Afghanistan, l’assordante silenzio delle bombe italiane

Emanuele Giordana – Lettera22
www.lettera22.it

La guerra, forse, è anche un fatto di abitudine. Ci si abitua ai morti, dunque anche alle bombe. La notizia che gli Amx italiani hanno bombardato, probabilmente molte volte, la provincia di Farah, riportata una settimana fa dal Sole24Ore, non ha suscitato grandi polemiche. Anzi, nessuna. Un silenzio assordante assai simile a quello che seguì le dichiarazione di Giampaolo Di Paola nel gennaio scorso, quando al ministro ammiraglio in abiti civili riuscì quello che al ministro civile in divisa Ignazio La Russa non era riuscito: nel novembre del 2010 aveva incautamente proposto di armare i nostri aerei in Afghanistan. Allora ci fu una levata di scudi. Adesso nulla.

Abbiamo appreso che non si tratta di giocattolini ma di bombe da 250 chili (500 libbre), ma la vera notizia è il silenzio che ha circondato la vicenda. Scritta da Gianandrea Gaiani (direttore di Analisi Difesa) per il giornale di Confindustria, la notizia gli viene riferita da fonti anonime che obbligano però il generale Luigi Chiapperini, comandante della missione in Afghanistan, a confermarla a una giornalista di Libero che si trova con altri colleghi “embedded” a Camp Arena, la base militare Nato di Herat sotto comando italiano. A Camp Arena si erano ben guardati però dall\’avvisare i colleghi delle operazioni in corso.

Ma una volta denudato il re, le conferme piovono come l’acqua: dal comandante della Task Force South, colonnello Francesco Paolo D’Ianni (su Cybernaua.it) a Francesco Tirino, portavoce del contingente italiano in Afghanistan, che candidamente spiega a E-il mensile che le missioni si sarebbero addirittura «moltiplicate» nelle ultime settimane con il «lancio dell’operazione Shrimp Net». Ancora Chiapperini conferma al Giornale «che i bombardamenti sono iniziati subito dopo il 28 gennaio» con il via libera del ministro Di Paola. Mancava solo la voce ufficiale dello Stato maggiore della Difesa (vedi intervista a fianco) su una vicenda a dir poco controversa e che sembra far carta straccia, nel silenzio più assoluto, delle prerogative del parlamento. Tutto comincia il 18 gennaio scorso.

Il protagonista è l\’ammiraglio Di Paola, l’autore di una riforma del sistema di Difesa contro cui è stata scatenata la campagna “Tagliamo le ali alle armi”, forte di 75mila mail inviate ai parlamentari perché si sveglino sulle intenzioni del ministro. Si presenta a una sessione congiunta di Camera e Senato con un linguaggio sibillino: «Intendo far sì che i nostri militari e tutti i loro mezzi schierati in teatro siano forniti delle dotazioni e capacità necessarie a garantire la massima sicurezza possibile del nostro personale e dei nostri amici afgani e alleati…». Nessuno obietta. Qualche giorno dopo però una nota dell’Ansa – è il 28 gennaio – spiega che «le bombe andranno sugli Amx italiani, ma non sui predator».

Poi Di Paola va oltre: «Tutti i mezzi che abbiamo verranno utilizzati sulla base di tutte le loro capacità, perché noi abbiamo il dovere oltre che il diritto di difendere i nostri militari, i nostri amici afgani e i nostri alleati … i predator italiani non hanno queste capacità e quindi non le possono usare». Di Paola si guarda bene dall\’usare la parola “bombe” ma qualcuno se ne accorge lo stesso: la frase non piace al senatore Pd Marco Perduca che (con la radicale Poretti e gli Idv Pedica e Caforio) propone un ordine del giorno che impegni il governo «a rimettere al Parlamento la decisione sull’uso di ordigni bellici a caduta libera o guidata da parte dei velivoli dell\’Aeronautica militare italiana impiegati in Afghanistan». L’Odg però non viene accolto.

Cala il sipario fino a luglio, quando “esplode” la notizia proprio mentre è in corso il vertice di Tokyo sull’Afghanistan. La rete «Afgana» rileva come il governo giochi una partita «bifronte»: a Tokyo l’Italia si spende per la pace e i diritti di donne e società civile mentre a Farah bombarda. Flavio Lotti, della Tavola della pace, che già in gennaio si era infuriato e che, proprio nei giorni scorsi, ha incontrato i responsabili del Pd delle commissioni di esteri e difesa di Camera e Senato, chiede loro ufficialmente di fare un’interrogazione al ministro.

«Ma – dice oggi – finora non ho registrato nessuna azione, se non, quel giorno, un discreto imbarazzo. Se è questo quello che facciamo in Afghanistan, credo che sia la goccia che fa traboccare il vaso. Bisogna ritirare immediatamente i nostri soldati anche perché, a quanto pare di capire, questi bombardamenti non sono un novità». Lo dice anche il generale Mini, autore di “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?”. «Bombardiamo con gli Amx? Se è per quello, gli elicotteri Mangusta possono fare anche più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un\’operazione con 60 “insorti” uccisi. Non erano Amx ma elicotteri».

Secondo Mini «a quanto sembra di capire gli americani hanno fatto la voce grossa con gli alleati. Hanno chiesto di dimostrare unità di intenti. Ecco la risposta: per dimostrare loro che l’Italia c’è». Gli chiediamo cosa ne pensa della voce secondo cui il ministro Di Paola, che ha già un passato Nato alle spalle, concorrerebbe volentieri per la poltrona del dopo Rasmussen. «Se fosse davvero così – risponde – allora altro che venir via presto…. Vorrebbe dire che dovremmo rimanere anche dopo il 2014. Perché un italiano diventi segretario generale della Nato bisogna offrire in cambio qualcosa».

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Se le spese militari volano alto

Annachiara Valle
www.famigliacristiana.it

«La nostra presa di posizione per “tagliare le ali alle armi” non è ideologica, ma si basa su analisi concrete e sui numeri». Francesco Vignarca, della Rete italiana per il disarmo, snocciola le cifre presentando, insieme con Giulio Marcon, campagna Sbilanciamoci! e Flavio Lotti, Tavola della pace, la «finta riforma e i finti risparmi della Difesa e per dire no all’acquisto degli F35».

Nella sala Nassyria del Senato, all’ombra della targa che ricorda i caduti italiani nell’operazione “Antica Babilonia” in Irakq, i tre coordinatori della campagna contro i cacciabombardieri parlano delle 75mila firme di cittadini, 660 associazioni, 85 enti locali che sostengono i tagli alle spese militari. «Le adesioni aumentano di ora in ora», spiega Vignarca. Aggiungendo che «il nostro è un cammino portato avanti dal 2009, con la campagna “Caccia al caccia”. Oggi consegnamo virtualmente le firme a Montecitorio e diciamo ancora una volta ai cittadini come stanno le cose. Nessun contratto per l’acquisto dei cacciabombardieri è ancora stato controfirmato. Intanto però sono lievitati del 42 per cento i loro costi.

Con questi acquisti, compreso l’indotto, si potranno creare 2.500 posti di lavoro, ma con i 129 milioni di euro (il costo di un solo F35) si potrebbero aprire 387 asili nido con 3.500 posti di lavoro».

Le migliaia di firme giunte con ogni mezzo «hanno infastidito più di un parlamentare», ha aggiunto Flavio Lotti. «I cittadini che dicono la loro sul fatto che, per esempio, il ministero della Difesa vorrebbe una maggiore autonomia di spesa avendo già la possibilità di gestire in proprio il 30 per cento del bilancio, a fronte del 3 per cento degli altri ministeri, non è andato giù anche ad alcuni senatori che hanno persino obiettato alla legittimità che le proteste arrivassero via mail nelle loro caselle».

Il punto, ha aggiunto Giulio Marcon, «è che si è coraggiosi con i tagli ai pensionati e pusillanimi con i generali. Abbiamo un servizio civile massacrato dai tagli e un welfare che sta scomparendo. Con una minima parte dei soldi risparmiati con le spese militari si potrebbero salvare posti letto negli ospedali, risolvere la questione degli esodati, mettere in sicurezza oltre diecimila scuole che non rispondono ai criteri della 626, creare più posti di lavoro».

I Comuni e gli enti locali sono i primi «a subire la pressione di questo momento di crisi e a fare i salti mortali per mantenere i servizi. È anche per questo che abbiamo firmato così in tanti», ha aggiunto a nome di Comuni e Province, Federico Montanari, consigliere comunale di Reggio Emilia. «Richiamare alla nonviolenza è strategico per il futuro delle nostre città e del nostro Paese. Chi dice che questa è un’utopia o non ha capito nulla o è in malafede».
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