale a ciascuno parla l’art. 4 della nostra Costituzione, sottolineando così come il lavoro rappresenti un investimento innanzitutto umano.

Varrebbe la pena rileggersi il saggio di Engels sull’evoluzionismo, “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione delle scimmie”, dove il filosofo scriveva: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, dicono gli studiosi di economia politica. Lo è, accanto alla natura, che offre al lavoro la materia greggia che esso trasforma in ricchezza. Ma il lavoro è ancora infinitamente più di ciò. È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo».

Ma il lavoro non è solo umanizzante, è produttore di democrazia, come affermava ad esempio in “Democrazia ed educazione” il grande filosofo e pedagogista statunitense del Novecento, John Dewey.

Se è nel lavoro che l’individuo riconosce, accresce e sollecita la sua prerogativa tutta umana di “ingegnosità” e “progettualità” nella commisurazione tra idee e risultati raggiunti, tuttavia, questo suo “saper fare” resterebbe privo di senso al di fuori dell’intersoggettività che la condizione di lavoro stabilisce e avvalora proprio in quel riconoscimento sociale dei risultati che gratifica e migliora persone e società.

Così, è nella socialità del lavoro che trova forza propulsiva la stessa appartenenza democratica, dove il lavoro non è un sacrificio, ma il diritto che dà “senso” alla estrinsecazione della propria “azione intelligente” che nell’attività finalizzata del lavoro è “costruzione di significati” socialmente riconosciuti.

Il diritto al lavoro si struttura e costruisce necessariamente sul posto di lavoro. È qui che trova il primo riconoscimento sociale. E stupisce che un ministro del lavoro, di fronte alle accuse legittime alla sua riforma, risponda che questa ha l’obiettivo della «tutela del lavoratore nel mercato e non quella del singolo posto di lavoro».

Ma così l’individuo è solo merce nel mercato del lavoro. La merce che produce guadagno, ovvero accumulo di capitale per la casta di privilegiati. È la nota ineccepibile teoria del plus-valore di Karl Marx.

Ma anche il liberal-democratico John Dewey in un suo saggio, “Individualismo vecchio e nuovo”, scriveva: «Il culto e i riti del denaro sono dominanti. Le altre attività umane sono imperiosamente condizionate dal denaro come mezzo di scambio e da quell’insieme di opere che si associano con l’acquisto del denaro. […] La libertà diventa un termine presso a poco fuori dell’uso; noi ci muoviamo, camminiamo e ci fermiamo al cenno di una immensa macchina industriale».

Già, una macchina industriale mercificante che porta nella versione contemporanea a quel turbo capitalismo ben analizzata dal liberale Edward Luttwak nel suo libro La dittatura del capitalismo, dove nell’era “dei presidenti delle banche” tutto diviene un allucinogeno fast food e il lavoratore, nel delirio globale della “crescita senza lavoratori”, sempre più precarizzato e depauperato è l’eccellente cadavere-merce: sacrificale e obbediente. Dirigenti compresi.

Ricordate quando due anni fa, in un corso di formazione (Motivation Day) per agenti immobiliari che si svolgeva in un albergo di Frascati, venne richiesta agli aspiranti manager la passeggiata su carboni ardenti – conclusasi con bruciature e ricovero ospedaliero – onde verificare la loro “forza interiore”?

Se il mercato produce questa mancanza di dignità, c’è allora da chiedersi se, col diritto al lavoro, ad essere sacrificata non sia la democrazia stessa.

———————————————————-

IL DIRITTO AL LAVORO NON ESISTE

Massimo Fini
www.ilfattoquotidiano.it

Elsa Fornero ha perfettamente ragione: non esiste alcun diritto al lavoro. Questo tipo di diritti, come quello alla salute o alla felicità, appartengono alle astrazioni della Modernità che nulla hanno a che fare con la vita reale. Sono diritti impossibili perché nessuno, foss’anche Domineddio, può garantirli. Esiste, quando c’è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Così è inutile sancire il diritto al lavoro se in una società il lavoro non c’è.

Ciò che in una società moderna possiamo pretendere è un’altra cosa: l’assicurazione, da parte della collettività, di una vita dignitosa anche per chi il lavoro non ce l’ha e non lo può trovare.

L’articolo I della Costituzione afferma solennemente: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Questo articolo è espressione delle culture liberiste e marxiste che, assieme a quella cattolica (che peraltro del lavoro ha una concezione molto diversa) hanno contribuito a redigere la nostra Costituzione. Il lavoro diventa infatti un valore solo con la Rivoluzione industriale di cui queste culture, prettamente economiciste, sono figlie. Per Marx il lavoro è “l’essenza del valore”, per i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore ”. In epoca preindustriale il lavoro non è un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta. Il resto è vita.

Non che artigiani e contadini non amassero il proprio mestiere (che è qualcosa di diverso dal “lavoro ”tanto che c’è chi dubita che in epoca preindustriale esistesse il concetto stesso di lavoro come noi modernamente lo intendiamo –R. Kurz, “La fine della politica e l’apoteosi del denaro”), certamente lo amavano di più di un ragazzo dei call-center, di un impiegato, di un operaio che, a differenza del contadino e dell’artigiano, fanno un lavoro spersonalizzato e parcellizzato, ma non erano disposti a sacrificargli più di quanto è necessario al fabbisogno essenziale.

Perché il vero valore, per quel mondo, era il Tempo. Il Tempo presente, da vivere “qui e ora”e non con l’ansia della “partita doppia” del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro. Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto che in epoca preindustriale, come ho già avuto modo di scrivere, non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire un’occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

In realtà, come ogni Paese industrializzato, è fondata sulla schiavitù. Perché siamo tutti, o quasi, come scriveva Nietzsche, degli “schiavi salariati”. A differenza dell’artigiano e del contadino la nostra vita, la nostra stessa sopravvivenza, non dipende più da noi, ma dalla volontà e dagli interessi altrui. Il Primo Maggio noi celebriamo, senza rendercene nemmeno più conto, la Festa della nostra schiavitù. C’è da aggiungere che noi moderni abbiamo utilizzato nel peggiore dei modi le straordinarie tecnologie che pur proprio noi abbiamo creato.

Oggi le macchine potrebbero lavorare per noi. Ma invece di utilizzarle per liberarci da questa schiavitù, costringiamo gli uomini, sostituiti dalle macchine, a cercare altri lavori, più infimi e disumani e sempre che li trovino. Ecco perché nasce il “diritto al lavoro”. Paradossale perché in realtà è un ‘diritto alla schiavitù’.