USA: quando il terrorismo è bianco

Mario Braconi
www.altrenotizie.org

L’eccellente pezzo di Rania Khalek su Salon costituisce un contributo importante sul tema del terrorismo negli Stati Uniti. Innanzitutto, il fenomeno viene largamente sopravvalutato: secondo una ricerca effettuata dall’Università di Syracuse, dal 2001 al 2011 ci sono stati circa 320 episodi terroristici negli Stati Uniti, che hanno provocato in tutto 32 morti (15 di matrice “bianca” e 17 legati all’estremismo islamico).

In secondo luogo, gli organi governativi deputati alla repressione continuano a concentrare i loro sforzi sul terrorismo di matrice jahdista, ignorando l’ovvio: ovvero la terrificante esplosione del terrorismo “bianco”, il cui brodo di coltura sono le centinaia di gruppi e gruppuscoli che si rifanno ad ideologie neonaziste e legate alla superiorità dei bianchi.

Infine, a dispetto di quanto sembrano ritenere le intelligence statunitensi, la comunità islamica americana tende ad essere più vittima che incubatore di terrorismo (senza dimenticare che, oltre ai musulmani, dal 2001 sono a rischio tutte le persone che vanno in giro vestite in un modo che ad un citrullo neonazista può apparire musulmano, ad esempio gli induisti Sikh, che, con il loro perenne turbante, terrorizzano qualche debole di mente ariano dal grilletto facile).

Khalek si avvale della testimonianza di Daryl Johnson, ex analista del Department of Homeland Security (DHS), che nel 2009 fece scoppiare un caso con un suo report dal titolo “Estremismo di destra: come l’attuale clima economico e politico alimenta una recrudescenza nella radicalizzazione e nel reclutamento”. Nel suo rapporto di tre anni fa, Johnson spiegava come, in certi ambienti, l’elezione di un presidente non bianco sia stata letta come una circostanza favorevole ad un ammorbidimento delle politiche sull’immigrazione. Ciò avrebbe potuto provocare attacchi “isolati e di modesta entità, diretti principalmente contro obiettivi legati all’immigrazione”.

Un serbatoio di braccia utili alla “causa”, continuava Johnson, era costituito da veterani delle varie guerre americane, particolarmente ricercati tanto per la loro condizione psicologica che per l’esperienza nel combattimento. Un ottimo catalizzatore, concludeva Johnson, era la crisi economica: soggetti con modesta istruzione, estromessi dal circuito socio-economico dal pignoramento della casa che avevano tentato di acquistare con mutui impossibili e dalla preclusione del credito personale, sarebbero stati i candidati ideali.

A dispetto di questa situazione allarmante e documentata, il DHS continuava a dedicare al terrorismo non-islamico un quantitativo di risorse ridicolo. Secondo Johnson al DHS vi era una sola persona dedicata a coprire il rischio terrorismo non-islamico, contro i circa 25 che seguivano quello di matrice jahdista. In effetti, per un certo periodo, il team di Johnson aveva contato una decina di persone, che comunque facevano fatica a gestire tutte le attività dell’ufficio.

Quando il rapporto, ad uso interno, divenne di dominio pubblico, i blogger destrorsi gridarono al “complotto della sinistra”, finalizzato a dipingere Tea Party e simili come potenziali terroristi. Tanto fecero che alla fine il dipartimento di Johnson venne azzerato, nonostante al comando della DHL fosse nel frattempo subentrata la democratica Janet Napolitano: attualmente, un solo analista è assegnato alle analisi sul terrorismo americano di estrema destra.

Nei tre anni successivi alla pubblicazione del report-bomba di Johnson, si sono moltiplicati gruppi e gruppuscoli dediti all’odio razziale pronti ad applicare le loro deliranti teorie, mentre il DHL al massimo è riuscito a sfornare un paio di stiracchiati report sull’allarme terrorismo “bianco”, niente di più. Eppure, il materiale su cui lavorare non mancherebbe, in un paese che, come gli Stati Uniti, registra un incremento del 69% in undici anni (2000-2011) nel numero dei gruppi dediti all’odio verso il diverso (dati Southern Poverty Law Center, SPLC); nel quale, nei primi tre anni dell’amministrazione Obama, si sono moltiplicati di otto volte i gruppi cosiddetti “patriottici” (tra cui milizie armate); o nel quale, tra il 1990 e il 2010 si sono registrati ben 145 omicidi ideologici per mano di estremisti di destra.

Secondo Johnson, “la violenza motivata da ragioni ideologiche è un dato ricorrente nei contesti caratterizzati dalla costante mortificazione di un determinato gruppo da parte di politici o personalità mediatiche”: un esempio lampante è quello dei consultori americani dove si pratica l’aborto. Dapprima sono stati messi nel mirino dai Repubblicani più estremisti, decisi a tagliar loro i fondi pubblici. Una volta fallito il piano “parlamentare”, il battage sui media ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, fino a che qualche debole di mente non ha ritenuto una buona idea cominciare ad appiccare fuoco agli ambulatori, e magari ad abbattere medici e paramedici coinvolti nelle pratiche di interruzione di gravidanza.

Il terrorismo americano legato all’estremismo islamico è solo una parte del problema, ma grazie al martellare di politici e stampa sul jadhismo “made in USA”, il numero degli attacchi ai danni di musulmani (veri o apparenti) è aumentato del 50% dal 2009 al 2010, (da 107 a 160 episodi secondo il FBI). Secondo le statistiche del SPLC, il numero di gruppi di odio antimusulmano sarebbe addirittura triplicato, passando da 10 a 30 dal 2010 al 2011.

Insomma, secondo la statistica, la situazione è molto chiara: il rischio viene dall’estrema destra. Ed è un rischio molto grave, dato che quasi tutte le persone che tra il 2001 e il 2011 sono state arrestate per aver tentato di organizzare attacchi terroristici con armi chimiche o batteriologiche (antrace compreso) vengono dal mondo dell’estremismo di destra. Se solo i politici avessero il coraggio di prenderne atto e di colpire i focolai di questa infezione che rischia di far implodere il Paese.

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Il terrorismo visto dagli USA

Fabrizio Casari
www.megachipdue.info

Cuba non assassina. Non tortura. Non sequestra. Non conosce desaparecidos. Non ci sono renditions. Non ci sono detenuti all’insaputa dei familiari. Non ci sono esecuzioni extra-giudiziali. Per tutto questo, o malgrado questo, è una dittatura che patrocina il terrorismo internazionale. Firmato: Dipartimento di Stato USA.

Potrebbe ben essere questo il testo della deliberazione con la quale gli Stati Uniti, pochi giorni orsono, stilando la loro classifica annuale dei paesi che non combattono il terrorismo, hanno inserito Cuba. L’isola socialista, che di terrorismo s’intende visti i tentativi d’invasione, le migliaia di vittime (3 478 morti e 2 099 feriti) e le centinaia di miliardi di dollari di danni subìti grazie proprio al terrorismo filo-statunitense che in Florida si organizza e vive con la copertura delle agenzie federali e locali statunitensi, subisce così la beffa oltre il danno.

Appare quantomeno singolare che gli Stati Uniti, il paese cioè che da 53 anni investe miliardi di dollari e ogni tipo di azione terroristica per sovvertire Cuba, accusi l’Avana di non combattere sufficientemente il terrorismo. Proprio a Washington dovrebbero sapere, invece, come e quanto Cuba è impegnata con successo contro il terrorismo, viste le innumerevoli figuracce che la Cia da più di cinquanta anni raccoglie nella maggiore delle isole delle Antille.

Ed è quantomeno stravagante che gli Stati Uniti, che scatenano guerre, invasioni di altri stati, bombardano popolazioni inermi con aerei con e senza pilota, che torturano e sequestrano i sospetti, che tengono aperti dei lager come Guantanamo e che rifiutano di uniformarsi alle più elementari norme del diritto internazionale, non riconoscendo né le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia quando le sono avverse (mine nei porti del Nicaragua) né il Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra, assegnino pagelle al resto del mondo in termini di affidabilità nella lotta al terrorismo.

L’accusa di quest’anno formulata nei confronti di Cuba è che il suo sistema bancario non sarebbe trasparente e, con ciò, si presterebbe al riciclaggio del denaro sporco. E’ un’accusa ridicola nel suo contenuto e penosa negli scopi che nasconde. Solo pochi giorni orsono, infatti, il Dipartimento del Tesoro USA ha sanzionato tre banche (una olandese, un’altra svizzera e una terza australiana) accusandole di aver operato transazioni finanziarie con L’Avana.

Dunque in cosa consisterebbe la scarsa trasparenza se è possibile individuare le operazioni bancarie del paese sull’ estero? Eppure, il problema è proprio questo: gli Stati Uniti vorrebbero che Cuba documentasse a Washington tutti i suoi movimenti bancari, così da rendergli più semplice e agevole comminare sanzioni a chi, operando con gli USA, opera anche con Cuba.

Washington lamenta una scarsa cooperazione con L’Avana sui movimenti bancari, cioè un difetto di comunicazione (unilaterale) di Cuba nei confronti degli Usa, come se questo fosse obbligatorio e non una pretesa imperiale. In realtà Cuba ha proposto inutilmente agli USA (l’ultima volta nel febbraio 2012) un programma bilaterale di lotta al terrorismo, ma la Casa Bianca non ha mai risposto. Fa bene dunque L’Avana a ricordare che sono gli USA il principale centro internazionale di riciclaggio del denaro sporco e che la loro ipocrita richiesta di trasparenza bancaria è una presa in giro, visti gli scandali dei suoi istituti di credito che hanno determinato dal 2008 la crisi finanziaria più grave della storia. La misura statunitense, invece, è ovviamente destinata a rendere più complicata l’attività commerciale dell’isola, perseguitando i suoi affari in ogni dove del pianeta e non ha nulla a che vedere con le norme sulla trasparenza bancaria.

C’è poi da ricordare un antecedente illuminante in termini di cooperazione tra Cuba e USA: quando Cuba decise di consegnare agli Stati Uniti un dossier sui terroristi in Florida, che organizzavano attentati contro Cuba e nell’intero panorama latinoamericano, il FBI non solo ignorò la denuncia, ma anzi decise immediatamente di arrestare i cubani residenti negli USA che si occupavano di smascherare la rete occulta terroristica e che avevano procurato le informazioni contenute nel dossier.

Condannati con processi farsa a pene detentive mostruose, i cinque cubani sono ancora prigionieri (uno è in libertà vigilata) e nemmeno la relazione di Gabriela Knaul, relatrice della commissione dell’Onu che analizza l’indipendenza dei giudici e degli avvocati e che si è pronunciata con critiche severe verso i processi sommari che si sono susseguiti contro i cinque cubani, ha avuto ascolto. Con quale coraggio si chiede “collaborazione”? Una ingenuità basta e avanza.

Quanto alla obiettività della lista non c’è niente di nuovo rispetto a quella degli anni precedenti e serve solo a costruire processi mediatici e politici funzionali a ulteriori sanzioni. Nello scorrere la lista dei cattivi, si può infatti facilmente notare come essi siano, casualmente, tutti paesi che non obbediscono a Washington, che non ne apprezzano la leadership indiscussa a livello planetario. Che non hanno cioè consegnato le loro ricchezze e la loro sovranità alla Casa Bianca e, soprattutto, che non riconoscono la volontà politica statunitense come fondamento del nuovo diritto internazionale de facto.

Eppure non c’è angolo del pianeta dove le bombe e le truppe statunitensi non abbiano operato. Non c’è avversario degli USA che non abbia conosciuto embarghi, terrorismo e invasioni militari. E non c’è episodio di brutalità gratuita contro le popolazioni civili commesso dai suoi soldati che sia stato giudicato e sanzionato. Ciononostante, con una sfacciataggine degna di un impero (in decadenza), Washington assegna pagelle agli altri paesi in termini di democrazia, rispetto dei diritti umani e di lotta al terrorismo.

Un paese che in poco più di duecento anni di storia ha utilizzato armi atomiche contro i civili, che ha inviato le sue truppe fuori dai suoi confini duecentosedici volte, che spaccia il suo espansionismo con il ristabilimento della democrazia e che definisce le vittime innocenti della sua foga imperiale come “danni collaterali”, meriterebbe di essere imputato perenne per reati di terrorismo e crimini contro l’umanità, più che ergersi giudice di altri. E’ questa la confusione che alberga: nell’unipolarismo coatto dei nostri tempi, il colpevole diventa giudice e la vittima diventa il colpevole. La traccia più evidente del paradosso esistente nell’era nefasta del nuovo disordine mondiale.