Profumo: ministro per caso

Marina Boscaino
www.micromega.net

Tra spending review, smentite di tagli (che, puntualmente, ci sono), esami di Stato, il nodo davvero tragico dell’ex disegno di legge Aprea, dibattiti interminabili sull’utilità o meno della bocciatura, ho mancato di commentare una clamorosa (era ora, visto la monotonia generale dei toni e dei contenuti) esternazione del ministro Profumo. Si tratta di un’intervista rilasciata a fine maggio a Savona, la sua città. Guardandosi bene – come al solito – da dare risposte precise a problemi concreti (la diminuzione del tempo pieno, le classi-pollaio), il ministro ha trovato un fantasioso capro espiatorio cui fare riferimento per evitare di dire qualcosa di inerente (che non siano le tecnologie, per favore!) al campo che parrebbe di sua competenza e pertinenza: la scuola.

Durante l’ennesima visita di cortesia e di rappresentanza, con l’aria di non sapere bene cosa ci facesse lui lì, Profumo-turista-per-caso ha svelato agli italiani una verità che li aiuterà finalmente a capire e a compilare la doverosa lista dei buoni e dei cattivi. “Siete voi giornalisti ad aver rovinato la scuola, facendo apparire la situazione catastrofica” , ha detto il ministro, accompagnando la rivelazione con le consuete pillole di buon senso di cui le sue dichiarazioni sono costellate: “Non si può più ragionare come un tempo, quando si attendevano i contributi dall’alto per agire. Oggi bisogna essere creativi, coraggiosi”.

Che si debba essere creativi e coraggiosi è una certezza: lo prova il fatto che, dopo tre anni di dissanguamento della scuola pubblica, si propone nuovamente, con il decreto legge 95/2012 (la spending review), la continuazione dei tagli lineari che caratterizzano da tempo il rapporto tra amministrazione e scuola. Dopo il decurtamento del numero di ore curricolari, il taglio delle sperimentazioni, l’innalzamento del rapporto alunni-docente, il dimensionamento del sistema scolastico che dal 2009 ad oggi hanno prodotto –assieme ad altri provvedimenti – 8mld di risparmio e 140mila posti di lavoro in meno tra docenti e Ata, vengono sottratti alla scuola ulteriori 15mila posti e 360 milioni, colpendo in particolare gli elementi più deboli del sistema: i docenti inidonei all’insegnamento (che, per motivi di salute, erano stati destinati ad altri incarichi); e coloro che, per effetto della riduzione degli orari, sono andati in soprannumero, che verranno assegnati a compiti definiti unilateralmente, senza confronto in sede contrattuale. A tutto ciò si aggiunge la drastica riduzione delle supplenze per docenti, personale amministrativo, collaboratori scolastici.

Quanto tempo è che siamo costretti a non occuparci veramente di scuola: di didattica, di pedagogia, di epistemologia delle discipline, di relazione e mediazione educativa? Moltissimo. La scuola è stata una vera avanguardia nell’essere oggetto di chiavi di lettura che transitino attraverso la mera valutazione economica, nonostante la distanza delle prospettive che caratterizzano i due ambiti. È almeno dai tempi della Moratti, ma per un processo iniziato ben prima, che alla scuola si guarda non per la sua specificità, ma per quanto costa e per come impedire che costi, a prescindere da funzione, ricadute in termini non immediatamente monetizzabili (cultura, cittadinanza, risparmio in termini di costi sociali se ci sono più ragazzi a scuola ecc.).

In questi giorni Elena Ugolini, sottosegretario all’istruzione, ha ammesso che «bocciare molto spesso non serve». E, alla giornalista di Italia Oggi che le ricordava che, bocciando di meno, lo Stato risparmia, Ugolini replicava che gli insegnanti non hanno – al momento dello scrutinio, in mente le casse statali. I dati Miur recentemente pubblicati individuano un aumento delle promozioni dello 0,4% alle medie, e addirittura dell’ 1,2% alle superiori. Non possiamo che rallegrarci di un ipotetico cambiamento di stile rispetto alla (im)meritevolissima Gelmini, che propugnava una scuola falsamente severa, punitiva e autoritaria.

Contemporaneamente Profumo, dall’inaugurazione dei nuovi locali della facoltà di medicina a Palermo, si lasciava andare ad un’esternazione in stile Fornero-Martone-Cancellieri: “Gli studenti fuori corso hanno un costo anche in termini sociali”. “Credo che sia un problema culturale – dice il ministro – non ci vogliono leggi per avviare il Paese verso la normalizzazione. All’Italia manca il rispetto delle regole e dei tempi. Questa è la mia sintesi. Credo che innanzitutto la scuola, sul rispetto delle regole, debba dare un segnale forte. Bisogna creare le condizioni affinché i nostri studenti possano seguire con regolarità i corsi e dare gli esami e soprattutto nel caso in cui abbiano un lavoro facciano una scelta: ossia quella del part time”.

Parole lungimiranti, in un periodo come questo. Che – a parte la loro inopportunità, definita “vergognosa” da Maria Merini, responsabile scuola Prc in Sicilia, rappresentano la consueta, indignata stigmatizzazione di qualcuno che, più che essere ministro dell’Istruzione, sembra passare di lì per caso e dare fiato alle trombe, affidando ancora una volta all’istruzione un ruolo rispetto al quale dovrebbero quanto meno essere compartecipi altre istituzioni. Un rapido raffronto tra le dichiarazioni del ministro e del suo sottosegretario fanno pensare che certamente gli insegnanti non hanno in mente il bilancio dello Stato quando fanno gli scrutini, ma che Profumo e Ugolini ce l’abbiamo saldamente presente nello svolgimento delle loro funzioni. Eurostat stima in 6728 euro la spesa annuale media per studente; in base a questi dati, l’incremento di promossi, circa 50 mila, in più produrrebbe quasi 336milioni e mezzo di risparmio. Education at a Glance 2011 – pubblicazione dell’Ocse – registrava nel 2008 una spesa pubblica per studente alle medie e alle superiori di 9315 dollari l’anno, per un corrispettivo di 7632 euro, per cui il risparmio supererebbe i 381 mln di euro.

Notizie e dichiarazioni, quelle qui esaminate, solo apparentemente distanti e scollegate tra loro. Nel dominio – in senso gramsciano – dell’economia su qualsiasi istanza sociale e su qualunque progetto politico, logica che valuta in termini monetari immediati tutte le esigenze e le espressioni umane, anche le più immateriali, come la cultura, la scuola è stata sottoposta ad anni di “razionalizzazione e semplificazione”. Tagli drastici, che non hanno guardato né ai diritti degli studenti (diritto allo studio e all’apprendimento); né a quelli dei docenti (il diritto al lavoro e alla dignità sul lavoro); né quelli della comunità nazionale (la scuola come luogo dell’interesse generale). Non è ancora finita.

E per andare a raschiare il fondo (fino in fondo) si rischia di sottomettere a quella logica persino aspetti che meriterebbero analisi e contestualizzazioni ben più accurate: promozione e bocciatura, fuori corso universitari. Che per altro non sono problematiche da affrontare con creatività, ma piuttosto con competenza, studio, investimenti, elaborazione, verifiche. Proprio ciò che questo governo non riesce a mettere in campo, preferendo affidare ai giornalisti la responsabilità di una situazione originata nel passato, ma che nessuno oggi sembra avere intenzione di riconoscere prima ancora che di invertire.