DOSSIER RIO+20: la natura può attendere, il mercato no. Il fallimento annunciato della Conferenza Onu

Adista Documenti n. 26 del 07/07/2012

DOC-2453. RIO DE JANEIRO-ADISTA. Aveva ragione l’urbanista, storico e attivista politico Mike Davis ad affermare che la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20, avrebbe avuto le stesse possibilità di salvare il mondo di «una convenzione di entusiasti dell’esperanto» (Estado de S. Paulo, 17/6). Stando al documento finale della Conferenza, intitolato paradossalmente «Il futuro che vogliamo», l’umanità sembra nutrire davvero poche aspirazioni riguardo al suo avvenire.

Il momento, del resto, non poteva essere più sfavorevole, non essendo i Paesi ricchi disposti a fare alcun sacrificio, meno che mai in piena crisi economica, e non accettando le potenze emergenti alcun intralcio alla loro crescita. E questo malgrado il fatto che, secondo uno studio divulgato dalle Nazioni Unite, l’inerzia riguardo alla crisi ambientale e climatica sia costata, nei 20 anni intercorsi tra Rio ’92 e Rio+20, una cifra pari a circa l’intero Pil di una potenza come il Brasile. Come ha commentato il teologo Leonardo Boff, «Rio+20 ha dimostrato che i Paesi industrializzati non vogliono rinunciare alla loro posizione; i Paesi emergenti vogliono raggiungere quelli industrializzati e i Paesi poveri vogliono diventare emergenti».

Un diluvio di critiche si è abbattuto sul Brasile, accusato di aver condotto negoziati al ribasso, sopprimendo punti controversi ma vitali, pur di ottenere che il documento, frutto di un negoziato durato mesi, venisse approvato. Ne è derivato, così, un testo scandalosamente generico, senza impegni e senza ambizioni, che continua ostinatamente a insistere sui tre pilastri dello sviluppo sostenibile – economico, ambientale e sociale – pur di fronte all’evidente strapotere del primo, e distante anni luce da quel riconoscimento della Madre Terra come soggetto di diritto su cui pongono invece l’accento i popoli indigeni e i movimenti popolari di tutto il mondo. Come afferma ancora Boff, «finché non si raggiungerà una comprensione riguardo ai limiti del pianeta, è inutile pensare alla giustizia sociale e allo sviluppo economico. Di conseguenza, l’ambiente è più importante del fattore sociale e di quello economico, giacché senza di esso non si potrà trovare la soluzione per gli altri due».

Quanto emerge da Rio è, invece, nient’altro che una carta di intenzioni, che, per esempio, sollecita «un’azione urgente» contro la produzione e il consumo insostenibili, ma senza indicare né il come né il quanto né il quando. O sottolinea la necessità di una diversificazione della matrice energetica, ma senza alcun riferimento a obiettivi reali di riduzione dei gas ad effetto serra (proprio nel momento in cui l’Agenzia internazionale per l’Energia riferisce che le emissioni mondiali di anidride carbonica nel 2011 sono aumentate del 3,2% rispetto all’anno precedente, mentre dovrebbero scendere almeno del 3% annuo, e diverse stazioni di ricerca hanno registrato nell’Artico una quantità di anidride carbonica superiore alle 400 parti per milione, ben oltre il limite massimo delle 350ppm fissato da un ampio numero di scienziati ed esperti).

Non meraviglia dunque che l’unica vera proposta emersa dal Vertice sia quella della cosiddetta green economy, quell’economia verde che, secondo i movimenti popolari, di verde rischia di avere soltanto il nome, puntando piuttosto a garantire la continuità dell’attuale modello di produzione e consumo, piegando alle logiche del mercato tutto ciò che ancora resta della natura (v. Adista nn. 98/11 e 6, 8, 18 e 24/12). È il senso appunto della “Dichiarazione sul Capitale Naturale” resa pubblica dalle grandi banche e dal settore finanziario in un incontro a latere del vertice, in cui, come denuncia Re:Common (l’associazione che ha preso il posto della Campagna per la riforma della Banca Mondiale), «gli istituti di credito pretendono una sorta di diritto indiscusso di fare business, che permetta l’accesso a ogni settore della natura e dell’ambiente, identificando e dando un costo a ogni “servizio” e bene che può essere identificato in quegli ambiti». Al contrario, secondo Re:Common, «una vera Green Economy dovrebbe basarsi su presupposti diametralmente diversi, invertendo la tendenza attuale di mercificare e finanziarizzare ogni bene naturale» e «riconoscendo in modo molto chiaro i limiti del mondo degli affari nell’ambito delle altre sfere della vita», oltre che «rafforzando il controllo democratico sopra i beni comuni naturali del globo». «Invece di una Dichiarazione sul Capitale Naturale – ha dichiarato Antonio Tricarico -, avremmo bisogno di una Dichiarazione sulla Natura Senza Capitale».

Tutto il resto è, al solito, rimandato: da qui a tre anni le Nazioni Unite indicheranno gli “Obiettivi di sviluppo sostenibile” che dovranno perseguire tutti i Paesi del mondo (oltre a individuare le fonti di finanziamento ai Paesi più poveri, per aiutarli a compiere tali obiettivi), sul modello dei cosiddetti Obiettivi del Millennio, le otto mete che tutti gli Stati membri dell’Onu si erano impegnati, nel 2000, a raggiungere entro il 2015 e che sono rimasti in larga parte inevasi. Esattamente come resteranno incompiuti questi nuovi, dal momento che gli impegni saranno sottoscritti su base volontaria.

Una visione opposta a quella espressa dalla Conferenza ufficiale è emersa, e non poteva essere altrimenti, dal Vertice dei Popoli, svoltosi, dal 18 al 23 giugno, all’Aterro do Flamengo, a 30 chilometri dalla sede della Conferenza, a cui hanno partecipato circa 50mila attivisti, in oltre 1.200 attività, a cominciare dalla grande Marcia dei Popoli per la Giustizia Ambientale e Sociale, contro la Mercificazione della Vita e in difesa dei Beni Comuni. Qualche critica, tuttavia, è stata rivolta anche al Vertice dei Popoli, rispetto al suo carattere ormai del tutto innocuo, alle sue modalità superate, alla sua scarsa incidenza, che si rifletterebbero anche nel documento finale, con il suo consueto affastellamento dei temi più disparati. Lo riportiamo qui di seguito in una nostra traduzione dal portoghese. (claudia fanti)

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IN PIEDI, CONTINUIAMO A LOTTARE!

Documento del Vertice dei Popoli

Movimenti sociali e popolari, sindacati, popoli e organizzazioni della società civile di tutto il mondo, riuniti al Vertice dei Popoli per la Giustizia Sociale e Ambientale, hanno fatto esperienza – negli accampamenti, nelle mobilitazioni di massa, nei dibattiti – della costruzione di convergenze e alternative, nella consapevolezza di essere i soggetti di una nuova relazione tra esseri umani e tra l’umanità e la natura, assumendo la sfida urgente di frenare la nuova fase di ricomposizione del capitalismo e di costruire, attraverso le nostre lotte, nuovi paradigmi di società.

Il Vertice dei Popoli è un momento simbolico di quel nuovo ciclo di lotte globali che produce nuove convergenze tra movimenti di donne, indigeni, afrodiscendenti, giovani, piccoli agricoltori e contadini, lavoratori e lavoratrici, popoli e comunità tradizionali, quilombolas, esponenti delle religioni di tutto il mondo. Le assemblee, le mobilitazioni e la grande Marcia dei Popoli sono state il momento di espressione massima di queste convergenze.

Le istituzioni finanziarie multilaterali, gli organismi al servizio del sistema finanziario, come il G8 o il G20, le multinazionali (con lo loro pressioni sulle Nazioni Unite) e la maggioranza dei governi hanno mostrato irresponsabilità nei confronti del futuro dell’umanità e del pianeta, promuovendo gli interessi delle imprese nella conferenza ufficiale. Al contrario, la vitalità e la forza delle mobilitazioni e dei dibattiti al Vertice dei Popoli hanno rafforzato la nostra convinzione sul fatto che solo il popolo organizzato e mobilitato potrà liberare il mondo dal controllo delle imprese e del capitale finanziario.

Venti anni fa il Forum Globale, realizzato anch’esso ad Aterro do Flamengo, denunciò i rischi che l’umanità e la natura correvano a causa delle privatizzazioni e delle politiche neoliberiste. Oggi, oltre a veder confermata la nostra analisi, assistiamo a significativi passi indietro in relazione ai diritti umani già riconosciuti. Rio+20 ha ripetuto la solita stanca litania delle false soluzioni difese dagli stessi soggetti che hanno provocato la crisi globale.

Nella misura in cui questa crisi si aggrava, le multinazionali sferrano un attacco sempre più deciso contro i diritti dei popoli, la democrazia e la natura, sequestrando i beni comuni dell’umanità per salvare il sistema economico-finanziario. Le molteplici voci e forze sociali che convergono attorno al Vertice dei Popoli denunciano la vera causa strutturale della crisi globale: il sistema capitalista patriarcale, razzista e omofobico.

Le imprese transnazionali continuano a commettere i loro crimini attraverso la sistematica violazione dei diritti dei popoli e della natura nella più completa impunità. Allo stesso modo, portano avanti i loro interessi attraverso la militarizzazione, la criminalizzazione degli stili di vita dei popoli e dei movimenti sociali, determinando processi di de-territorializzazione nelle aree rurali e in quelle urbane. Denunciamo ugualmente il debito ambientale storico nei confronti dei popoli oppressi del mondo, che deve essere assunto dai Paesi altamente industrializzati, quelli che hanno provocato le molteplici crisi che oggi viviamo.

Il capitalismo conduce anche alla perdita del controllo sociale, democratico e comunitario sulle risorse naturali e sui servizi strategici, che continuano ad essere privatizzati, trasformando i diritti in merci e limitando l’accesso dei popoli ai beni e ai servizi necessari alla sopravvivenza.

La cosiddetta economia verde è una delle espressioni dell’attuale fase finanziaria del capitalismo, caratterizzata dall’utilizzo di meccanismi vecchi e nuovi, come l’aumento dell’indebitamento pubblico-privato, la spinta eccessiva ai consumi, l’appropriazione e la concentrazione nelle mani di pochi delle nuove tecnologie, i mercati del carbonio e della biodiversità, l’accaparramento di terre spesso da parte di stranieri, i partenariati pubblico-privato.

Le alternative si incontrano nei nostri popoli, nella nostra storia, nei nostri costumi, nelle nostre conoscenze, nelle nostre pratiche e nei nostri sistemi produttivi, che dobbiamo salvaguardare, valorizzare e sviluppare su larga scala come progetto controegemonico e trasformatore. La difesa degli spazi pubblici nelle città, attraverso una gestione democratica e la partecipazione popolare; l’economia cooperativa e solidale; la sovranità alimentare; un nuovo paradigma di produzione, distribuzione e consumo; il cambiamento del modello energetico sono tutti esempi di alternative reali contro l’attuale sistema agro-urbano-industriale.

La difesa dei beni comuni passa per la salvaguardia di una serie di diritti degli esseri umani e della Natura, per la solidarietà e il rispetto nei confronti della cosmovisione e delle credenze dei diversi popoli, come, ad esempio, il “Buen Vivir”, inteso come forma di esistenza in armonia con la natura, che presuppone la costruzione di una transizione giusta da parte dei popoli e dei lavoratori e delle lavoratrici. Una transizione giusta che richiede l’ampliamento del concetto di lavoro, il riconoscimento del lavoro femminile e un equilibrio tra produzione e riproduzione, affinché questa non resti una competenza esclusiva delle donne. E che passa, ancora, per la libertà di organizzazione e il diritto di contrattazione collettiva, come pure per un’ampia rete di sicurezza e di protezione sociale, intesa come diritto umano, e per politiche pubbliche che garantiscano forme di lavoro degno.

Riaffermiamo il femminismo come strumento della costruzione dell’uguaglianza, l’autonomia delle donne rispetto ai loro corpi e alla loro sessualità e il diritto ad una vita libera dalla violenza. E allo stesso modo riaffermiamo l’urgenza di una ridistribuzione della ricchezza e del reddito, della lotta al razzismo e all’etnocidio, della salvaguardia del diritto alla terra e al territorio, del diritto alla città, all’ambiente e all’acqua, all’educazione, alla cultura, alla libertà di espressione e alla democratizzazione dei mezzi di comunicazione.

Il rafforzamento delle economie locali e dei diritti territoriali garantiscono la costruzione comunitaria di economie più vitali. Tali economie forniscono mezzi di sussistenza sostenibili a livello locale, promuovono la solidarietà comunitaria e proteggono componenti vitali per la resilienza degli ecosistemi. La diversità della natura e la diversità culturale ad essa associata sono alla base di un nuovo paradigma di società.

I popoli vogliono determinare per cosa e per chi vengono destinati i beni comuni ed energetici, oltre ad assumere il controllo popolare e democratico della loro produzione. Un nuovo modello energetico è basato sull’utilizzo decentrato di energie rinnovabili e deve garantire energia alla popolazione e non alle multinazionali.

La trasformazione sociale esige convergenza di azioni, processi di articolazione ed elaborazione di agende comuni a partire dalle resistenze e dalle alternative controegemoniche al sistema capitalista che stiamo portando avanti in ogni angolo del pianeta.

I processi sociali portati avanti dalle organizzazioni e dai movimenti che convergono nel Vertice dei Popoli rimandano ai seguenti versanti di lotta: contro la militarizzazione degli Stati e dei territori; contro la criminalizzazione delle organizzazioni e dei movimenti sociali; contro la violenza nei riguardi delle donne; contro la violenza nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender; contro le grandi imprese; contro l’imposizione del pagamento di debiti economici ingiusti; per la garanzia del diritto dei popoli alla terra e al territorio urbano e rurale; per la consultazione e il consenso libero, preventivo e informato, basato sui principi di buona fede e con effetto vincolante, conformemente alla Convenzione 169 dell’OIL; per la sovranità alimentare e per alimenti sani, contro l’utilizzo di pesticidi e di transgenici; per la garanzia e la conquista di diritti; per la solidarietà nei confronti di popoli e Paesi, specialmente quelli minacciati da golpe militari o istituzionali, come sta accadendo attualmente in Paraguay; per la sovranità dei popoli nel controllo dei beni comuni, contro i tentativi di mercificazione; per un nuovo modello energetico; per la democratizzazione dei mezzi di comunicazione; per il riconoscimento del debito storico sociale ed ecologico; per la costruzione di una Giornata mondiale di Sciopero Generale.

Torniamo nei nostri territori, nelle nostre regioni e nei nostri Paesi animati dalla volontà di costruire le convergenze necessarie per continuare a lottare, a resistere e ad avanzare contro il sistema capitalista e le sue vecchie e nuove forme di produzione.

In piedi, continuiamo a lottare!

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Rio+20: dalla Chiesa due opposte letture del documento finale

DOC-2454. RIO DE JANEIRO-ADISTA. Se i movimenti popolari di tutto il mondo denunciano il fallimento di Rio+20, per l’arcivescovo di São Paulo Odilo Scherer, capo della delegazione della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, il bilancio può essere considerato invece positivo. «Dobbiamo considerare che in un vertice di questo livello, con la presenza di quasi 190 nazioni, non ci si può aspettare di più, in termini di risultati concreti», afferma il cardinale senza tuttavia specificare in quale sede sia invece legittimo attendersi tali risultati. Ed è davvero singolare, di fronte al diluvio di critiche rispetto all’assenza di impegni da parte della Conferenza (v. documento precedente), che, per il cardinale, il contributo più importante offerto da Rio+20 sia quello – come si legge sul Bollettino della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) del 23/6 – di «una nuova presa di coscienza della comunità internazionale sui problemi della sostenibilità dell’economia, del clima e dell’urgente necessità che tutti facciano la loro parte»

A giudizio di dom Scherer, malgrado alcune lacune – per esempio riguardo al «contributo dei Paesi ricchi, quelli che più inquinano, per costituire un fondo che possa finanziare l’economia verde» – «esistono certamente molti punti positivi», a partire, afferma, dal risalto dato proprio alla green economy, rispetto alla quale il cardinale mostra di non raccogliere in alcun modo le tante riserve espresse al riguardo anche da settori della Chiesa cattolica. Riserve che invece ha fatto proprie la stessa Cnbb, la quale, in un Messaggio sulla Conferenza Rio+20, pubblicato il 19 giugno, afferma che, se l’economia verde «comporta in qualche misura la privatizzazione e la mercificazione dei beni naturali, come l’acqua, il suolo, l’aria, l’energia e la biodiversità, è allora eticamente inaccettabile», limitandosi appena a ricoprire di una nuova veste «l’insaziabile mercato». «Non c’è nulla di più cinico – scrive Frei Betto (Adital, 18/6) – delle proposte “pulite” dei Paesi ricchi», impegnati «a scaricare sui Paesi del Sud la colpa della devastazione ambientale, nello sforzo di occultare la propria responsabilità storica legata all’operato delle proprie transnazionali in Paesi poveri o emergenti. Bisogna diffidare di tutte le etichette “verdi”. Ecco qui un nuovo meccanismo per riaffermare la dominazione globo colonialista». Ciò di cui il mondo ha bisogno è al contrario, scrive Leonardo Boff sul suo blog (8/6), «un nuovo sguardo sulla Terra», una riscoperta del suo incanto, «un nuovo sogno». Il vecchio paradigma della conquista e dell’espansione, deve, per il teologo, lasciare spazio al nuovo paradigma «della cura e della responsabilità globale», a una visione olistica della Terra come un pianeta vivente, frutto di un’evoluzione di 13,7 miliardi di anni, la cui espressione più avanzata è data dall’essere umano, il quale ha la missione di «difendere la dignità e i diritti del pianeta, i diritti della natura, della flora e della fauna, poiché tutti formiamo la grande comunità della Terra».

Una visione, questa, che Leonardo Boff ha espresso con forza durante il Vertice dei Popoli (nel quale peraltro non è mancata una forte presenza delle religioni, attraverso un’inedita coalizione interreligiosa che ha preso il nome di “Religioni per i Diritti”), ma che è ben diversa da quella difesa dal Vaticano nella sede della Conferenza Onu. Secondo l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite Francis Chullikatt (Planeta Sustentável, 17/06), infatti, «la protezione dell’ambiente e la giustizia sociale servono per contribuire al bene dell’essere umano e non viceversa». E l’attenzione della Santa Sede a Rio non poteva non rivolgersi ai suoi tradizionali fronti di lotta, dalla questione di genere («Vi sono appena due generi», quello maschile e quello femminile, «e nessun altro», ha spiegato Chullikatt) a quella della riproduzione umana («non si raggiunge lo sviluppo riducendo la popolazione») fino a quella dello sviluppo dei Paesi poveri («è necessario aprire i mercati perché possano competere. Occorre fare loro concessioni»).

Su Rio+20 si è espresso anche l’arcivescovo di Arequipa mons. Javier del Río Alba, legato al Cammino neocatecumenale, secondo il quale occorre porre l’accento sulla signoria dell’essere umano sulla creazione, respingendo ogni tentativo di considerarlo come una creatura naturale al pari di tutte le altre. «Si sta tentando di relativizzare la dignità dell’essere umano e la sua importanza nel contesto della creazione», ha dichiarato all’agenzia conservatrice Aci Prensa (19/6), denunciando la «visione orizzontale e limitata» propria di un male inteso ecologismo e invitando le autorità statali a «non accettare questo tipo di antropologia che va contro l’essere umano».

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, l’ultimo commento scritto da Leonardo Boff sul suo blog (http://leonardoboff.wordpress.com), alla conclusione di Rio+20.

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IL PROSSIMO PASSO

Leonardo Boff

Il grande tema di Rio+20 era “Il futuro che vogliamo”. Il documento finale, però, non ci indica la rotta né i mezzi per percorrerlo: è timoroso, senza ambizioni e manca del senso etico e spirituale della storia umana. Ostaggio di una visione riduzionista e materialista dell’economia, non costruisce un software di società e di civiltà che ci possa dare speranza in un futuro che non sia il semplice prolungamento del passato e del presente. Questo ha dato tutto quello che poteva dare. Portarlo ostinatamente avanti vuol dire spingerci verso l’abisso che si apre di fronte a noi in un tempo non molto lontano.

Di fronte alle crisi che affliggono tutta l’umanità, in particolare quelle del riscaldamento globale e dell’insostenibilità del pianeta Terra e ultimamente quella economico-finanziaria che colpisce al cuore i Paesi opulenti, di fronte alla crescita del fondamentalismo e alla permanente minaccia del terrorismo, agli scenari drammatici che molti seri analisti delineano per il futuro della Terra, dell’Umanità, della vita e alle poche chance per una pace duratura, una angosciosa domanda ci assale: quale sarà il prossimo passo dopo Rio+20?

Alcune constatazioni: si è consolidato il villaggio globale; abbiamo occupato praticamente l’intero spazio terrestre e sfruttato il capitale naturale fino ai confini della materia e della vita, attraverso l’uso della ragione strumentale-analitica; abbiamo provocato un’immensa crisi di civiltà espressa nelle varie crisi menzionate. Chiediamoci: e ora che succederà? Niente di nuovo? Sarebbe molto rischioso, perché il paradigma attuale si basa sul potere come dominio della natura e degli esseri umani. Non dobbiamo dimenticare che è all’origine della macchina di morte che può distruggere tutti noi e la vita di Gaia. Tale cammino sembra esaurito, per quanto sia ancora dominante.

Siamo obbligati a passare dal capitale materiale a quello spirituale. Il capitale materiale è limitato e si esaurisce. Quello spirituale è infinito e inestinguibile. Il capitale spirituale, fatto di amore, compassione, cura, creatività, realtà intangibili e valori infiniti, non ha limiti. Ne abbiamo fatto un uso modesto, ma può rappresentare la grande alternativa per superare la crisi attuale e inaugurare un nuovo modello di civiltà.

Il capitale spirituale ha la sua centralità nella vita, nell’autonomia dei cittadini, nella relazione inclusiva, nell’amore incondizionato, nella compassione, nella cura della nostra Casa comune, nella gioia di vivere e nella capacità di trascendenza.

Non significa che dobbiamo esimerci dalla tecnoscienza: senza di essa non risponderemmo alle esigenze umane. Ma che deve venir meno il suo carattere distruttivo nei riguardi della natura e della vita. Se nel capitale materiale il motore era la ragione strumentale, nel capitale spirituale è la ragione del cuore, la ragione sensibile, ad organizzare la vita sociale e la produzione secondo i cicli della natura e i limiti di ogni ecosistema. È nella ragione del cuore che sono radicati i valori; di essa si alimenta la vita spirituale per produrre le opere dello spirito: l’amore, la solidarietà e la trascendenza.

Usando una metafora del grande scrittore irlandese C .S. Lewis, direi: se al tempo dei dinosauri un osservatore ipotetico si fosse interrogato sul passo successivo dell’evoluzione, probabilmente avrebbe immaginato la comparsa di specie di dinosauri ancora più grandi e voraci. Ma si sarebbe sbagliato. Non avrebbe mai immaginato che un piccolo mammifero che viveva in cima agli alberi più alti alimentandosi di fiori e germogli, terrorizzato dai dinosauri, avrebbe fatto irruzione, milioni di anni dopo, come qualcosa di assolutamente impensabile: un essere di coscienza e intelligenza – l’essere umano – con qualità del tutto diverse da quelle dei dinosauri. Niente fu come prima. Fu una rottura. Un passo diverso.

Crediamo che potrà sorgere ora un essere umano con un altro passo, animato dall’inesauribile capitale spirituale. E sarà il mondo dell’essere più che il mondo dell’avere.

Il prossimo passo, allora, sarebbe esattamente questo: scoprire l’illimitato capitale spirituale e cominciare ad organizzare la vita, la produzione, la società e la quotidianità a partire da esso. Allora l’economia sarebbe al servizio della vita e la vita si impregnerebbe dei valori di relazioni aperte e inclusive, della reciprocità tra essere umano e Terra, dell’autorealizzazione e della gioia. Una vera alternativa al paradigma vigente.

Ma questo passo non è meccanico. È il risultato di un collegamento di forze attorno a valori e principi assunti da tutti, biocentrati ed eco amichevoli. Cioè, offerto alla nostra libertà. Possiamo accoglierlo come possiamo rifiutarlo. Ma, anche rifiutandolo, rimane come una possibilità sempre presente e pronta ad irrompere. Non si identifica con nessuna religione. È qualcosa di precedente che emerge dalle potenzialità di quella Energia di fondo, potente e amorevole, che sostiene tutto l’universo e ognuno di noi, e che penetra in tutta l’evoluzione cosciente. Chi l’accoglie vivrà un altro senso della vita e abiterà un nuovo futuro, diverso da quello immaginato da Rio+20. Gli altri continueranno a scontrarsi con i vicoli ciechi dell’attuale modo di essere e si interrogheranno, angosciati, sul loro futuro e sull’eventuale scomparsa della specie umana.

È stato Teilhard de Chardin, ancora negli anni ‘30 del XX secolo, a nutrire il sogno dell’irruzione della noosfera. Noos, in greco, significa mente e spirito totalmente aperti. La noosfera sarebbe l’irruzione dell’umanità come specie, della mente e del cuore che battono all’unisono. Sarebbe la tappa nuova della antropogenesi, il superamento dell’antropocene (l’èra geologica attuale, ndt), l’inaugurazione dell’èra ecozoica e una nuova fase per Gaia.

Credo che l’eredità positiva dell’attuale crisi mondiale sia di aprirci alla possibilità di realizzare la noosfera. Si dice che Gesù, Budda, Francesco d’Assisi, Rumi, Gandhi, suor Dorothy (Stang, ndt) e tanti altri maestri e testimoni del passato e del presente abbiano fatto anticipatamente questo passo. Sono le nostre stelle polari, i seminatori del nostro principio-speranza e la garanzia che abbiamo ancora un futuro. I dolori attuali non sarebbero rantoli di una civiltà moribonda ma segnali del parto di un nuovo modo sostenibile di vivere e di abitare il nostro pianeta Terra. Saremo umani, riconciliati con noi stessi, con la Madre Terra e con la Realtà Ultima.

Come ha detto suggestivamente una delle nostre migliori pensatrici dei nuovi paradigmi, Rose Marie Muraro: «Quando desisteremo dall’essere dei, potremo essere pienamente umani: ancora non sappiamo cos’è ma l’abbiamo intuito da sempre».

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Rio+20: lo show del governo brasiliano. Tutto fumo, niente arrosto

DOC-2455. RIO DE JANEIRO-ADISTA. Perfettamente in linea con quanto espresso dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, il governo brasiliano ha presentato sulla scena internazionale un bel po’ di fumo, tenendo quanto più possibile nascosta l’assenza di arrosto. Di certo, se lo “sviluppo sostenibile” perseguito da Rio+20 è simile a quello sbandierato dalla presidente Dilma Rousseff, si comprende bene il fallimento del vertice. Già alla fine di maggio la presidente aveva posto grande enfasi sulla possibilità di conciliare difesa dell’ambiente e crescita, sottolineando inoltre la necessità di stimolare il consumo nell’ottica di un modello di sviluppo con inclusione sociale: «Abbiamo dimostrato – aveva detto – che è possibile preservare le nostre foreste, la nostra biodiversità, i nostri fiumi, le nostre ricchezze naturali» e «allo stesso tempo assicurare la crescita», garantendo «l’aumento della produzione agricola, di quella industriale e dei servizi».

Grande risalto ha dato la presidente, in particolare, alla massima riduzione finora mai registrata del tasso di deforestazione, addirittura del 75% rispetto al picco del 2004 (per quanto, tra il 2010 e il 2011, l’Amazzonia abbia comunque perso 642mila ettari di foresta, vale a dire, secondo il ricercatore dell’Ong Imazon Paulo Barreto, 480 milioni di alberi con un diametro superiore ai 10 cm). Un annuncio fatto in grande stile durante la Giornata Mondiale dell’Ambiente, il 5 giugno, a pochi giorni dall’apertura di Rio+20, e accompagnato dalla presentazione del primo, timidissimo, pacchetto ambientale varato dal suo governo: la creazione di due nuove aree protette e l’ampliamento di altre tre (a fronte però di sette aree ridotte nell’ultimo anno) e l’omologazione di sette terre indigene (ma lasciandone fuori altre 5 di quelle previste).

Il fatto è che, dietro gli annunci ad effetto e le dichiarazioni altisonanti, la politica ambientale del governo Rousseff batte tutti i record negativi dei precedenti governi. Se il tasso di disboscamento è ai minimi storici, per una combinazione di fattori che vanno molto oltre i suoi meriti, il nuovo Codice Forestale approvato dal Congresso – su cui la presidente ha esercitato, contro le richieste della maggioranza della popolazione, solo un veto parziale (v. Adista n. 22/12) – rappresenta nient’altro che una dichiarazione di guerra agli ecosistemi del Paese, con evidente soddisfazione del settore produttivo legato all’agrobusiness. Con la nuova legge, ha commentato Marcio Astrini di Greenpeace, perdono le foreste e vince chi disbosca: «Amnistia? Certamente: le multe per la deforestazione realizzata fino al 2008 sono state condonate. Un minore recupero delle aree protette? Sì, signore: le aree di preservazione permanente (le aree protette lungo le rive dei fiumi, ndr) sono state ridotte. Premi a quanti hanno deforestato? Chiaro: oltre al condono, possono piantare eucalipto o qualunque altra specie esotica dove prima c’era solo la foresta nativa»

Alla fine di maggio, peraltro, il Senato ha approvato un progetto che converte in legge la Misura Provvisoria 558 decretata dal governo a gennaio, la quale prevedeva una riduzione delle aree protette per facilitare la regolarizzazione fondiaria delle famiglie presenti in quelle aree e la costruzione di nuove centrali idroelettriche. Costruzione che, come denunciano i movimenti sociali, viene portata avanti in modo autoritario, senza alcuna consultazione delle popolazioni interessate e senza reali studi di impatto ambientale. Ancora prima, a marzo, la Commissione di Costituzione e Giustizia della Camera dei deputati si era espressa a favore della proposta di emendamento costituzionale che prevede il trasferimento dal potere esecutivo al Congresso nazionale della prerogativa di approvare e ratificare la demarcazione di terre indigene. E, proprio riguardo ai popoli indigeni, il rapporto divulgato il 13 giugno dal Consiglio Indigenista Missionario rivela il terribile quadro di violenza e di spoliazione di cui sono vittime le popolazioni originarie, registrando, tra l’altro, un aumento, nel 2011, dei casi di suicidio, del numero di bambini indigeni morti per malattie facilmente curabili (da 92 a 126), delle invasioni per il possesso e lo sfruttamento illegale delle risorse naturali. E criticando «la lentezza del governo federale nel demarcare e consegnare le terre agli indigeni»: «Nel 2011 – si legge – solo tre aree sono state consegnate dalla presidente Dilma Rousseff, il peggior risultato registrato durante il primo anno di governo dal tempo di Jose Sarney».

Un capitolo a parte merita poi il modello di energia “pulita” tanto orgogliosamente rivendicato dalla presidente: in realtà, gli investimenti previsti dal Piano Energetico Decennale riguardano piuttosto i settori tutt’altro che puliti del pre-sal (la grande riserva di petrolio individuata nell’Oceano Atlantico), del carbone e del nucleare, oltre alle nefaste megacentrali idroelettriche in Amazzonia (Santo Antonio, Jirau, Belo Monte, tra molte altre), i cui oppositori vivrebbero, secondo quanto affermato dalla presidente Rousseff, «in uno stato di fantasia».

Sulla politica ambientale di Dilma Rousseff si sofferma anche il sacerdote Edilberto Sena, della Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Santarém, nell’articolo che qui di seguito riportiamo in una nostra traduzione dal portoghese (pubblicato il 22 giugno dall’Instituto Humanitas Unisinos, l’Università gesuita del Vale do Rio dos Sinos; www.ihu.unisinos.br)

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L’IPOCRISIA DI DILMA ROUSSEFF

Edilberto Sena

La presidente Dilma ha pronunciato un discorso impressionante in apertura di Rio+20, sottolineando, tra l’altro, la necessità di «trovare una soluzione alla crisi finanziaria senza pregiudicare lo sviluppo sostenibile» e difendendo «un modello economico che unisca preservazione e crescita». «Abbiamo un modello di sviluppo – ha detto – e non riteniamo corretto cambiarlo per via della crisi». E ancora: «L’ambiente non è un ornamento, ma è parte della visione della crescita e dell’inclusione».

Cotanta convinzione farebbe pensare che la presidente si senta padrona della verità riguardo alla soluzione per il nostro Paese, certa che il suo Programma di crescita accelerata (Pac) garantisca un equilibrio tra difesa dell’ambiente e crescita economica. Da qui l’audacia di affermare di fronte ai suoi colleghi che l’attuale modello di sviluppo portato avanti dal suo governo è quello giusto e che non è necessario modificarlo a causa della crisi.

Per chi come noi, vivendo in Amazzonia, sa come vengono realizzate le opere del Pac, senza alcun dialogo con le organizzazioni sociali e senza rispetto per i diritti umani, è triste constatare l’ipocrisia del governo brasiliano. Come può affermare la presidente che l’ambiente fa parte della visione di uno sviluppo inclusivo quando il suo governo persegue la crescita escludendo 30 milioni di esseri umani in Amazzonia?

In questi ultimi anni, il vescovo di Porto Velho dom Esmeraldo Barreto de Farias ha portato a Brasilia un documento che rivelava le atrocità commesse contro gli operai edili di Jirau e Santo Antonio. Il ministro Gilberto Carvalho ha mostrato di non sapere. In Belo Monte sta avvenendo un disastro, con la violazione degli accordi e il mancato pagamento degli indennizzi ai lavoratori rurali danneggiati. E la Norte Energia, con la connivenza del potere giudiziario, impedisce ai manifestanti di protestare contro gli abusi commessi nei confronti delle 200 famiglie espulse dalle loro terre a Santo Antonio. Una connivenza ancor più grande da parte del potere giudiziario si registra nel blocco dei 12 processi intentati contro la Norte Energia dal Pubblico Ministero a livello di Giustizia Federale. Tutto è fermo, in attesa che il fatto consumato renda irreversibili i danni.

La presidente avverte con enfasi gli ambientalisti che il governo non cambierà il suo progetto di aumento dell’offerta di energia e di sviluppo attraverso la costruzione di centrali idroelettriche in Amazzonia. Chi è contrario a tali centrali vive in uno stato di fantasia, ha affermato lo scorso maggio durante una riunione con i componenti del Forum del Clima. La presidente e i suoi accoliti pensano che debba essere così e non accettano critiche.

La sua rigida ministra dell’Ambiente afferma senza cerimonie: dobbiamo discutere da persone mature. È il momento di parlare delle Unità di Conservazione, della regolarizzazione fondiaria, dell’accesso alle conoscenze tecniche e scientifiche. Dobbiamo finirla con i commenti a sproposito sull’ambiente, ha detto.

Il fatto allora di sottrarre 110mila ettari di foreste all’Unità di Conservazione nel bacino del rio Tapajós per prevenire possibili problemi giuridici in relazione alla costruzione delle dighe di São Luiz do Tapajós e Jatobá non è in alcun modo, per la presidente e per la ministra, un’aggressione ai popoli e all’ambiente. Per noi, come pure per la Costituzione nazionale, un Parco nazionale è invece un territorio sacro, inviolabile.

La presidente fa ricorso alla Misura Provvisoria 558 per eseguire intenzionalmente il suo piano di costruzione delle centrali idroelettriche senza entrare in conflitto con la legge. Come può la ministra dell’ambiente affermare che è il momento di lasciare da parte i commenti a sproposito e ragionare in termini di conoscenza tecnica e scientifica? Non è proprio lei a commentare a sproposito? Che conoscenza scientifica possiede per garantire che l’inondazione provocata dalla diga a São Luiz do Tapajós non produca un grave impatto sociale e ambientale?

Gli stessi funzionari dell’Ibama (Istituto brasiliano per l’Ambiente) si lamentano, denunciando «la pressione sofferta rispetto all’approvazione delle grandi opere nel nostro Paese»: «Stiamo vivendo un momento decisivo riguardo all’ambiente. In relazione all’avanzata delle grandi opere e dell’agrobusiness, diverse leggi ambientali vengono modificate e approvate senza ampia discussione e senza base scientifica, guardando ad interessi puramente economici e trascurando la questione socioambientale». È quanto scrivono, in una lettera divulgata il 31 maggio, i lavoratori dell’Ibama, dell’Istituto Chico Mendes e del Ministero dell’Ambiente, denunciando l’assedio morale e la mancanza di autonomia che subiscono affinché grandi progetti infrastrutturali vengano approvati senza i dovuti requisiti ambientali e sociali richiesti dalla legge.

Cosa aspettarsi da Rio+20? Dai capi di Stato del mondo solo belle dichiarazioni e dal governo brasiliano nient’altro che autocompiacimento per la crescita economica e per la diminuzione del tasso di deforestazione, che non è neppure completamente merito del governo. Noi abitanti dell’Amazzonia viviamo un’altra pagina di colonialismo, peggiore di quella che ha visto come protagonisti i portoghesi. Ci sottraggono tutto lasciandoci come compensazione la bolsa famìlia e il microcredito. E istituzionalizzano l’invasione delle imprese minerarie straniere, sempre in nome della crescita economica del Brasile. È lo stesso Ibama a denunciare il connubio del governo con imprese e governi stranieri in Amazzonia. Nel manifesto del 31 maggio si legge infatti: «Mettiamo in discussione l’operato della cooperazione internazionale e il modo in cui gli organismi internazionali interferiscono nella gestione del Ministero dell’Ambiente. Denunciamo anche la tendenza di tale Ministero a svuotare agende di partecipazione e di controllo sociale stringendo legami con il settore privato, a scapito dell’interesse pubblico che il Ministero dovrebbe difendere». E ancora: «Il Programma di Accelerazione della Crescita, articolato con l’Iniziativa di Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana (Iirsa), ha prodotto innumerevoli progetti in tutto il Paese e, con essi, l’obbligatorietà della concessione di autorizzazioni ambientali che consentano l’esecuzione di tali opere in tempi brevi. Senza struttura e tempo sufficienti per condurre analisi adeguate, il lavoratore si vede privo degli strumenti necessari per l’assunzione di decisioni serie, che comprendano la conservazione e la preservazione della vita della flora, della fauna e delle popolazioni tradizionali».

Di fronte a tante denunce serie e a tante evidenze contrarie, emerse nell’esecuzione dei progetti del Pac in Amazzonia, non c’è modo di prendere sul serio l’impegno espresso dalla presidente e dai suoi ministri. Considerando il modo in cui si stanno eseguendo le opere nella regione, si può capire bene cosa ha spinto il leader indigeno Megaton ad affermare che condurrà i suoi guerrieri ad impedire il proseguimento dei lavori della diga di Belo Monte anche a costo della sua stessa vita.

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Non c’è sviluppo vero senza dottrina sociale. Una riflessione sui risultati della conferenza internazionale Rio +20

Carmine Tabarro.(*)
Zenit.org 26 giugno 2012

La crisi di cui si è discusso a Rio+20 è figlia a quella di cui si parla al G20: difatti anche Rio+20 è frutto di un modello di sviluppo che non tiene in considerazione il bene comune ne dal un punto di vista economico, finanziario, sociale e ambientale.

Invece il mondo globalizzato ha bisogno di un nuovo modello fondato sulla sostenibilità rispetto dell’uomo e del creato.

A distanza di 20 anni dal Earth Summit di Rio del 1992, i dirigenti del mondo politico ed economico si sono ritrovati nella stessa città per una conferenza mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, denominata Rio+20, con la missione di riprendere il cammino per promuovere lo sviluppo senza danneggiare l’ambiente e cercare nuove strategie per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile a livello globale.

Purtroppo, lo sviluppo sostenibile viene declinato solo dal punto di vista ambientale, dimenticando come affermava già Paolo VI nella sua Populorum Progressio, “tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo” e tale “autentico sviluppo dell’uomo”, quando avvenga con le modalità su dichiarate, “riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione”.

Questa affermazione di Paolo VI suggerisce una prospettiva di lungo periodo, ma questa cultura della sostenibilità non è stato valutata dai policy-makers una priorità assoluta nell’agenda politica dia fronte di problemi economici ritenuti più urgenti.

In maniera profetica Paolo VI sempre nell’enciclica Populorum Progressio ricorda in tal senso che le Istituzioni in sé non sono garanzia di sviluppo, benessere e rispetto dell’uomo.

Difatti l’attuale recessione mostra quanto sia vero che le Istituzioni non sono state in grado né di dare vita ad una sostenibilità dello sviluppo, né di garantire uno sviluppo durevole. Questo è il problema che incide in maniera preponderante sulla salute del sistema economico globale.

Questo squilibrio ha provocato una riduzione tendenziale della domanda aggregata delle famiglie ed un conseguente rallentamento del tasso di crescita dell’economia nei paesi industrializzati.

La riduzione sistemica della domanda aggregata delle famiglie è stata in parte compensata dal crescente indebitamento delle stesse e da un impetuoso processo di finanziarizzazione che ha accresciuto progressivamente il contributo del settore FIRE (Finance, Insurance and Real Estate) alla formazione del reddito.

Il FIRE, dapprima ha sottomesso la politica e nonostante una legislazione mondiale di favore, non è riuscita a mantenere il tasso di crescita tendenziale dei paesi industrializzati al livello del periodo di Bretton Woods (1945-1971), dominato da una politica economico-sociale di tipo Keynesiano, ed hanno messo a repentaglio la stabilità finanziaria del sistema mondiale.

A sua volta la crisi finanziaria ha deteriorato considerevolmente gli indici di sostenibilità ambientale, economica, sociale, in un circolo vizioso che rischia di propagarsi per un lungo periodo di tempo.

Ma la crisi non sarebbe forse neppure iniziata se come ha scritto Benedetto XVI nel n. 67 dell’enciclica Caritas in veritate, si fosse dato vita ad un “governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità”.

Ne è prova il picco del prezzo del petrolio del luglio 2008 non dovrebbe essere interpretato come un fenomeno casuale, ma come l’indice di un sistema energetico insostenibile basato sull’uso dei combustibili fossili che hanno vincoli di scarsità stringenti e sono i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico e dei danni conseguenti all’alterazione della qualità dell’aria.

Inoltre, anche tenendo conto delle fonti di petrolio non convenzionali, la maggior parte degli studi esistenti prevedono che l’offerta di petrolio sia destinata a raggiungere negli anni a venire il picco della cosiddetta curva di Hubbert per poi cominciare a decrescere nel tempo.

In assenza di provvedimenti urgenti e massicci che accelerino la transizione ad un sistema energetico alternativo basato sulle fonti di energia rinnovabile, il prezzo del petrolio sarà presumibilmente un ostacolo insormontabile alla sostenibilità della ripresa economica.

Nonostante il cattivo giudizio espresso dalle associazioni ambientaliste, siamo convinti che bisogna guardare avanti con coraggio e speranza.

E’ molto positivo il punto di vista della Santa Sede che invece è riuscita nell’intento di separare le politiche di salvaguardia del creato dall’imposizione di programmi per la riduzione delle nascite.

Nel documento finale ci sono punti positivi sicuramente apprezzabili, come l’affermazione che l’uomo è il centro dell’economia e anche la definizione di ciò che va meglio compreso come l’economia sostenibile.

I tre punti di riferimento sono: lo sviluppo economico in quanto tale, lo sviluppo sociale che pone l’uomo, l’essere umano nel centro della preoccupazione e che l’economia sostenibile sia anche ecologicamente sostenibile, quindi che abbia sempre in considerazione anche l’ecosistema.

Altro dato positivo di questa Conferenza è stata la presenza di circa 190 rappresentanti di Paesi. Questo testimonia un crescente interesse della comunità internazionale sulle tematiche ambientali e dei vecchi e nuovi beni comuni. Questo fa cultura contribuisce a cambiare gli stili di vita.

Il rammarico nasce per l’assenza di alcuni capi di Stato, di Paesi importanti come la stessa Italia, gli Stati Uniti, il Giappone… I maggiori protagonisti sono stati i Paesi in via di sviluppo, sempre più leadership nel campo dei temi globali.

Un ruolo importante è stato svolto anche dalla Santa Sede, in cui sono stati ribaditi tutti i temi del Magistero Papale e in particolare di Benedetto XVI. E’ stato riaffermato il significato autentico del progresso come vocazione umana, un appello trascendente cui l’uomo non può e non sa rinunciare: in tal senso nascerebbe l’esigenza di coniugare la tecnica al suo significato.

Lo sviluppo umano integrale come vocazione esige anche che se ne rispetti la verità. La vocazione al progresso spinge gli uomini a “fare, conoscere e avere di più, per essere di più”; e, in tal senso, la Dottrina sociale della Chiesa ha il pregio di essere il viatico per questa affermazione integrale dello sviluppo umano.

Il Vangelo sarebbe elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo”. Infatti, “quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il bene comincia a svanire

(*) Comunità Cattolica Shalom

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Assemblea dei Popoli
Dichiarazione sull’acqua Blue Pavilion

Rio De Janeiro – 21 Giugno 2012

Noi, movimenti per la difesa delle acque e la Madre Terra riuniti presso il Padiglione Blu all’interno
della Assemblea dei Popoli (Cúpula dos Povos) condividiamo unitariamente la visione che l’acqua
è un bene comune, non una merce. Le acque incontaminate della Terra danno vita ad una
sorprendente varietà di ecosistemi e di esseri viventi. Questa visione comune afferma la necessità
di un rapporto equo ed equilibrato con la Madre Terra che rispetti le leggi della natura, mantenga
l’integrità del ciclo dell’acqua e garantisca il raggiungimento della giustizia sociale e ambientale per
tutti gli abitanti della Terra.

Noi riteniamo che la risoluzione ONU 64/292 sul diritto all’acqua e ai servizi igienici è un risultato
significativo raggiunto dai nostri movimenti, supportato dalle molteplici campagne per l’adozione di
tale diritto nelle costituzioni nazionali.

In solidarietà con le migliaia di attivisti e movimenti sociali, vogliano unitariamente respingere il
controllo corporativo delle nostre società e le proposte della cosiddetta “green economy”, che
cercano di mettere un prezzo sulla natura e sull’acqua, mercificando sotto il pretesto della
sostenibilità , lo sviluppo, la riduzione della povertà e l’efficienza; di fatto quindi monetizzando e
mercificando tutto ciò che è sacro e necessario per la vita sulla Terra.

La “green economy” è l’espressione del modello capitalistico di sviluppo che presta poca
attenzione alle interconnessioni idrogeologiche e crea profonde disuguaglianze economiche,
sociali e ambientali e soprattutto crisi, consolida i processi di appropriazione da parte delle aziende
e subordina le nostre società e la natura ai mercati finanziari.

Questo modello di sviluppo, che considera l’acqua (e la natura) come una risorsa economica, è
inefficace nel garantire l’accesso all’acqua e ai servizi igienici per tutti, non può sostenere
un’economia sostenibile e mina una pacifica coesistenza tra esseri umani, specie viventi e degli
ecosistemi della Terra.

Noi rifiutiamo l’istituzionalizzazione del colonialismo e del razzismo e il rifiuto dei diritti
all’autodeterminazione e alla sovranità alimentare dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali.
Chiediamo ai nostri governi di rigettare le false soluzioni della “green economy” e di non
abbandonare l’ acqua sotto la logica del mercato e del profitto. L’acqua, per bere o per l’agricoltura,
devono essere democraticamente gestite dalle comunità e/o dalle istituzioni pubbliche e non dalle
Aziende.

Chiediamo ai nostri governi di difendere l’interesse pubblico, garantire l’accesso ai servizi igienici e
di acqua pulita e sicura per tutti, nella quantità indispensabile per una vita dignitosa. Invitiamo tutti
i governi a riconoscere ufficialmente il diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari per tutte le
persone a livello di legislazione nazionale, in conformità con la risoluzione Onu 64/292. Il diritto
all’acqua deve essere garantito in particolare come una priorità per donne e bambini, per i poveri e
le persone che vivono in condizioni disumane.

Chiediamo che la conservazione dell’integrità del ciclo dell’acqua, nel quadro del riconoscimento
dei diritti degli ecosistemi e delle specie, sia riconosciuta, prosperi e possa riprodursi.
Chiediamo il riconoscimento dei diritti della natura, al fine di garantire che la biosfera ed i suoi
abitanti siano protetti per la sostenibilità e dell’equilibrio ecologico.

Chiediamo la solidarietà di una comunità globale e il rafforzamento attraverso la creazione di
istituzioni veramente democratiche idriche globali, quali partenariati pubblico-pubblico e pubblicocomunità di partnership o la creazione di un’ Autorità mondiale dell’acqua, che deve agire
nell’interesse dell’umanità e della natura.

Chiediamo la creazione di un Tribunale penale internazionale per la prova dei reati ambientali.
Ci impegniamo a continuare a costruire reti e nuove alleanze sociali, ampliando e approfondendo
le nostre connessioni con i Movimenti sociali in lotta per la sovranità alimentare, per un lavoro
dignitoso, per i diritti dei lavoratori, per la democrazia e la giustizia sociale e ambientale.
In particolare, ci impegniamo a partecipare attivamente nelle campagne di giustizia per il clima,
perché l’acqua è uno degli elementi fondamentali della vita che è interessata dai cambiamenti
climatici.

Stante l’esperienza collettiva, la determinazione e l’ampia solidarietà che abbiamo incontrato con
altri movimenti presenti qui all’Assemblea di Rio, riteniamo che è davvero possibile superare il
modello della “green economy” e la costruzione di nuovi modelli di sviluppo in armonia con la
natura.

(*) Dichiarazione approvata a conclusione della Sessione dedicata all’ Acqua nell’Assemblea dei popoli.

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I gesuiti alla Conferenza Rio+20

Nella settimana dal 18 al 22 giugno ci siamo incontrati a Rio de Janeiro: eravamo più di 40 gesuiti. Molti di noi sono venuti per prendere parte all’incontro annuale dei centri sociali della Conferenza dell’America Latina e Caraibi svoltasi nei giorni 18 e 19. Altri convenivano da Europa, Asia e Oceania in qualità di membri della rete ignaziana di advocacy sull’ecologia. Questi ultimi hanno contribuito a Ecojesuit, una pagina web frutto della collaborazione internazionale che raccoglie sempre maggiori consensi grazie alla sua chiarezza e precisione.

Tutti noi abbiamo preso parte alle due conferenze parallele sull’economia sostenibile e il clima, svoltesi a Rio in quei giorni, ovvero: il Rio+20 e il “Summit dei popoli”, sponsorizzate dai movimenti sociali di base. Mentre quest’ultima conferenza si è tenuta in città, nei pressi di Botafogo City, uno dei luoghi più particolari di questa città meravigliosa, quella ufficiale ha avuto luogo a circa 40 chilometri di distanza per evitare possibili dimostrazioni e proteste.

Come previsto, la conferenza ufficiale si è rivelata un fiasco. Il documento finale non prevede impegni a livello internazionale da parte dei governi. Sappiamo che con le risorse a nostra disposizione siamo in grado di affrontare i problemi legati al cambiamento climatico e alla salvaguardia dell’ambiente. Le soluzioni sono impegnative da un punto di vista economico, ma non fare nulla ora comporterà costi ancora maggiori in futuro. Non è rimasto molto tempo prima che si superi la soglia di cambiamenti irreversibili, ecco perché si impone un’azione internazionale coordinata.

Ma è proprio qui che le cose si fanno difficili: i governi non vogliono assumere impegni, soprattutto quando si tratti di azioni verificabili. Non è che non se ne preoccupino, anzi, quasi tutti prendono un qualche tipo di misura. Il fatto è che non vogliono controlli esterni che vivono come ingerenze nella sovranità nazionale. Da una parte, in tempi di crisi economica, i paesi ricchi non vogliono incorrere in ulteriori spese, dall’altra i paesi emergenti si battono per migliorare la propria posizione nella classifica delle economie mondiali. Tutti sembrano pensare di aver tempo a sufficienza per occuparsi dell’ambiente perché i cambiamenti che lo riguardano sono a lungo termine.

Più interessante dell’incontro ufficiale è stata la conferenza Summit dei popoli: più appassionata e con meno riserve; dotata di minori risorse tecniche ma più vivace e rivolta direttamente a una platea indistinta; meno artificiosa e superficiale, più umile e reale. Cionondimeno, il Summit ha mostrato con chiarezza che a livello globale si avverte un certo clamore da parte di comunità e gruppi che stanno lavorando alla protezione del clima e dell’ambiente. Alcune comunità sono formate da piccoli agricoltori e popolazioni indigene che difendono le loro terre e i loro stili di vita dalle minacce poste dall’attività estrattiva, dalla monocultura agroindustriale e dai progetti di sviluppo su vasta scala.

Queste attività economiche determinano sfollamento e generano miseria. Erano inoltre presenti alla conferenza numerosi gruppi consapevoli della problematica ambientale, pronti ad adottare cambiamenti personali e culturali che promuovano uno stile di vita meno aggressivo nei confronti dell’ambiente e abbiano maggiore riguardo delle popolazioni più a rischio. Tutti i partecipanti alla conferenza hanno chiesto con forza la creazione di una nuova economia imperniata sulle persone, un’economia che riduca le ineguaglianze e la povertà senza evocare il mito della crescita come soluzione principale ai problemi dell’umanità.

La speranza più grande è incarnata in quei gruppi consapevoli e attivi che vanno moltiplicandosi nel mondo. È vero che abbiamo bisogno di un impegno fermo da parte dei governi e di cambiamenti significativi nel modo in cui è organizzata l’economia. Ma né la classe politica, né coloro che gestiscono l’economia possono mettere insieme le risorse indispensabili al cambiamento. La prima soffre di una visione a corto raggio, mentre la seconda non risponde a nessuno se non a se stessa, dominata com’è dalle logiche di profitto. Nel caso degli uomini politici, solo la crescente pressione dell’opinione pubblica sarà in grado di modificarne la risposta.

Nei decenni a venire, il futuro del pianeta e il destino dei poveri, di coloro che più sono esposti alla minaccia, sarà deciso soprattutto dai cambiamenti culturali – vale a dire di convinzioni, atteggiamenti, impegno – determinati da cittadini globali che già condividono una problematica e un destino comune: un campo privilegiato per la missione della Compagnia e della Chiesa. C’è ancora molto da fare.