La tradizione è plurale di C.Albini

Christian Albini
www.viandanti.org, 16 luglio

Una caratteristica delle vicende interne al cattolicesimo nell’ultimo decennio è il ricorso al concetto di tradizione in forme violentemente polemiche.

La volontà di Benedetto XVI di raggiungere una riconciliazione con i lefevriani usciti dalla comunione con la Chiesa cattolica, accompagnata da ampie concessioni in campo liturgico, ha fatto sentire legittimati nelle proprie posizioni gli ambienti rimasti ostili al Concilio. Ne è derivato un crescendo di attacchi nei confronti di uno stile di cristianesimo a loro avverso (nella liturgia, nella teologia, nella pastorale…) che va oltre la critica e la dialettica, in quanto cerca di squalificare le persone e la loro fede.

C’è una rete di libri, riviste e soprattutto siti internet – riconducibili a piccoli circoli in cerca di visibilità – i quali prendono di mira sistematicamente pastori, teologi e credenti, in una sorta di “caccia alle streghe”, ricorrendo con leggerezza al linguaggio dell’eresia e della denigrazione. È un atteggiamento profondamente carente di fraternità cristiana, che smentisce nei fatti ogni pretesa di ortodossia.

Il ricorso alla tradizione

Il punto di appoggio di queste campagne e della visione teologica che le sostiene è il ricorso a una certa idea di tradizione. Si sostengono determinate posizioni e se ne colpiscono altre in base alla loro supposta aderenza alla tradizione, come se questo concetto fosse una sorta di asso di briscola che fa piazza pulita sul tavolo da gioco. Si invoca la tradizione quale argomento che prevale su tutti gli altri.Già, ma quale tradizione? C’è, infatti, modo e modo di intenderla.

Gli scritti e le dichiarazioni di chi lamenta una rottura con la tradizione cattolica – il più delle volte imputata al Vaticano II o al post-concilio – identificano quest’ultima con la teoria e la prassi del cattolicesimo post-tridentino, così come si è configurato nel XIX secolo. Il cattolicesimo romano dell’Ottocento diviene, per estensione, il metro della verità, come se costituisse l’approdo definitivo e compiuto di un processo lineare.

Da quel punto in poi, secondo tale visione, la Chiesa cattolica non avrebbe alcun bisogno di riforme e aggiornamento, ma solo di ribadire il già detto, al massimo con qualche aggiustamento. Si spiega così l’insistenza ossessiva sulla “continuità”, alterando il senso del discorso di Benedetto XVI sull’interpretazione del Vaticano II (22 dicembre 2005) per annacquare il Concilio e renderlo irrilevante.

La Parola di Dio all’origine della tradizione

Eppure, a ben vedere, la tradizione non è mai stata definita in questi termini. Anzi, proprio nell’Ottocento, Newman ha formulato l’idea di sviluppo e Möhler, con la scuola di Tubinga, quella di “tradizione vivente” che è all’opposto di una concezione statica e museale.

Contenuto della tradizione è prima di tutto quello che viene trasmesso, “il Vangelo che abbiamo ricevuto” (cfr. 1 Cor 15,1) e cioè l’apporto rivelatore di Gesù e degli apostoli, che è il “deposito” originale, costitutivo. Non c’è tradizione, allora, in estraneità o in opposizione alla Parola di Dio, la cui profondità e ricchezza sono inestinguibili e contiene la possibilità di una pluralità di sviluppi.

La tradizione, proprio per la sua origine apostolica, è dentro a una storia, una continuità di vita (la continuità del soggetto Chiesa), che però non segue una linearità consequenziale e rigida. Essa, invece, rende espliciti molti aspetti impliciti e mette in rapporto il dato primitivo e diverse culture, di paesi e di epoche diverse. Il deposito della fede è stato così dischiuso e articolato – non a tavolino, ma nell’esistenza cristiana storica – dai Padri, dai santi, dai concili, dal sensus fidelium…

La tradizione plurale

«In particolare esiste una tradizione Orientale e una tradizione Occidentale, ciascuna delle quali ha molte varietà al suo interno. Un po’ come le nostre chiese hanno aggiunto una cappella o una tribuna rinascimentale a un coro romanico, allo stesso modo la Chiesa ha tesaurizzato gli apporti dei geni, dei secoli e dei popoli.

La sua Tradizione ormai è tutto ciò. Essa porta un po’ di tutto. È come un fiume che ha aggiunto alla sua sorgente originaria l’apporto di molti affluenti e che trascina qualche tronco morto con l’acqua della sua sorgente pura. Occorre distinguere» (Yves Congar).

Non ha senso, allora, parlare di tradizione nei termini un “blocco” monolitico e uniforme da conservare. Sarebbe restringere un orizzonte che in realtà è molto più vasto. Accanto alla trasmissione del passato, ci sono l’apertura al presente e anche all’avvenire.

Cirillo e Metodio si sono scontrati con chi non ammetteva l’uso della lingua slava nella liturgia, col pretesto che non si potesse abbandonare le tradizione dell’ebraico, del greco e del latino. Lo stesso concilio di Trento e il tridentinismo hanno operato una discontinuità rispetto alla tradizione pre-tridentina. Al contrario, alcuni dati che certi tradizionalisti di oggi assolutizzano si giustificano con il clima culturale proprio di una certa epoca e con le tensioni verso i protestanti (si pensi alla liturgia, all’ostilità verso l’ecumenismo, verso gli ebrei e le altre religioni) e riflettono un cattolicesimo occidentale, maschile, bianco e con nostalgie monarchiche.

Trattenere tutto ciò che è buono

Diventa perciò indispensabile, per seguire il Signore e testimoniare il Vangelo oggi, mantenere un rapporto vivo con la tradizione e allo stesso tempo saper riconoscere ciò che è secondario e contingente.

Benedetto XVI ha parlato della necessità di mutare le forme concrete che dipendono dalle situazioni storiche e dai contesti, portando come esempio il decreto sulla libertà religiosa del Vaticano II, il quale riconoscendo un principio essenziale dello Stato moderno non ha fatto altro che riprendere nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. è un esempio di ciò che Giovanni XXIII, inaugurando il Concilio, intendeva come approfondimento e presentazione del deposito della fede corrispondente alle esigenze del nostro tempo.

La Chiesa non sta fuori della storia per giudicarla. Ne ha sempre subito i condizionamenti. Vi sta piuttosto dentro, come il lievito nella pasta, e in ogni epoca è chiamata al difficile (e non scontato) discernimento di ciò che è evangelico e di ciò che invece è suscitato dallo Spirito, per trattenere tutto ciò che è buono ed esserne arricchita nella comprensione della fede. In questo modo la Chiesa, come ogni popolo, come ognuno di noi, può, nel suo presente, aprirsi al suo avvenire sulla base del suo passato, o piuttosto delle sue imprescrittibili radici.