L’eredità di Costantino e il sogno del Vangelo di E.Peyretti

Enrico Peyretti
www.ilfoglio.org

Gli anniversari rotondi, come i 50 anni del Concilio, incuriosiscono, forse perché sembrano dare una misura, come i nostri compleanni, ad un tempo che scorre senza una chiara direzione di fondo: è forse accaduto qualcosa, sui tempi lunghi, che rivela un ritmo sensato nelle cose? La gestione più facile di questi momenti è fare una bella mostra, andare a visitarla, qualche cerimonia e un servizio in tv, tra un campionato e l’altro, tra un disastro e l’altro. Non voglio fare della cattiva ironia. Ora ci saranno anche momenti di riflessione critica e seria su ciò che davvero avvenne nel Concilio, sulla sua maggiore o minore applicazione, sulla cura o l’abbandono dello spirito – possiamo dire Spirito – che allora percorse la Chiesa, e che certo non è morto. In questo anniversario si esprimerà quel disagio che da tempo fermenta nella Chiesa con franchezza e serietà riguardo alla resistenza opposta dalla struttura allo Spirito. Ma la coscienza di tutti è interpellata.

L’effetto più visibile del Concilio, vissuto da tutti, fu la “messa in italiano”. Bisognerebbe oggi ricostruire (ce lo mostrano i lefevriani?) che cosa era la messa, prima. I vecchi come me possono raccontare quanto era noiosa, obbligatoria, a sacra distanza dal popolo spettatore, separato dalla balaustra (le donne potevano oltrepassarla solo per pulire il pavimento), nel silenzio rotto solo dalla voce del prete, protagonista solitario. Vigeva, per lo più, la separazione, anche spaziale, tra donne pie e uomini muti. In una famiglia cattolica come la mia, sentii dire da bambino: «Il prete dice messa in latino per ingannare il popolo cretino». Ciò non toglie che si pregasse davvero, interiormente. La rivoluzione del Concilio non nacque dal nulla, ma da filoni vivi, sia a livello popolare che nella ricerca teologica. Per esempio, a me e ai miei fratelli, da bambini, nostra mamma fornì un messalino con la traduzione italiana di tutti i testi latini della messa. Il più grande, che sapeva leggere, li leggeva nell’orecchio al più piccolo, in traduzione simultanea. Ma, per chi era meno formato nella fede, la messa era un atto di presenza socialmente dovuto: “Prender messa”.

La nuova liturgia poteva essere una rivoluzione – poi interrotta – nella forma della Chiesa, la quale consiste nell’eucaristia vissuta. La partecipazione attiva del popolo cristiano trasformava la Chiesa, da piramidale papo-centrica e clero-centrica, a popolare, comunitaria, sinodale. Sinodo vuol dire “camminare insieme”. Così Michele Pellegrino, vescovo a Torino, intitolò la sua lettera pastorale del 1971, raccogliendo il frutto di una larga partecipazione ecclesiale e proponendo: povertà, libertà, fraternità.

Il Concilio riscoprì la realtà evangelica del sacerdozio comune, pur con l’utilità di ministeri specifici, la centralità del “popolo di Dio”, la storicità della testimonianza e della formulazione del messaggio evangelico, il rispetto e il dialogo con le altre religioni, la libertà religiosa e il primato della coscienza, il servizio cristiano al cammino dell’umanità, l’impegno per la giustizia e la pace.

Il Concilio prese coscienza, non senza contrasti, che la Chiesa deve essere povera coi poveri, per essere evangelica: povera soprattutto di potere, ricca solo della forza mite del Vangelo, vissuto e annunciato con umili mezzi. Così libera, la Chiesa può riconoscere le vittime di tante violenze, e spendersi per la giustizia e la pace, segni messianici. Oggi potrebbe indicare la più grave questione morale nelle sistematiche offese del dominio economico e culturale, nelle guerre strumentali, nell’economia dell’ingiustizia, della fame e della rapina, nella tirannia senza volto del denaro che nutre se stesso e non la vita. La Chiesa si impegna, a vari livelli, per correggere il costume banalizzante, nichilista, che corrode la solidarietà umana, ma può farlo credibilmente solo se si svincola realmente e spiritualmente dall’abbraccio interessato dei potenti.

Nel prossimo anno si aggiunge un’altra ricorrenza secolare: l’editto di Costantino del 313, l’inizio di quella “era costantiniana”, di cui nel Concilio si avvertì e si volle la fine, che in realtà è un lungo fenomeno tuttora incompiuto (vedi lo studio di Gianmaria Zamagni pubblicato dal Mulino, Fine dell’era costantiniana). Sarà un motivo di riflessione importante e di conversione comunitaria. Forse il seme evangelico, mai morto, rinnoverà la vita quotidiana delle persone, delle piccole Chiese fraterne senza potere sociale, a lungo oscurate dall’apparato centrale, che spesso appare uno dei poteri del mondo più che servizio di comunione. Ora, ogni realtà di Chiesa prenda la parola, si metta “in stato di concilio” sulle questioni più serie, col «pregare e operare per la giustizia», e allora la Chiesa tenderà di nuovo alla forma evangelica.