Sudafrica: nuovo apartheid?

Michele Paris
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A metà agosto, la polizia sudafricana si è resa responsabile di un orribile massacro che è costato la vita a decine di minatori che, nella regione di Nordovest, stavano scioperando per ottenere migliori condizioni di vita. Con il pieno appoggio del partito di governo, l’African National Congress (ANC), la strage è stata messa in atto con metodi degni di quel regime dell’apartheid che quest’ultimo ha contribuito in maniera decisiva a rovesciare poco meno di due decenni fa.

I fatti di sangue hanno avuto luogo il sesto giorno consecutivo di uno sciopero indetto da un sindacato indipendente attivo nella miniera di platino di Marikana, appartenete alla compagnia britannica Lonmin. I minatori, molti dei quali immigrati dai paesi vicini, intendevano denunciare condizioni di lavoro spesso drammatiche, stipendi che non superano i 500 dollari al mese e l’assenza di abitazioni decenti, dal momento che essi vivono spesso in baracche senza elettricità o acqua corrente.

Gli scioperanti stavano perciò chiedendo il raddoppio del loro stipendio dopo anni di promesse mai mantenute. Ad infiammare una situazione già tesa, poi, è stata la dirigenza di Lomin che giovedì ha lanciato un ultimatum ai minatori, avvertendoli che chi non avrebbe ripreso immediatamente il lavoro sarebbe stato licenziato. Allo stesso tempo, la polizia ha iniziato a minacciare l’uso della forza per mettere fine allo sciopero.

Alla fine, circa 3 mila minatori si sono riuniti su una collina e poco prima del massacro della polizia hanno respinto l’appello dei leader del loro sindacato a disperdersi. Con la tensione alle stelle, i lavoratori si sono fatti più aggressivi e molti dei quali si sono armati di machete e bastoni. La polizia ha così accerchiato un gruppo di manifestanti lanciando contro di loro gas lacrimogeni prima di aprire il fuoco e lasciare sul terreno più di 30 morti.

Il bilancio ufficiale di quello che un giornale di Johannesburg ha definito “un attacco ben pianificato”, è stato di 34 morti tra i minatori, anche se altre fonti parlano di almeno una cinquantina di vittime, mentre molti feriti sono tuttora ricoverati in gravi condizioni.

Dietro alla drammatica vicenda c’è la rivalità sempre più marcata tra la principale organizzazione sindacale del settore minerario – National Union of Mineworkers (NUM) – legata all’ANC, e la formazione indipendente AMCU (Association of Mineworkers and Construction Union).

Quest’ultima è riuscita recentemente a reclutare un numero consistente di iscritti grazie ad un atteggiamento più combattivo e al malcontento diffuso tra i lavoratori per la passività del NUM e il suo sostanziale allineamento alle posizioni dei proprietari delle miniere. Gli scontri tra gli affiliati ai due sindacati rivali avevano caratterizzato i giorni precedenti il massacro di Marikana, durante i quali c’erano già stati dieci morti.

Alla luce della situazione, dunque, è stata tutt’altro che sorprendente la posizione assunta dal NUM e dall’ANC, i cui vertici hanno cercato in qualche modo di giustificare il comportamento della polizia, attribuendo la responsabilità dell’accaduto ai minatori stessi. Il presidente sudafricano, Jacob Zuma, da parte sua si è detto “scioccato per l’inutile violenza”, anche se ha confermato di aver dato egli stesso indicazione alle forze di sicurezza di utilizzare ogni mezzo per riportare l’ordine tra i lavoratori della miniera. Scrupolo immediato di Zuma, inoltre, è stato quello di rassicurare gli investitori stranieri sulla stabilità del Sudafrica.

Anche i vertici del NUM hanno difeso la polizia che, a loro dire, sarebbe stata costretta a ricorrere alla forza per far fronte ai disordini causati dagli scioperanti. Il NUM, d’altra parte, è affiliato alla federazione sindacale COSATU (Congress of South African Trade Unions), a sua volta una delle più potenti e influenti organizzazioni che sostengono l’ANC. Queste associazioni sindacali, così come il partito che fu di Nelson Mandela, sono sempre più impopolari in Sudafrica perché considerate troppo vicine agli interessi delle corporation che operano nel paese.

A quasi vent’anni dalla fine dell’apartheid, infatti, il Sudafrica rimane uno dei paesi con le maggiori disuguaglianze, dove il 40 per cento della popolazione è costretta a vivere con meno di tre dollari al giorno. La responsabilità di questa situazione è da ricercare in rimo luogo tra i vertici dell’African National Congress, le cui promesse di costruire una società più equa rimangono ampiamente disattese.

In definitiva, nonostante l’indiscutibile aumento della spesa pubblica in programmi per la riduzione della povertà, il Sudafrica modellato da 18 anni di governo ANC ha sostituito le disuguaglianze razziali con quelle economiche, creando una nuova minoranza di neri arricchitisi enormemente, compresi quelli alla guida dei principali sindacati, grazie alla connivenza con i grandi interessi economici locali ed esteri.

Esempio lampante di questo intreccio di potere è la carriera di uno dei leader dell’ANC, Cyril Ramaphosa. Attivista anti-apartheid, quest’ultimo fu tra i protagonisti della creazione del sindacato dei minatori negli anni Ottanta, durante i quali vennero organizzati numerosi scioperi. Successivamente, Ramaphosa è passato alla carriera politica entrando nell’ANC dove, grazie alla posizione di spicco ricoperta, è diventato uno degli uomini d’affari più ricchi del Sudafrica e siede oggi nel consiglio di amministrazione di Lonmin.

Sui fatti della settimana scorsa, intanto, ha aperto un’inchiesta l’Ufficio per le indagini interne della polizia, mentre il presidente Zuma ha creato un’apposita commissione. Alla luce del coinvolgimento dei più alti livelli politici, sindacali e delle forze di sicurezza, tuttavia, appare improbabile che alle indagini faccia seguito l’individuazione dei veri responsabili del massacro.