La santa alleanza contro l’Iran

Michele Paris
www.altrenotizie.org

L’escalation di minacce nei confronti dell’Iran da parte occidentale ha fatto registrare ulteriori passi avanti nei giorni scorsi con l’entrata in vigore delle più recenti sanzioni americane e dell’embargo petrolifero approvato dall’Unione Europea. Oltre a queste misure, destinate a farsi sentire in maniera pesante sull’economia iraniana, la vigilia del nuovo round di negoziati, in scena questa settimana a Istanbul, è stata segnata da provocazioni e avvertimenti reciproci che indicano un progressivo aggravarsi della crisi costruita attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

Lo stop alle importazioni di petrolio iraniano per tutti i membri UE era stato deciso già lo scorso gennaio, ma Bruxelles ha atteso fino al primo luglio per implementarlo, così da permettere ai paesi maggiormente dipendenti dal greggio di Teheran (Grecia, Italia e Spagna) di trovare forniture alternative.

L’embargo costituisce una sorta di autogol da parte europea, nonché un chiaro cedimento alle richieste statunitensi, dal momento che il venir meno del petrolio dall’Iran potrebbe creare non poche difficoltà di approvvigionamento e far aumentare le quotazioni, aggravando ulteriormente la crisi economica in atto.

Oltre al divieto di importare petrolio, le misure UE prevedono anche la proibizione per le compagnie assicurative del vecchio continente di stipulare polizze per le petroliere che trasportano il greggio iraniano, anche verso paesi terzi. Questa disposizione risulta particolarmente minacciosa per Teheran, poiché le compagnie europee provvedono per la maggior parte dei contratti assicurativi in questo ambito.

Gli ostacoli riguarderanno soprattutto le esportazioni verso i paesi asiatici. Se, ad esempio, il Giappone ha da poco approvato coperture assicurative garantite dal governo, la Corea del Sud, quarto importatore di greggio dall’Iran, ha invece annunciato che, alla luce della nuova realtà, sarà costretta a interrompere del tutto le forniture provenienti da Teheran.

La legislazione americana è entrata a sua volta in vigore il 28 giugno e prevede l’imposizione di sanzioni per qualsiasi entità o compagnia straniera che intrattenga rapporti d’affari con la Banca Centrale iraniana. L’amministrazione Obama ha però escluso temporaneamente dalle sanzioni una ventina di paesi, dopo che questi hanno ridotto più o meno sensibilmente le proprie importazioni di petrolio dall’Iran. In questa lista di paesi non figurava inizialmente la Cina, la quale è stata aggiunta solo all’ultimo momento per evitare il precipitare delle relazioni tra Pechino e Washington.

Fino allo scorso anno, i paesi dell’Unione Europea importavano poco meno di un quinto del greggio esportato da Teheran. Più in generale, le varie sanzioni unilaterali adottate in questi ultimi mesi sembrano aver ridotto le vendite di petrolio iraniano di circa il 40%.

Le conseguenze sull’economia del paese sono molto pesanti e colpiscono in particolare la classe media e i ceti più disagiati. Non solo la moneta iraniana (rial) ha visto il proprio valore crollare, ma l’inflazione ha subito una netta impennata fino ad arrivare, secondo i dati ufficiali, al 25%, anche se per i generi di prima necessità risulta di gran lunga superiore.

Secondo la versione ufficiale, le sanzioni farebbero parte di un approccio che, come sostengono gli Stati Uniti e i loro alleati, dovrebbe convincere Teheran a cedere alle richieste del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) sulla questione del nucleare.

In realtà, le intenzioni reali di Washington, la cui posizione prevale all’interno dei P5+1, sono quelle di indebolire il più possibile l’economia e il governo iraniani, così da preparare il campo ad un sempre più probabile intervento armato per rovesciare il regime.

Le manovre americane a questo scopo sono d’altra parte evidenti. A confermalo più recentemente è stato un articolo del New York Times di martedì, secondo il quale gli USA starebbero inviando “significativi” rinforzi militari nel Golfo Persico per impedire l’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita una buona parte delle esportazioni di petrolio proveniente dal Medio Oriente, e per avere a disposizione un maggior numero di aerei da guerra in grado di colpire obiettivi in territorio iraniano in caso di conflitto con Teheran.

Un simile dispiegamento di forze per accerchiare l’Iran avviene ovviamente in stretta collaborazione con le monarchie sunnite assolute riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), tutte alleate di Washington e fortemente ostili all’espansione dell’influenza della Repubblica Islamica sciita nella regione.

A questa escalation militare, che rappresenta una seria minaccia per la sicurezza iraniana, vanno aggiunte poi le altre tattiche impiegate da Stati Uniti e Israele per provocare la reazione di Teheran, così da giustificare un’aggressione armata.

Tra di esse spiccano gli assassini di svariati scienziati nucleari in territorio iraniano negli ultimi anni e un vero e proprio programma di guerra informatica – operazione “Giochi Olimpici”, avviata ai tempi di George W. Bush e ripresa da Obama – per colpire e danneggiare le installazioni nucleari di Teheran.

Con ogni probabilità in risposta a queste ed altre provocazioni occidentali e di Tel Aviv, lunedì da Teheran è circolata la notizia che il parlamento starebbe valutando un provvedimento per chiudere lo Stretto di Hormuz alle petroliere dirette verso quei paesi che hanno adottato l’embargo del greggio iraniano. Martedì, inoltre, il governo della Repubblica Islamica ha annunciato di aver testato con successo dei missili a medio raggio in grado di colpire Israele in caso di minaccia alla propria sicurezza.

I negoziati, intanto, sono ripresi nella capitale turca ma l’incontro è stato esclusivamente tra personale tecnico di entrambe le parti e senza diplomatici di alto livello. Dopo il sostanziale fallimento dei vertici di Baghdad e di Mosca, l’obiettivo del summit di Istanbul riflette la crescente distanza tra le posizioni e prevede soltanto la verifica della possibilità di tenere aperto un qualche canale di comunicazione tra l’Iran e i P5+1.

Gli Stati Uniti, su richiesta di Israele, continuano d’altra parte a chiedere condizioni inaccettabili a Teheran senza promettere nulla di sostanziale in cambio. Che le trattative in corso e sull’orlo del tracollo, così come l’intera questione del nucleare, fabbricata ad arte dall’Occidente con la complicità dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), siano solo un pretesto per fare pressioni sull’Iran in vista di un futuro cambio di regime viene ormai confermato più o meno apertamente anche dal governo americano.

Infatti, una fonte anonima interna al Pentagono ha ammesso martedì in un’intervista al New York Times che il dispiegamento di forze USA nel Golfo “non ha a che fare solo con le ambizioni nucleari di Teheran”, peraltro legittime, bensì anche “con le ambizioni egemoniche regionali” della Repubblica Islamica.

In altre parole, a guidare la politica aggressiva di Washington nei confronti dell’Iran non sono tanto le preoccupazioni, del tutto infondate, per la possibile produzione di armi atomiche, quanto le aspirazioni di questo governo a svolgere un ruolo di primo piano nella regione. Aspirazioni, quelle iraniane, che ostacolano l’espansione e il controllo assoluto da parte americana di un’area strategica cruciale che si estende dal Medio Oriente fino all’Asia centrale.

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Un’alternativa Usa – Iran al conflitto

Gaetano Colonna
www.clarissa.it, 5 luglio 2012

A poche ore dall’entrata in vigore in tutta Europa delle sanzioni contro l’Iran, pubblichiamo qui di seguito un interessante contributo della rivista specializzata in analisi strategici Stratfor che ci sembra echeggiare in modo assai documentato l’opinione di quegli ambienti statunitensi contrari ad uno scontro con l’Iran.

Troviamo di particolare rilievo il quadro generale che viene fornito in merito alla sostanziale inutilità ed ipocrisia delle sanzioni; le informazioni aggiornate qui fornite sulla linea di trattativa che l’Iran ha ormai apertamente proposto agli Usa; la convinzione che gli Usa debbano guardare altrove, vale a dire verso il teatro del Pacifico e del confronto con la Cina; l’opinione della Marina Usa, assai più preoccupata del Pacifico che dell’Iran, in merito alla “buona condotta” iraniana nel Golfo Persico.

Ovviamente, è tutto da dimostrare che questo orientamento possa effettivamente diventare la strategia delle amministrazioni Usa, soprattutto a motivo della fortissima pressione che un “partito della guerra” israelo-americano, espressione di un processo di integrazione fra le classi dirigenti dei due Paesi che data da un trentennio, sta esercitando, dalla Siria al Pakistan, verso un’ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente.

NEGOZIATI DIETRO LE SANZIONI CONTRO L’IRAN
di Reva Bahlla – Stratfor, 3 luglio 2012.

Nelle scorse settimane, l’ultima fase delle sanzioni contro l’Iran volute dagli Usa ha dominato i media. Per mesi, gli Usa hanno esercitato pressioni su numerosi Paesi affinché riducessero le loro importazioni di greggio e stanno ora minacciando le banche che prendono parte agli accordi di esportazione di petrolio con l’Iran. In accordo con la campagna statunitense per le sanzioni, l’Unione Europea dal 1° luglio ha messo in atto l’embargo contro l’Iran. Il blocco è già iniziato, col divieto ai Paesi europei di riassicurare le petroliere che trasportano il petrolio iraniano.

Apparentemente, le sanzioni sembrano equivalere, per gli Usa ed i suoi alleati, al pronunciare una sentenza di morte economica contro il regime iraniano. Essi ritengono che le sanzioni stanno privando Teheran di risorse che altrimenti sarebbero destinate a sviluppare il programma di armamento nucleare iraniano. L’opinione corrente è che il regime iraniano ha paura che una gioventù economicamente frustrata faccia rivivere la pressione del cosiddetto “movimento verde” sul punto più debole del regime.

Ma la risposta dell’Iran all’inizio delle sanzioni è stata contrassegnata da una relativa nonchalance. Contrariamente all’opinione dei fautori delle sanzioni, questo atteggiamento fa pensare che l’Iran non fermerà le sue esportazioni di greggio, né che il regime tema una sollevazioni popolare nelle vie di Tehran. Al contrario, fa ritenere che le sanzioni permettano di svolgere dietro le quinte delle trattative assai serie.

Certamente, le sanzioni applicate fino ad ora hanno complicato la vita economica quotidiana dell’Iran. Tuttavia, l’Iran è abile nell’adottare tattiche che consentono a sé ed ai propri clienti di aggirare le sanzioni ed in tal modo di attenuare gli effetti della campagna statunitense.

Una maniera con cui l’Iran aggira le sanzioni è la rete di società di copertura che rendono possibile ai commercianti iraniani di vendere sotto bandiere ombra. Per entrare nei porti, le navi mercantili devono issare una bandiera fornita da registri marittimi nazionali. Porti franchi come Malta, Cipro, le Bahamas, Hong Kong, le Seychelles, Singapore e l’Isola di Man, fanno affari vendendo bandiera e registri commerciali a imprese che cercano di evadere le tasse ed i regolamenti dei propri Paesi di origine. Gli uomini d’affari iraniani si servono relativamente poco di questi porti per cambiare bandiera, nome, proprietari e agenti registrati coi i relativi recapiti.

Il ministero del Tesoro americano è diventato più abile nell’identificare queste aziende, ma una burocrazia governativa semplicemente non è in grado di competere coi rapidi ritmi ai quali vengono create le “scatole vuote”. Diverse nuove società, operanti sotto nomi e bandiere diverse, possono essere messe in piedi nel tempo necessario ad un provvedimento legale sanzionatorio per essere abbozzato.

Molti clienti dell’Iran fanno finta di non vedere queste tecniche elusive, pur di garantirsi forniture di greggio a prezzi stracciati. Non a caso, negli ultimi mesi siamo stati subissati da notizie relative ai Paesi che stavano tagliando le loro importazioni petrolifere dall’Iran sotto la pressione degli Stati Uniti. Ma, a parte il conto della quantità di greggio assicurato e commercializzato attraverso le società ombra, il cambiamento nei flussi commerciali non è stato così grande come questi rapporti sostengono.

Gli Stati Uniti hanno esentato dalle sanzioni la Cina, Singapore, l’India, la Turchia, il Giappone, la Malesia, il Sud Africa, la Sud Corea, lo Sri Lanka, Taiwan ed i 27 membri dell’Unione Europea. Molti di questi Paesi hanno importato quantità di greggio dall’Iran più elevate della media nei mesi che hanno preceduto i loro annunci di avere tagliato le proprie forniture dall’Iran. La Cina, la Corea del Sud, l’India ed il Giappone stanno per di più cercando di coprire le petroliere con assicurazioni pubbliche al posto di quelle private, per aggirare l’ultima tornata di sanzioni. Anche se molti di questi Paesi sostengono di avere ridotto le loro importazioni di greggio dall’Iran per ottenere un’esenzione, petroliere sotto bandiera ombra che portano il greggio iraniano possono compensare ampiamente le quantità ufficialmente ridotte.

I legislatori statunitensi stanno predisponendo normative che contemplano sanzioni ancor più restrittive, nello sforzo di rintracciare le società ombra iraniane, ma l’amministrazione Usa è perfettamente consapevole della inadeguatezza di questa campagna. Infatti, mentre il Congresso sta svolgendo un grand lavoro per espandere le sanzioni, l’amministrazione Usa sembra stia preparando una lista di opzioni che potrebbero essere via via utilizzate per eliminarle, nel caso in cui si arrivasse ad una trattativa con l’Iran.

Mentre infatti le sanzioni hanno dominato le prime pagine dei giornali, un dialogo assai più sottile si è instaurato fra gli Usa e l’Iran. In un editoriale in corso di pubblicazione sul giornale di politica estera americano The National Interest, due esponenti del regime iraniano, l’analista politico Mohammed Ali Shabani e l’ex membro del gruppo di negoziazione sul nucleare Seyed Hossein Mousavian, indicano diversi punti chiave della posizione iraniana:
– gli Stati Uniti e l’Iran devono continuare a negoziare;
– le sanzioni danneggiano economicamente ma non paralizzano assolutamente il commercio iraniano;
– l’Iran non può essere sicuro che un eventuale accordo bilaterale con gli Usa sarà onorato dalla nuova amministrazione eletta a novembre;
– gli Usa devono abbandonare qualsiasi politica rivolta a determinare un cambiamento di regime a Tehran;
– Washington ha ormai poche restanti opzioni oltre all’intervento militare, che è un esito improponibile;
– l’Iran potrebbe aumentare in modo rilevante la propria pressione sugli Usa, ad esempio minacciando la sicurezza dello Stretto di Hormuz, un atto che farebbe lievitare il costo del petrolio americano.

Lo scorso 27 giugno, gli Stati Uniti hanno inviato un messaggio importante. Il comandante in capo delle operazioni navali Usa, l’ammiraglio Jonathan W. Greenert, durante una conferenza stampa al Pentagono, ha affermato che la situazione nello Stretto di Hormuz è rimasta relativamente tranquilla e che la marina iraniana si è dimostrata “professionale e cortese” con le unità americane nel Golfo Persico. Secondo Greenert, la marina iraniana ha rispettato tutte le norme che regolano le attività navali in acque internazionali. In precedenza, motoscafi veloci armati operavano provocatoriamente vicino alle unità Usa, ma ciò non è più accaduto di recente, ha detto Greenert. È difficile credere che Greenert abbia potuto rilasciare una simile dichiarazione senza il beneplacito della Casa Bianca.

Quando l’Iran ha aperto l’anno con esercitazioni militari che evidenziavano la minaccia che potrebbe esercitare sullo Stretto di Hormuz, Stratfor ha indicato il quadro essenziale delle relazioni fra Usa e Iran. Entrambi i Paesi hanno definito le proprie “linee rosse”. L’Iran mette in rilievo la possibilità di chiudere lo Stretto di Hormuz o di far esplodere un’arma nucleare. Gli Usa spostano le proprie portaerei nel Golfo Persico, minacciando un attacco militare. Ognuno ricorda all’altro la rispettiva “linea rossa”, ma ambedue se ne tengono lontani, semplicemente perché le conseguenze di un loro superamento sarebbero troppo gravi.

La situazione impone un accordo più ampio. Negli ultimi dieci anni, Iran e Stati Uniti hanno lottato nell’ambito di negoziati per raggiungere questo accordo. Nel cuore del problema si trova l’Iraq, un punto assai vulnerabile sul fianco occidentale dell’Iran, qualora fosse sotto l’influenza di una potenza ostile, ed al tempo stesso ricco punto vendita di energia iraniano rivolto al mondo arabo. Gli Usa devono cercare di tenere un piede in Iraq ma ci sono pochi dubbi sul fatto che l’Iraq si trova ora nella sfera d’influenza iraniana. Con un Iraq ormai di fatto concesso all’Iran, le altre componenti del negoziato sono in gran parte ridotte a questioni di atmosfera.

Il maggiore deterrente in mano all’Iran rimane la minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz. La capacità di esercitare una pressione sugli stretti consente all’Iran di avere spazio per negoziare sul proprio programma nucleare. Ovviamente, gli Usa preferirebbero che l’Iran abbandonasse le proprie ambizioni nucleari e continueranno i propri sforzi per bloccare il programma, ma un Iran nucleare potrebbe in definitiva essere tollerato fintantoché Washington e Tehran concordano nel permettere il libero flusso del petrolio nello stretto. Qualsiasi cosa, dalla campagna Usa per le sanzioni, alle operazioni coperte statunitense a sostegno dei ribelli siriani, al programma nucleare, diventa negoziabile.

Come sostengono gli iraniani, è stato creato un percorso che ha creato una soluzione “per salvare la faccia”, permettendo a entrambi di abbandonare il dialogo senza perdere prestigio davanti ai propri elettori, ma ciò richiederebbe anche il sacrificio di alcuni punti di forza guadagnati nel corso del negoziato.

Con soltanto quattro mesi di tempo prima delle elezioni Usa, è difficile pensare che questo negoziato possa assumere il carattere di un accordo strategico fra Washington e Tehran. Tuttavia, sarebbe difficile ignorare misure capaci di costruire una fiducia, fondamentale in un momento nel quale nessuna delle due potenze vuole oltrepassare la propria “linea rossa”: l’Iraq è più o meno una questione secondaria e gli Stati Uniti stanno tentando di rifocalizzarsi fuori dal Medio Oriente.