Martini, profeta di un nuovo Concilio di L.Sandri

Luigi Sandri
(testo giunto tramite email)

Poliedrica è l’eredità, morale ed ecclesiale, che lascia il cardinale Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano (1979-2002) deceduto, ottantacinquenne, venerdì. Del suo corposo magistero, naturalmente non riassumibile in poche righe, qui vogliamo focalizzarci su un aspetto, assai particolare ma, ci sembra, dirimente: la sua idea di un nuovo Concilio – un Vaticano III – della Chiesa cattolica romana.

Il 7 ottobre 1999, intervenendo al Sinodo dei vescovi che rifletteva sull’evangelizzazione dell’Europa, il porporato stupì i “padri” parlando loro di un suo “sogno”: la convocazione di qualcosa di analogo al Concilio Vaticano II per affrontare una serie di temi urgenti: “Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’Eucarestia. Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale”.

Per affrontare argomenti tanto impegnativi, aggiunse il prelato, “non sono certamente strumenti validi né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera. Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio”.

Martini non proferì la parola “tabù”, Concilio, ma a questo egli mirava, come poi preciserà in varie interviste. Un Concilio, aggiungeva, che non trattasse un’enorme quantità di temi come il Vaticano II, ma che si limitasse ad un elenco più ristretto. La Curia romana (salvo eccezioni), la maggioranza dei padri sinodali e del collegio cardinalizio contrastarono, con un ostinato silenzio o con una minimizzazione insistita, l’idea del prelato: vi si oppose, ignorandola vistosamente, Giovanni Paolo II; vi si oppose il cardinale Joseph Ratzinger (che, diventato papa, contribuirà a seppellirla). La ragione di tanta ostilità fu motivata, tra l’altro, dal fatto che, sia pur indirettamente ed evitando uno scontro frontale, in realtà l’arcivescovo di Milano lasciava intendere che su varie tematiche da lui suggerite – la collegialità episcopale, la posizione della donna nella Chiesa, i ministeri femminili, la sessualità, lo status del prete, l’ecumenismo, il rapporto leggi civili e legge morale come indicata dal magistero ecclesiastico – si dovevano ridiscutere le norme, restrittive, stabilite in proposito dal pontefice allora regnante, in quest’opera di restaurazione fortemente sostenuto da Ratzinger. Di qui la profonda irritazione – invisibile a occhi profani, ma ben reale – del mondo vaticano all’ipotesi di Martini.

Consapevole dell’ostilità che il racconto del suo “sogno” avrebbe provocato nell’establishment ecclesiastico, il cardinale aveva cercato di renderlo più accettabile prendendo fortemente le distanze da un’altra iniziativa, assai invisa al Vaticano. Affermando la sua contrarietà alla “raccolta di firme”, l’arcivescovo prendeva infatti le distanze, in particolare, da “Wir sind Kirche” (Noi siamo Chiesa), un movimento nato in Austria nel 1996, e subito diffusosi in Germania e in altri paesi – l’Italia, tra essi – che aveva raccolto 2,5 milioni di firme per un appello che, in sostanza, chiedeva molte delle riforme fatte balenare da Martini. Questa opposizione – in linea di principio – a “Noi siamo Chiesa” (a Milano il cardinale rifiutò sempre di ricevere il portavoce italiano del Movimento) mostra la sua difficoltà ad instaurare, anche all’interno della Chiesa ambrosiana, quel dialogo che egli auspicava a tutti i livelli. Ma, forse, egli scelse questa strada per non dare ulteriori motivi all’establishment ecclesiastico per opporsi al suo “sogno”.

Un “sogno” che, evaporato sotto i pontificati di Wojtyla e di Ratzinger, potrebbe tornare di attualità al prossimo conclave, perché i problemi che negli ultimi trent’anni, e ancor più sotto il regno di Benedetto XVI, la Curia romana ha ignorato, o affrontato solo per ribadire lo status quo, pendono irrisolti, e con urgenza crescente. Perciò siamo convinti che la questione di un Vaticano III tornerà ad essere discussa dai cardinali riuniti per eleggere il vescovo di Roma; non sappiamo con quale esito ma se, ancora una volta, il “sogno” (solo di Martini? Oh no, esso, da dieci anni a questa parte, è stato riproposto da decine di vescovi, da molti teologi e teologhe, da migliaia di cattolici di molti paesi!) sarà svuotato, non si farà che differire una riforma che, prima o poi, sarà ineludibile. E, continuamente differita, ancora più ardua da attuare.

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Carlo Maria Martini, il cardinale del futuro

Giovanni Panettiere
http://blog.quotidiano.net/panettiere

SINO all’ultimo ha tessuto la tela del dialogo con i lontani. Dagli atei, ai fedeli di altre religioni, dai protestanti agli ortodossi, passando per i devoti della scienza. A loro il cardinale Carlo Maria Martini è andato incontro non per convincerli a cambiare strada, ma per aiutare le vie dell’uomo ad incrociarsi in un interscambio fecondo e continuo. Come se il confronto trovasse una propria giustificazione nella stessa dimensione ontologica dell’uomo, complessa e plurale: «Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa», ripeteva il cardinale.

DA QUESTA APERTURA al prossimo, in qualità di arcivescovo di Milano, Martini ha tratto la forza e la convinzione per promuovere iniziative innovative per la vita della Chiesa. Su tutte la Cattedra dei non credenti (1987-2002), un simposio in cui, per la prima volta, gli uditori erano i cattolici, arcivescovo compreso, non più i senza Dio. Sfidando protocolli e pregiudizi, aprì un canale persino con le Brigate rosse. Nel 1984 Milano era ancora nella morsa del terrorismo e gli omicidi non conoscevano soluzione di continuità. Eppure, l’appello alle Br del gesuita sulla cattedra di Sant’Ambrogio, andò a segno: in Curia mani assassine depositarono un arsenale d’armi. Proprio come aveva chiesto il biblista che nel 1979 papa Karol Wojtyla, a sorpresa, strappò agli studi per consegnarli le chiavi della diocesi più grande d’Europa.

NEGLI ULTIMI anni, quando il Parkinson aveva ridotto a bisbiglio la sua voce, Martini si era rifugiato nella scrittura, intensificando la collaborazione con il chirurgo e parlamentare del Pd, Ignazio Marino. Risale a marzo la pubblicazione del loro libro a quattro mani, Credere e conoscere, dove il cardinale e lo scienziato si soffermano sul fine vita. Aprendo prospettive inedite e controverse per il pensiero cattolico.. Il punto delicato – chiosava – è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti>.

MARTINI sapeva che la malattia, con cui combatteva da 17 anni, aveva fretta e sentiva l’urgenza di affermare il primato del paziente nella scelta di come vivere le sue ultime ore sulla terra. Con straordinaria coerenza il cardinale ha rifiutato qualsiasi forma di accanimento terapeutico, tanto in teoria quanto sulla propria pelle.

SCANDAGLIANDO la sua biografia, si potrebbe pensare a Martini come a uno dei tanti, troppi sconfitti nella storia della Chiesa. Il principe mai re dell’unico regno temporale e spirituale, l’arcivescovo di Milano, fautore della scelta religiosa, battuto nella Conferenza episcopale italiana dai promotori di una solida presenza cattolica in politica come nella società. Suggestione invitante, certo, ma che non tiene conto di un particolare decisivo: Martini non ha mai cullato il sogno di approdare al soglio pontificio o di reggere le file di una maggioranza ecclesiale.

NEL CONCLAVE del 2005 i bookmakers vaticani vedevano in lui il più accreditato tra i porporati progressisti per il dopo Wojtyla. Doveva essere l’avversario ideale di Joseph Ratzinger, indicato come uomo forte dei conservatori. E, invece, in cappella Sistina Martini si presentò in sordina. Ricurvo sul bastone, distante dai riflettori. Quel che non diceva a parole lo esprimeva a gesti:.

NON QUELLO di reggere la barca di Pietro, ma di procedere nel deserto della modernità alla ricerca di quei segni dei tempi che in futuro potrebbero avere cittadinanza nel Catechismo cattolico. Per questo le sue aperture sul fine vita, i divorziati risposati, l’omosessualità e un ipotetico Concilio Vaticano III hanno puntualmente infastidito gli ambienti ecclesiali più tradizionalisti. Per i quali Martini era l’antipapa per eccellenza. Anche Comunione e liberazione non ha mai avuto un rapporto facile con l’emerito di Milano. Le reciproche diffidenze alla fine hanno minato il confronto al punto che don Julián Carrón, presidente di Cl, un anno fa espresse il suo malessere per la gestione della Chiesa ambrosiana nella stagione Martini-Tettamzanzi. Nelle intenzioni la lettera di Carrón al papa, con la quale chiedeva anche una svolta per l’arcidiocesi di Milano, avrebbe dovuto restare segreta, ma qualche mese fa l’onda lunga di Vatileaks l’ha portata a galla, con il suo carico di polemiche.

SOFFRIVA il cardinale per le critiche di chi in lui vedeva un nemico dell’ortodossia, un eretico, un protestante, tutto Bibbia e niente Tradizione, travestito da cattolico. Certe sue posizioni differivano da quelle di Wojtyla o Ratzinger, ma, da buon gesuita, Martini non ha mai voltato le spalle al papa, né processato dogmi. La sua evangelizzazione si è sempre abbeverata alle fonti della Scrittura e del magistero petrino. Per Ratzinger nutriva una stima lampante, come testimoniato dalle sue parole di vicinanza per lo scandalo della fuga dei documenti vaticani. Non solo. Stando alle ricostruzioni più attendibili, nell’ultimo conclave il ruolo di Martini fu decisivo nel dirottare i voti liberal sul futuro Benedetto XVI, evitando una votazione lunga e dagli esiti corrosivi.

TRADISCE chi vende Cristo per trenta denari dopo aver camminato e mangiato insieme a lui. Senz’altro Martini guardava a una Chiesa riformata, del futuro, ora come ora in minoranza. Ma Giuda era tutta un’altra cosa rispetto a questo gesuita, timido e solenne, che alla fede ha concesso il beneficio del dubbio.