È italiano chi nasce in Italia

Jolanda Bufalini
l’Unità | 12.07.2012

L’Istat ha presentato la ricerca “I migranti visti dai cittadini”. Per il 72% degli intervistati «chi è nato in Italia deve avere la cittadinanza». Il 90% condanna le discriminazioni a scuola e sul lavoro Secondo il sondaggio però agli italiani deve essere riservata la precedenza per assunzioni e affitti.

Un quadro in chiaroscuro, lo definisce il ministro Fornero, sul cui intervento nella sala polifunzionale delle Pari Opportunità pesano i pesanti tagli appena inflitti al ministero. Un ritratto in movimento per il ministro Andrea Riccardi, per il quale il report Istat sui “migranti visti dai cittadini” mostra «l’evoluzione di una mentalità collettiva».

Effettivamente uno degli aspetti più interessanti dell’indagine è la diversa modulazione della valutazione della presenza degli immigrati in Italia, a seconda dell’età e del tipo di rapporto.

A cominciare dalla conoscenza diretta: il 38,4 per cento del campione fra i 18 e i 74 anni conosce immigrati perché sono colleghi di lavoro, il 32,1 ha un amico immigrato; per l’11,6 % c’è un membro della famiglia di origine straniera e per quasi il 10% c’è un compagno/a di scuola o di università. Un grado di compenetrazione nei luoghi di lavoro e di studio che probabilmente spiega la percentuale straordinariamente alta degli italiani che sono favorevoli al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati: 72,1%.

Gli italiani sono, invece, in maggioranza contrari al diritto di voto amministrativo per gli immigrati che risiedono in Italia da alcuni anni ma non sono cittadini: la media dei favorevoli al voto è 42,6% ma, se si suddivide il campione per classi di età, si vede che il 46,5% dei giovani fra i 18 e i 34 anni è favorevole al voto amministrativo mentre solo il 38% degli anziani fra i 65 e i 74 anni non è contrario. Analoghe le percentuali sul diritto di cittadinanza, la stragrande maggioranza del campione è favorevole (91,4%), per ottenerla il 38% degli intervistati pensa che dovrebbero essere sufficienti 5 anni di soggiorno regolare, per il 42 gli immigrati dovrebbero aspettare 10 anni.

La vicinanza sul posto di lavoro e di studio influisce sulla percezione di atteggiamenti discriminatori verso gli immigrati. L’80% ritiene infatti che per gli stranieri la vita è più difficile a causa di questi comportamenti e quasi il 90% ritiene «ingiustificabile» prendere in giro uno studente, trattare meno bene un lavoratore perché straniero, per il 72 per cento non è giusto «assumere un dipendente senza riconoscere le qualifiche richieste » e per il 63% non è giustificabile non dare in affitto la casa «perché immigrato ».

Appare contraddittorio con questi modi di pensare il fatto che la maggioranza degli italiani ritengono che in tempi economicamente difficili si debba dare lavoro prima agli italiani e che, a parità di requisiti, la casa popolare debba essere assegnata prima agli italiani.

A commento di questi dati il presidente dell’Istat Enrico Giovannini invita a completare il quadro con le altre ricerche Istat sul tema dell’immigrazione: «quando vediamo che il reddito medio degli immigrati è la metà di quello degli italiani e che il 40% dei figli degli immigrati lascia in anticipo la scuola, ci rendiamo conto che stiamo disseminando mine sociali che prima o poi rischiano di scoppiare».

E il ministro dell’integrazione Riccardi spiega che l’Italia è in mezzo al guado di una «radicale trasformazione del nostro mondo». L’immigrazione – dice – «è una questione nazionale di importanza pari a quella che fra nel XIX e XX secolo investiva i confini, allora si trattava di territori, ora si tratta di popolazioni».

La popolazione che suscita maggiore diffidenza negli italiani è quella rom/sinti. I matrimoni misti sono ben visti ma il discorso cambia quando si tratta della propria figlia, l’85 per cento degli intervistati «avrebbe molti o qualche problema » se la ragazza sposasse un rom, se il promesso sposo fosse un romeno il 69 per cento manifesta le stesse perplessità.

Se si allarga la prospettiva, però, il 60% considera positiva la presenza degli immigrati in Italia perché «permette il confronto fra le culture». Percentuale che fra i giovani crese al 66%. Elevate le percentuali di coloro che temono un incremento del terrorismo e dei reati, il degrado dei quartieri e il fatto che gli stranieri «tolgono lavoro agli italiani». La diversità religiosa non costituisce un problema ma il 41 per cento non vorrebbe una moschea vicino casa.

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L’intolleranza morbida

Adriano Prosperi
la Repubblica | 12.07.2012

“L’Italia ha iniziato un percorso di guerra durissimo – ha detto ieri il presidente Mario Monti – una guerra contro i pregiudizi diffusi”. Si riferiva a quelli sugli italiani e sull’affidabilità finanziaria del paese. Chissà se qualcuno degli ascoltatori, nella sala del convegno dell’Associazione bancaria italiana, ha pensato per un attimo ai pregiudizi e alle discriminazioni degli italiani verso gli “altri”.

Il mondo del pregiudizio diffuso e della discriminazione legalizzata dovrebbe richiedere qualche attenzione da parte di un governo degno di questo nome. La minaccia latente dei conflitti identitari del mondo attuale può essere tollerabile in condizioni normali, ma diventa devastante quando la violenza dello sfruttamento e il vilipendio dei diritti umani sono lasciati liberi di scatenarsi.

Secondo i più aggiornati rapporti periodici dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) il fenomeno della discriminazione razziale è in forte crescita in Italia. Lo documenta una fitta serie di rilevazioni che riguardano l’accesso ostacolato o negato ai diritti primari di lavoro, casa, sanità, istruzione.

Nei primi mesi del 2012 gli episodi accertati hanno superato il totale dell’anno precedente. Sono storie che nella statistica generale appaiono ripetitive, quasi incolori. Ma basta entrare in una vicenda, incontrare un volto, un nome nella cronaca dei quotidiani, per rivelare ai più distratti in quale contesto siamo immersi, quale sia l’aria che respiriamo.

Si pensi al caso recentissimo della piccola Blessed, promossa a Castel Volturno in prima elementare con tutti dieci, che non vedrà la pagella perché i genitori, privi del permesso di soggiorno, hanno paura a presentarsi in scuola per ritirarla.

Sono tante le vicende come questa: storie di studenti figli di immigrati ma nati e cresciuti qui che si sentono dire dagli insegnanti: “Sei più bravo degli italiani”: e imparano così sulla loro pelle che da noi vige una legge razzista della cittadinanza come privilegio del sangue. Una legge che nemmeno gli appelli del presidente della Repubblica Napolitano hanno convinto le forze politiche e il governo a modificare.

Di fatto i percorsi sociali deputati all’integrazione sociale e alla educazione ai diritti di cittadinanza, svolgono spesso il loro compito alla rovescia, lasciando ferite quotidiane nell’esperienza e nella mentalità di quei milioni di italiani di fatto che la legge e la mentalità corrente continua a definire non italiani.

Questa è sempre più la realtà quotidiana di un’Italia dove una intolleranza morbida, quasi inconsapevole, frutto di ignoranza e di pregiudizio, esplode solo eccezionalmente in forme di razzismo conclamato e violento: un’Italia dove però vige un sistema che garantisce una discriminazione deliberata, utilizzabile a piacere a scopo di sfruttamento, di lavoro o sessuale che sia.

Da noi, ricordiamolo, c’è un’antica vetta emergente di razzismo duro, banalmente quotidiano ma all’occorrenza spietato: è quello che riguarda gli zingari. E qui ci sono i delitti della gente per bene, come quelle famiglie che a Napoli non volevano bimbi zingari nelle scuole dei propri figli e per questo nel dicembre 2010 ricorsero alla camorra e fecero dar fuoco al campo rom (sono di martedì gli arresti dei 18 responsabili).

Accanto a questo picco razzista, c’è tutt’intorno quella pratica diffusa della discriminazione di cui parla il rapporto Unar, alimentata e incoraggiata già dal governo Berlusconi, che ci ha valso la condanna nel febbraio 2012 della Corte europea dei diritti umani per la prassi dei respingimenti in
mare.

Il governo Monti si è pubblicamente impegnato a dare attuazione alla sentenza. Ma poi il 3 aprile 2012 se n’è dimenticato quando ha firmato il nuovo accordo Italia-Libia sul controllo dell’immigrazione. Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, ha chiesto inutilmente una “comunicazione trasparente” su quegli accordi e qualche garanzia sui diritti umani di chi attraversa la Libia fuggendo da guerre e persecuzioni.

A quanto si sa, l’Italia si è limitata a rinnovare alla Libia la richiesta di fermare le partenze dei migranti prestandole per questo uomini e mezzi. E intanto quel mare che la retorica nazionalista definì “nostro” e che è per noi quello delle vacanze estive, è sempre di più per “loro” l’immenso cimitero dove annegano ogni giorno tantidisperati.

Proprio dalla Libia proveniva ieri il barcone con 54 eritrei: 53 di loro “si sono spenti uno ad uno, uccisi dalla sete», ha riferito l’unico sopravvissuto. E intanto l’Alto commissariato Onu per i rifugiati informa che ce ne sono altri 50 in arrivo. Un fenomeno che secondo ogni previsione è destinato a crescere.

Tutte queste cose il governo guidato da Mario Monti le sa. Ma non sembra intenzionato a occuparsene. In questa situazione gli sforzi generosi di singoli e di associazioni volontarie, laiche come Amnesty e religiose come i gesuiti della Fondazione Astalli, non ce la possono fare a invertire la tendenza.

Non basta gettare in mare una corona d’alloro, come ha fatto una persona sicuramente di buona volontà come il ministro Riccardi. Questo governo si è dato un’auto-limitazione che danneggia il Paese perché lascia in essere cattive norme e cattive abitudini. Un governo, un Paese non vivono solo di economia.