Alla guida del Messico il presidente scelto dalla TV. Ma il centrosinistra impugna i risultati

Claudia Fanti
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Prima ancora delle elezioni messicane del 1° luglio scorso, Enrique Peña Nieto, candidato del Pri (Partito rivoluzionario istituzionale), aveva già vinto. Imposto alla guida del Paese dal duopolio televisivo costituito da Televisa e Tv Azteca, puro prodotto di marketing fabbricato dalle élites per garantirsi la permanenza al potere, il “presidente telenovela”, incapace persino di indicare correttamente, durante una sua visita alla Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, i suoi tre libri preferiti, aveva di fronte a sé una strada completamente spianata. E, ciononostante, ha superato il candidato del centrosinistra Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, di neanche 7 punti, 38.15% contro 31.64% (nei sondaggi era stato avanti anche di 20 punti), in attesa di conoscere il risultato del riconteggio di circa il 55% dei voti, disposto dall’Istituto Federale Elettorale dopo l’impugnazione dei risultati da parte del candidato di centrosinistra.

Una rimonta, quella di Amlo, detto anche el Peje (dal nome di un pesce di fiume che evoca doti di intelligenza e astuzia), che si deve in gran parte all’irruzione del movimento studentesco, ma che va ricondotta anche all’intenso e capillare lavoro svolto dal candidato di centrosinistra lungo tutto il territorio messicano (con tanto di creazione di circoli di studio sulla problematica politica, sociale ed economica locale e nazionale), attraverso la nascita del Movimento per la rigenerazione nazionale (Morena), costituito da semplici cittadini molto più che da militanti di partito.

Solo terza, con il 25% dei voti, Josefina Vázquez Mota, la candidata del Pan, il Partito di Azione Nazionale al governo negli ultimi 12 anni, la cui débâcle si è riflessa anche nelle elezioni per il rinnovo del Congresso e di sei governi statali, avendo, tra l’altro, perso il potere in Jalisco, Chiapas, Tabasco e Yucatán a favore del Pri e in Morelos a favore del Prd (il Partito della Rivoluzione Democratica che è parte della coalizione che sostiene Amlo), il quale ha anche stravinto nella capitale, dove il suo candidato Miguel Mancera ha ottenuto oltre il 60% dei voti.

Dopo la disastrosa parentesi del Pan – funestata non solo dall’aumento della dipendenza dall’estero e dalla crescita della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali, ma anche dai 60mila morti che hanno insanguinato il sessennio di Felipe Calderón nel quadro della guerra contro il narcotraffico – il potere torna così nelle mani del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale che lo aveva esercitato ininterrottamente per 71 anni, meritandosi la definizione di “dittatura perfetta”.

E ci torna – per quanto senza maggioranza assoluta alla Camera dei deputati e al Senato – grazie al suo ben oliato apparato clientelare, con il consueto contorno di irregolarità di ogni tipo, a cominciare dalla massiccia compravendita di voti consumatasi durante la campagna elettorale, a cui Amlo ha per l’appunto reagito impugnando i risultati delle elezioni. Lo aveva fatto, del resto, anche nel 2006, quando, al termine di elezioni chiaramente fraudolente, la vittoria era stata infine assegnata, con una differenza dello 0,56%, a Felipe Calderón, il candidato sostenuto dall’oligarchia e dalla gerarchia ecclesiastica (v. Adista n. 53/06). Prima ancora, nel 1988, ai tempi della “dittatura perfetta” del Pri, era stata la volta della gigantesca frode messa in atto da Salinas de Gortari ai danni del candidato di centrosinistra Cuauhtemoc Cardenas.

Primavera messicana

Contro la vittoria anticipatamente decretata del candidato del Pri si è battuto fino all’ultimo il movimento studentesco “Yo Soy 132”, che, apparso prepotentemente alla ribalta politica lo scorso maggio in quella che è stata non a caso definita come “Primavera messicana”, è sembrato, in meno di due mesi, scuotere da cima a fondo il sistema politico messicano, fino a rendere certamente meno agevole la passeggiata di Peña Nieto verso il trionfo annunciato. Tutto era cominciato con la contestazione studentesca al candidato priista durante la sua visita all’Università Iberoamericana, una delle università private più prestigiose del Paese, l’11 maggio scorso, quando Peña Nieto – che i giovani ritengono colpevole, all’epoca in cui era governatore dello Stato di Messico, della brutale aggressione a San Salvador Atenco, nel 2006, contro chi si opponeva alla costruzione di un areoporto – era stato costretto a fuggire poco onorevolmente dall’uscita posteriore.

Ignorati totalmente dai mezzi di comunicazione e accusati dalla dirigenza del Pri di essere stati assoldati fuori dall’università dal candidato di sinistra, gli studenti non hanno perso tempo, facendo circolare su You Tube un video, che ha ricevuto in poco tempo più di un milione di visualizzazioni, in cui 131 giovani contestatori mostravano, tesserini alla mano, di far parte proprio dell’Iberoamericana e spiegavano le ragioni della propria opposizione al candidato del Pri. Da allora, un’enorme quantità di giovani si è unita alla protesta al grido di «Yo soy 132», rivendicando, nel corso di massicce manifestazioni in tutto il Paese, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione e la necessità di cambiamenti non solo sul terreno elettorale, ma anche su quello della guerra al narcotraffico, delle politiche sociali e del modello economico.

I vescovi sono contenti

Un capitolo a parte spetta all’istituzione ecclesiastica (tradizionalmente vicina al Pan), accusata da organizzazioni civili e associazioni religiose di orientare il voto contro partiti e candidati discosti dalle sue posizioni in materia di aborto e di matrimonio tra omosessuali, peraltro due degli undici punti contenuti nei “Principi per illuminare la coscienza dei fedeli cattolici e delle persone di buona volontà” presentati dall’arcidiocesi di Città del Messico prima delle elezioni.

Un appello di ben diverso tenore è venuto invece dall’Osservatorio Ecclesiale e dalle Chiese per la Pace, attraverso un “Pronunciamento etico di Chiese, organizzazioni e persone di fede”, in cui si chiedeva ai candidati presidenziali di impegnarsi, tra altre cose, a realizzare una riforma strutturale delle istituzioni, a difendere la laicità dello Stato assicurando parità di trattamento a tutti i cittadini e le cittadine senza distinzioni di fede, razza, genere e orientamento sessuale, a garantire l’accesso a un’educazione integrale, gratuita, laica e di qualità, a dar vita a un nuovo modello di sviluppo e a cambiare radicalmente «l’errata politica del governo che ha militarizzato il Paese e generato un clima di estrema violenza», una politica che, come scrive su Popoli (28/6) il gesuita Alfredo Zepeda, ha assunto «le sembianze di un confronto tra le mafie del narcotraffico e il narcogoverno».

Viva soddisfazione è stata espressa dall’episcopato messicano, che, in un comunicato, ha elogiato con forza, non tenendo evidentemente in alcun conto le accuse di brogli, «l’esemplare partecipazione dei cittadini alle elezioni»: «Ci colma di gioia – scrivono i vescovi – che si riconosca nella democrazia un cammino privilegiato per conquistare la pace, la giustizia e lo sviluppo a cui tanto anelano i messicani». Come pure «ci rallegra constatare che il nostro appello a recarsi alle urne in modo cosciente e libero sia stato ascoltato dai fedeli cattolici e da molti uomini e donne di buona volontà nella nostra Patria».

E ugualmente soddisfatto per l’esito delle elezioni è sembrato il nunzio apostolico in Messico Christophe Pierre: «Penso – ha dichiarato a Radio Vaticana (3/7) – che la vittoria del Pri non rappresenti il ritorno del vecchio partito, perché i tempi sono cambiati. Vedo questo cambiamento come un’alternanza, che è il risultato della vita democratica. Ritorna un partito che sarà senz’altro diverso». Un’opinione che non tutti nella Chiesa sono disposti a condividere se è vero che, per esempio, secondo il gesuita Javier Ávila, presidente della Commissione di Solidarietà e Difesa dei diritti umani, «Enrique Peña Nieto è il nuovo volto della stessa corruzione, opportunista e senza cervello».

Ma dal nunzio è arrivata anche una buon parola per il presidente uscente: «Il governo di Calderón negli ultimi sei anni ha fatto uno sforzo immenso per lottare» contro povertà, narcotraffico e violenza, ma generando «scontento e insoddisfazione, perché non si è riusciti a risolvere l’emergenza. Penso, però, che non sia facile trovare altre soluzioni».