Gli Stati Uniti muovono le fila, gli altri sono strumenti

Robert Fisk
www.independent.co.uk Traduzione a cura di Carlo Antonio Biscotto per il Fatto Quotidiano.

Dall’ufficio del ministro degli Esteri siriano a Damasco si sentono chiaramente i colpi di mortaio e il cannoneggiamento dei carri armati. Dietro le violenze in Siria ci sono gli Stati Uniti, dice Walid al-Muallem, aggiungendo che le violenze non finiranno una volta terminati gli scontri ad Aleppo. “Agli europei dico che non capisco i loro slogan sulla sicurezza dei siriani quando all’Onu hanno votato 17 risoluzioni che vanno esattamente nella direzione opposta. E agli americani dico che debbono cercare di trarre qualche utile lezione dalle loro esperienze in Afghanistan e in Somalia. Dicono di voler combattere il terrorismo internazionale e appoggiano il terrorismo in Siria”. Walid a-Muallem parla in inglese, ma molto lentamente, scegliendo con cura le parole forse perché questa è la prima intervista che concede a un giornalista occidentale dall’inizio della crisi siriana.

Mentre parliamo gli scontri nei sobborghi di Douma, Jobar e Qaboun – dove viene abbattuto un elicottero – si fanno talmente violenti che persino il flemmatico ministro degli Esteri dà uno sguardo fuori della finestra.

“Prima di essere ministro, sono un cittadino siriano e vedere quello che sta succedendo mi intristisce. Ci sono molti siriani che si augurano che la Siria torni ai vecchi tempi quando andavamo fieri della sicurezza che garantivamo alla popolazione”. Dubito che siano molti i siriani che si augurano di tornare “ai vecchi tempi”, ma il ministro afferma che oltre il 60 per cento della violenza viene dall’estero, dalla Turchia, dal Qatar e dall’Arabia Saudita, paesi sui quali gli Stati Uniti esercitano una profonda influenza. “Americani e sauditi stanno fornendo ingenti somme, armi e tecnologia informatica e militare ai ribelli”, sostiene Muallem.

Ricordo al ministro che un anno fa ho pranzato con l’Emiro del Qatar che mi confidò di essere furibondo per le menzogne di Assad il quale, tra l’altro, non aveva rispettato un accordo che avrebbe consentito il rimpatrio di diversi membri della Fratellanza Musulmana. Muallem fa un cenno di diniego: “Se lo stesso Emiro lo avesse incontrato due anni fa, avrebbe sentito solo lodi per Assad che considerava un vero amico. All’epoca l’Emiro e Assad andavano in vacanza insieme.

Cosa è successo? Ho incontrato l’Emiro a Doha nel novembre del 2011 e in quella occasione abbiamo raggiunto una intesa. Se avessimo accettato il piano della Lega Araba, avrebbero versato al nostro Paese alcuni miliardi di dollari per la ricostruzione della Siria. Non potei fare a meno di chiedergli per quale ragione, dopo aver avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con Gheddafi, aveva ordinato ai suoi aerei di bombardare la Libia. Mi rispose in modo molto semplice: ‘perché non vogliamo perdere terreno in Tunisia e in Egitto'”.

Sul ruolo degli Stati Uniti, Walid al-Muallem non ha dubbi. Gli americani, dice, sono riusciti a spaventare i Paesi del Golfo con la presunta minaccia rappresentata dal nucleare iraniano e li hanno convinti ad acquistare armi riuscendo a realizzare il sogno di Roosevelt del 1936, quello di avere basi permanenti per il trasporto del petrolio.

“Siamo convinti che a muovere le fila dietro le quinte siano gli Usa e che tutti gli altri siano soli strumenti nelle loro mani”. E qui a sorpresa mi cita uno studio del Brookings Institution. Quando vede la mia espressione sorpresa e divertita si affretta a precisare: “Lei sorride, ma un ministro degli Esteri deve leggere queste cose . Il Brookings ha pubblicato uno studio dal titolo “The Road to Teheran” nel quale si dice a chiare lettere: per contenere l’Iran bisogna cominciare con la Siria.

All’inizio della crisi alcuni inviati occidentali ci hanno detto che all’origine del conflitto c’erano i rapporti tra la Siria e l’Iran, tra la Siria e Hezbollah, tra la Siria e Hamas. Se avessimo risolto questi nodi, gli americani ci avrebbero aiutato a trovare una via d’uscita. Ma nessuno ci ha detto perché la Siria non può avere rapporti con l’Iran che invece ha normali relazioni con tutti i Paesi del Golfo”.

Il ministro degli Esteri aggiunge che tutto è cominciato con legittime richieste di “riforme e di una nuova Costituzione”. Poi sono arrivati i “provocatori stranieri” che hanno strumentalizzato queste richieste per fini che nulla hanno a che vedere con i bisogni dei siriani. Segue poi la vulgata che ormai conosco a memoria. “Come cittadino non posso accettare che il mio Paese torni indietro di secoli. Nessun governo al mondo accetterebbe mai la presenza al suo interno di un gruppo terroristico armato e, per di più, al soldo degli stranieri che controllano strade e villaggi in nome del jihad”.

È dovere del governo siriano “proteggere” i suoi cittadini, afferma il ministro degli Esteri. Bashar al-Assad rappresenta l’unità della Siria e tutti i siriani debbono fare la loro parte per garantire un futuro di prosperità e benessere alla Siria. Se cadrà la Siria, cadranno anche i Paesi confinanti. Muallem è in partenza per l’Iran dove è previsto il vertice dei Paesi non-allineati e in quella sede si augura siano possibili “iniziative costruttive” per aiutare la Siria.
Naturalmente gli chiedo anche cosa può dirmi delle armi chimiche.

“Se anche la Siria le avesse non le userebbe mai contro il suo popolo”, mi risponde. “Ad Aleppo, nei sobborghi di Damasco, ancor prima a Homs e Idlib abbiamo combattuto contro gruppi armati. Siamo stati costretti a combattere nelle città, nelle strade e tra le case, ma è nostro dovere proteggere la nostra gente”.

E la famigerata milizia “Shabiha” le cui atrocità sono diventate tristemente famose in tutto il Paese? Walid al-Muallem non ci crede. Qui e là ci saranno individui armati che difendono le loro proprietà o si fanno giustizia da soli, ammette. Milizie paramilitari favorevoli al regime? Mai. E quindi al ministro degli Esteri siriano non si possono imputare crimini di guerra. E in lontananza, fuori della finestra, prosegue ininterrotto il rumore minaccioso delle bombe.