La scuola che merita

Giuliano Ligabue
www.confronti.net

Invece di dare segnali chiari di un cambiamento di rotta, dopo anni di tagli sulla scuola, il governo dei tecnici ha aperto una discussione su merito e competizione. Ma innanzitutto va garantito il diritto allo studio, che non ratifichi le disuguaglianze ma ne rimuova le cause. L’eccellenza non deve essere per pochi, ma diffusa. L’istruzione va orientata all’inclusione e al confronto, deve essere democratica, pluralista e multiculturale.

Dagli inizi dello scorso giugno si è tornati a parlare di scuola, ogni giorno e in ogni sede. Non avveniva da tempo. Il governo preannunciava un decreto legge per valorizzare merito ed eccellenze scolastiche in base a sistemi premiali, misure selettive e criteri riguardanti la media dei voti, l’impegno sociale, il reddito famigliare… Il decreto, in quanto tale, poneva limiti all’analisi e al dibattito parlamentare; d’altra parte non ci si era nemmeno premurati, prima, di aprire una consultazione e un confronto pubblico sui ventilati provvedimenti, almeno con coloro che di scuola sanno perchè da sempre vi lavorano.

Così, dopo avere assistito per anni a tagli degli investimenti, all’aumento degli alunni per classe, ad accorpamenti insensati di plessi, alla riduzione del numero degli insegnanti, a meno ore di lezione e meno strutture didattiche, il nostro governo di tecnici non si poneva minimamente il problema della necessità di un intervento radicale che fosse in discontinuità con le «riforme» aziendalistiche della Moratti e della Gelmini, ma dava la stura a un gran parlare di merito, di eccellenze, di competizione, di Olimpiadi del sapere, di studente dell’anno…

Evidentemente il ministro Profumo non ha presente come ogni nuovo intervento sulla scuola, per risultare significativo, deve collocarsi in un ben più ampio disegno che mantenga fisse alcune priorità: il diritto allo studio per tutti, rimuovendo le cause di una «selezione naturale»; la lotta alla dispersione scolastica, già a partire dalla scuola primaria; il prolungamento dell’obbligo a 18 anni; la revisione del curricolo di studi in senso verticale, per competenze di cittadinanza attiva e non più per programmi; la qualificazione professionale dei docenti; l’incremento della ricerca disciplinare e didattica. Priorità ineludibili e non buoni desideri, che richiedono adeguate risorse umane e investimenti economici, non certo un impegno «complementare» (così il ministro) di alcune decine di milioni.

Ma restando anche soltanto sui concetti di merito e di eccellenza, qualcosa va puntualizzato.

Il merito. Non si dà vero merito se non è conciliato, innanzitutto, con il diritto allo studio. Questo è il senso dell’articolo 34 della Costituzione che accoglie il criterio del merito purchè sia accessibile anche a chi non ha mezzi di partenza. Il termine stesso di merito è ambiguo se può inglobare indistintamente l’impegno con il talento naturale e il privilegio sociale (la famiglia, il territorio, il tipo di scuola). Nella quotidiana attività didattica, poi, la competizione per il merito rischia di trasformarsi in un incoraggiamento a essere bravi soltanto per se stessi, a guardare solo davanti a sé e mai chi sta al proprio fianco. Dovrebbe essere, invece, una rincorsa che valorizza intelligenze e capacità nella loro diversità; quella in cui, se c’è da competere, lo si fa verso le difficoltà del percorso che si ha davanti e verso i propri limiti.

L’eccellenza. Il suo perseguimento può risultare costruttivo, indubbiamente. Ma c’è, anche qui, da garantire un presupposto: che l’eccellenza possa essere diffusa. Non ci deve essere eccellenza per pochi, solo in alcuni luoghi e solo per alcune competenze; devono essere generalizzate le condizioni per il suo accesso; ognuno deve avere la possibilità di proporsi come il migliore. Ciò significa che non si danno vere eccellenze senza l’innalzamento del livello di tutti. Nella pratica, il gruppo classe nel suo insieme deve diventare un organismo vivo, capace di fertilità; diversamente l’obiettivo dell’eccellenza può farsi foriero di disastri: di conflitti, di invidie, di rifiuto della diversità. In ogni caso i criteri del premio, dei crediti e delle medaglie restano soltanto misure retributive che non valorizzano le vere eccellenze individuali; misure e non altro; oltretutto anacronistiche.

Come si vede, un «decreto sul merito» può riportare la riflessione sulla visione complessiva che si ha della scuola. E qui sta un primo suggerimento che si può dare al governo, se è davvero volenteroso: apra un dibattito pubblico sulla scuola della Repubblica, sulla sua natura e le sue finalità. Faccia capire qual è la scuola che merita. E la garantisca. Per noi è quella che non perde nessuno, che non ratifica le disuguaglianze, che è fattore di promozione per tutti, che dà senso alle esperienze individuali, che orienta l’istruzione alla partecipazione e all’inclusione, che apre il confronto con gli altri mondi. Pluralista e multiculturale, è luogo dove la democrazia è dialogo e confronto, dove è diffuso il desiderio di sapere e si ha fiducia nella capacità del sapere di trasformare tutto. Luogo da dove escono teste ben fatte, prima ancora che teste piene.

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Salvemini e la scuola laica

Paolo Bonetti
www.italialaica.it, 7 luglio 2012

Ho scritto, qualche settimana fa, un editoriale sulla scuola laica, nel quale ricordavo uno dei maestri del laicismo italiano del Novecento, Guido Calogero. Il tema è sempre attuale, perché sempre incombenti sono le minacce nei confronti della scuola pubblica, che è, almeno in Italia, l’unica scuola che possa dirsi davvero laica, l’unica che, nonostante l’abbandono in cui è stata lasciata per decenni da tutti i governi che si sono succeduti, introducendo riforme che sono state, in realtà, controriforme, è in grado, ancora oggi, di preparare i giovani a vivere responsabilmente in una società pluralista. L’ultima minaccia si sta concretizzando proprio nel momento in cui scrivo questa nota, con il governo Monti riunito per decidere sui tagli da fare alla spesa pubblica per cercare di rimettere in sesto il bilancio del paese. Ma, come quando si trattò di imporre nuove tasse, il governo dei professori dimostrò uno scarsissimo senso dell’equità, andando a colpire pesantemente i soliti noti ed evitando accuratamente di introdurre una patrimoniale sui redditi maggiori, anche adesso, che si tratta di tagliare la spesa pubblica, non si colpiscono i settori davvero parassitari della pubblica amministrazione, ma si alza la scure sui servizi sociali, in particolare sulla sanità e sulla scuola. Per quel che riguarda la scuola poi, pare che si vogliano tagliare i fondi all’università e agli istituti di ricerca e, nel contempo, regalare altri soldi alle scuole private, che in Italia sono quasi esclusivamente cattoliche e, il più delle volte, perseguono finalità speculative assai più che culturali ed educative. Staremo a vedere, ma se le anticipazioni dei giornali dovessero essere confermate, saremmo di fronte a una nuova scandalosa prevaricazione ai danni dell’istruzione pubblica operata da un governo che, mascherato da “tecnico”, ogni giorno di più si rivela al servizio di ben precise e non condivisibili opzioni politiche.

Dopo quelle di Guido Calogero, vorrei questa volta ricordare le parole che sulla scuola laica e sulla laicità pronunciò un altro grande esponente del laicismo italiano del secolo scorso, Gaetano Salvemini, storico e meridionalista, socialista riformista ma indipendente nei confronti di ogni partito, fondatore di una rivista, “l’Unità”, che pesò molto nella cultura politica italiana del primo Novecento. Salvemini era stato fra i fondatori della Federazione Nazionale Insegnanti Scuole Medie ed ebbe sempre grande attenzione per i problemi educativi, anche durante gli anni dell’esilio, prima in Francia e poi negli Stati Uniti, dove dovette rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Le parole che sto per riferire appartengono a un discorso che egli pronunciò più di un secolo fa, nel settembre del 1907, in un congresso della federazione alla cui nascita aveva largamente contribuito. In una società in cui era venuto meno il monopolio culturale di un’istituzione religiosa che lo aveva esercitato per quasi due millenni, “le scuole mantenute col denaro pubblico – egli disse- non possono essere messe al servizio di nessuna credenza religiosa, e gli insegnanti delle scuole pubbliche devono essere assolutamente autonomi da ogni controllo di autorità ecclesiastiche”. Ribadiva poi che la Chiesa cattolica è soltanto un’associazione privata, anche se “tende ad espandersi in luogo dello Stato, ad asservire a sé lo Stato, a impadronirsi di tutti gli organi dello Stato, compresa la scuola”. Ma – aggiungeva subito- “questa tendenza è comune a tutte le organizzazioni religiose e a tutti i partiti politici”, che vorrebbero fare della scuola uno strumento di indottrinamento al servizio delle loro particolari concezioni della società e dei rapporti umani. Nella scuola pubblica e laica, l’indipendenza degli insegnanti, non solo dalla Chiesa cattolica ma da ogni altra organizzazione religiosa o secolare, deve essere salvaguardata a ogni costo: “laicità della scuola pubblica e indipendenza della magistratura sono due principi analoghi, senza il cui rispetto lo Stato rappresenterebbe la più intollerabile e la più odiosa delle tirannie”.

Questo significa, forse, che la scuola laica è una scuola che si limita ad inculcare delle nozioni, una scuola che si mantiene neutrale e asettica nei confronti di tutte le fedi, filosofie, ideologie e morali? L’insegnante che si ispira ai principi della laicità deve essere, necessariamente, un animale a sangue freddo, senza convinzioni e senza ideali, un uomo arido che non riesce a connettere cultura e vita, cultura e società? La risposta di Salvemini è netta e appassionata: la scuola laica non è una scuola freddamente agnostica, i suoi insegnanti, per essere davvero tali, debbono avere principi e convinzioni, partecipare alla vita sociale portando in essa il calore e la forza dei loro ideali. Non possono essere buoni insegnanti se non sono, prima di tutto, uomini interi. Nella scuola, però, il loro compito non è quello di indottrinare e di convincere con gli slogan e la facile emotività, ma, qualunque sia l’argomento trattato (e tutti gli argomenti debbono avere libero ingresso nella scuola pubblica), il loro dovere è insegnare agli alunni che tutte le questioni debbono essere affrontate con metodo critico e razionale, senza indulgere a pregiudizi e tabù. Un buon insegnante non deve nascondere le sue convinzioni, ma deve anche essere ben consapevole che non ha alcun diritto di imporre le sue credenze, religiose, atee o agnostiche che siano, ai propri alunni. Scuola e vita non sono separate, ma la scuola (e questo lo può fare soltanto una scuola autenticamente laica) deve educare ad accettare la diversità delle opinioni e dei costumi, a non aver paura delle differenze e degli inevitabili conflitti, evitando la loro degenerazione violenta. Le parole di Salvemini suonano ancora oggi sorprendentemente attuali: “Ascoltino i nostri alunni le voci che rumoreggiano fuori della scuola. Siano educati a ben vivere, non nell’ignoranza dei problemi fondamentali della vita, non nell’indifferenza incolore, opportunista e vile, ma nella conoscenza di quei problemi, nel desiderio della verità razionalmente acquistata e razionalmente comunicabile, nell’avversione a ogni dogma indimostrato e ad ogni intolleranza settaria”.