L’Ilva si controlla dal basso

Guido Viale
www.ilmanifesto.it

L’Ilva (già Italsider) di Taranto inquina e uccide da cinquant’anni la città e i suoi abitanti, insieme a diversi altri impianti che ne occupano il territorio. Tuttavia, nonostante numerosi tentativi, in corso da anni, di portare la situazione all’attenzione dell’opinione pubblica, Taranto è diventata un caso nazionale solo ora: innanzitutto per l’impegno di un magistrato coraggioso che ha scelto di obbedire alla legge e non ai padroni della città; ma soprattutto per l’iniziativa del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che ha rotto la cappa di omertà nei confronti delle malefatte dell’azienda che le forze politiche – e gran parte di quelle sindacali – avevano steso da anni sulla fabbrica e sulla città: in uno stile sovietico che calza a pennello a un territorio cui è stato assegnato il destino di città dell’acciaio; e null’altro.

Cittadini e lavoratori liberi e pensanti è un bellissimo nome: una risposta anticipata all’establishment politico e massmediatico locale e nazionale, che da un mese a questa parte cerca di contrapporre i cittadini ai lavoratori, sostenendo che i primi, in nome della salute e dell’ambiente, vorrebbero la morte della fabbrica; e che i secondi, in nome del lavoro e del salario, sono disposti a condannare a morte mogli, figli e parenti, oltre che se stessi. E questo nonostante nella maggior parte dei casi cittadino e lavoratore coincidano nella stessa persona.

Se il comitato saprà continuare a respingere con il coraggio e l’intelligenza di cui ha dato prova finora questo tentativo di divisione e di falsa contrapposizione, presto, in questo autunno che si prospetta rovente, le bandiere con l’apecar (il traballante veicolo con cui è stato interrotto il comizio sindacale del 2 agosto e che è diventato il simbolo del movimento) si affiancheranno a quelle del movimento No Tav, che da tempo compaiono in tutte le manifestazioni nazionali; e la vicenda di Taranto diventerà uno spartiacque per gli schieramenti politici e sociali nazionali come lo è da tempo la vicenda della Valle di Susa.

Apparentemente è stato il segretario della Fiom, il sindacato che si è schierato fin dall’inizio a fianco della Valle di Susa, a fare le spese dell’irruzione in piazza dei cittadini e dei lavoratori liberi e pensanti con il loro apecar. Ma questa in parte è stata una mera coincidenza temporale, perché l’irruzione era innanzitutto diretta contro Bonanni, che se l’è data a gambe insieme ad Angeletti e Susanna Camusso appena il corteo del comitato è entrato in piazza, mentre Landini ha deciso di restare. In parte la cosa non va drammatizzata.

I fischi ai sindacalisti ci sono sempre stati: fa parte del loro ruolo, spesso difficile, quasi sempre delicato e raramente appagante; specie quando sono in gioco questioni dirimenti. Durante l’autunno caldo e le lotte successive di quarant’anni fa, Trentin, Carniti e Benvenuto di fischi ne avevano presi a iosa, per non parlare di Rinaldo Scheda ed altri, pochi anni dopo (il caso di Lama cacciato dall’Università è diverso: lui se l’era andata a cercare).

In parte bisogna dire che la Fiom, che giustamente si è dissociata dagli scioperi contro il giudice Todisco, negli anni passati aveva fatto veramente troppo poco per differenziarsi dai sindacati padronali Fim e Uilm, che a Taranto governano letteralmente il personale dell’Ilva per conto della famiglia Riva.

Se il comitato saprà corrispondere alle speranze che i cittadini di Taranto stanno riponendo nella sua azione, presto per molte di quelle organizzazioni si arriverà a una resa dei conti; e la Fiom potrebbe ritrovarsi, come già succede da oltre due anni alla Fiat e nella contrattazione nazionale, dalla parte opposta a quella, sempre più padronale, in cui si sono posizionate le altre organizzazioni sindacali. E questo in un contesto locale e nazionale rovente, in cui difendere le ragioni del padrone sarà sempre più difficile.

Il problema è dunque «che fare?» per mantenere la rotta. Una risposta esauriente per ora non ce l’ha, e probabilmente non ce la può avere, nessuno. L’importante è cominciare a mettere in chiaro le poche certezze e i molti interrogativi da cui quella risposta dipende.

La prima certezza è questa: la vita non si contratta. Di fronte alla prova documentaria che l’Ilva-Italsider ha distrutto e continua a distruggere la vita di migliaia di lavoratori e di cittadini – e quella dei loro figli – qualsiasi altra considerazione deve passare in secondo piano.

La seconda è che non bisogna più mentire sulla reale portata del disastro in corso (o nascondere le cose, il che è lo stesso), come sempre ha permesso che si facesse l’attuale ministro Clini, già direttore generale e vero dominus di un ministero dell’Ambiente affidato, da dodici anni, a personaggi incompetenti, ridicoli e arraffoni. O il neopresidente Ferrante, uomo per tutte le stagioni, approdato a difendere le ragioni dell’Ilva dopo aver fatto lo stesso per conto dell’Impregilo, nel tentativo di liberarla dalle responsabilità per i disastri compiuti con i rifiuti in Campania e con il Tav in Casentino e sulla Torino-Milano (e in attesa di quelli sulla Torino-Lione). O il sindaco Stefàno, portato al governo della città da una autentica rivoluzione degli schieramenti politici, e grazie anche alle cure personalmente prodigate ai bambini di Taranto (è un pediatra), senza che questo lo abbia mai spinto a dire una sola parola contro la causa di tanti malanni e di tanti decessi.

Ma non bisogna neanche mentire a se stessi. Chiunque dia per scontato, come è stato fatto da tutti o quasi finora, che la salvaguardia della salute e dell’ambiente a Taranto è compatibile con la continuità della produzione dell’Ilva, senza una verifica della fattibilità tecnica ed economica delle misure prescritte dai giudici e dai periti per mettere in sicurezza l’impianto e di quelle per bonificare il sito e tutto il territorio, cerca di ingannare innanzitutto se stesso. L’Ilva è un impianto vecchio e obsoleto, che i Riva, consapevoli che non aveva davanti a sé molti anni di vita, avevano deciso di sfruttare fino a esaurimento, investendo solo lo stretto necessario per tenerlo in funzione. Può essere quindi che le prescrizioni di giudici e periti per rimetterlo a norma abbiano costi ingiustificabili a fronte dalla vita residua dell’impianto; o che richiedano di fatto il suo rifacimento ex novo – il che porrebbe il problema della convenienza e dell’opportunità di rifarlo proprio lì – dovendosi poi anche verificare l’effettiva possibilità di imporre alla proprietà i costi astronomici del risanamento di sito e impianto.

Facile dunque che qualcuno – anzi, molti – cerchino fin da ora di cambiare le carte in tavola, nascondendo una parte dei costi, riducendo la portata degli interventi, per poi far sì che le cose continuino più o meno come prima, con un po’ di belletto. A un gioco del genere, d’ora innanzi, non si deve più prestare nessuno.

La terza considerazione è che all’interno dello stabilimento e nella città sono stati compiuti per anni – consapevolmente, come rimarca il giudice – dei reati gravissimi, assimilabili a quello di strage; e non solo in campo ambientale e sanitario. Questi sono stati resi possibili da un regime di fabbrica dispotico e illegale – quello che l’abolizione dell’art. 18 renderà ordinario in migliaia di altri stabilimenti, anche grazie a una sostanziale cooptazione nella gestione di quel regime delle organizzazioni sindacali, o di una parte consistente di esse, oltre che di partiti, Enti locali, Diocesi, Università, ecc. Basti pensare che in fabbrica – oltre all’istituzione di un reparto confino, il Laf, già sanzionato dalla magistratura e per questo soppresso e sostituito con altri sistemi di persecuzione dei lavoratori non acquiescenti – sono all’opera, a fianco della gerarchia ufficiale, numerose figure che gli operai chiamano «i rappresentanti di Riva»: che non sono dipendenti dell’azienda, ma che di fatto comandano: sono loro a ingiungere comportamenti da cui dipende buona parte delle emissioni nocive dello stabilimento, nella certezza che, non figurando nell’organico dell’azienda, a una loro responsabilità non si potrà mai risalire; e al massimo questa ricadrà sugli operai a cui hanno dato quegli ordini.

La quarta considerazione è questa: anche se con la privatizzazione il clima di fabbrica è ulteriormente peggiorato, l’inquinamento selvaggio della città ad opera dello stabilimento siderurgico è stato realizzato, nell’impunità più assoluta, fin dall’inizio; anzi, fin dalla decisione di collocare uno stabilimento del genere a ridosso di una città di 200mila abitanti; quando ancora l’Italsider era di Stato. Il che dimostra che di per sé la proprietà pubblica o privata di uno stabilimento non fa la differenza che conta (anche se per molte produzioni e, sicuramente, quando sono in gioco grandi dimensioni, la prima è decisamente preferibile). La differenza la può fare soltanto un controllo dal basso, effettivo e consapevole, ad opera dei lavoratori e dei cittadini coinvolti nel processo lavorativo o nei suoi impatti ambientali e sociali. Che è appunto quanto si ripropone il comitato: ciò che può segnare l’inizio di una svolta teorica e pratica nelle dinamiche politiche dei prossimi anni. Per questo Taranto deve restare un caso di portata nazionale.

La quinta considerazione è che l’acciaio è un materiale indispensabile. In una prospettiva di progressiva riterritorializzazione delle produzioni, che è l’unica forma praticabile di contrasto agli effetti della globalizzazione liberista, sarebbe sbagliato in linea di principio delegare ai paesi emergenti o a quelli del terzo e del quarto mondo le produzioni che hanno impatti pesanti sul territorio, in nome di una visione bucolica dello sviluppo – o della decrescita – fatta solo di una sacrosanta valorizzazione dei beni ambientali, dei beni culturali, delle opere dell’ingegno e delle produzioni soft (di agricoltura, purtroppo, a Taranto, non si parlerà più per anni).

Questo non significa accettare lo stato di cose esistente – e meno che mai i progetti devastanti del ministro Passera – ma mettere lo sviluppo tecnologico al servizio non del profitto, non del gigantismo industriale, ma di una graduale e progressiva conciliazione tra produzioni e ambiente: innanzitutto ridimensionando, ovunque possibile, il gigantismo delle prime, causa prioritaria di impatti ambientali insostenibili. Che la produzione dell’Ilva di Taranto, se si verificheranno le condizioni per la sua continuazione, vada comunque progressivamente ridimensionata, fino allo spegnimento finale dell’impianto (come peraltro devono aver messo in conto anche i Riva, visto il modo in cui lo hanno gestito finora) non può essere messo in discussione. Ma certamente una soluzione del genere, che permetterebbe di affiancare a una produzione ridimensionata le attività e l’occupazione necessarie alla bonifica del sito e del territorio e una politica di creazione, scaglionata nel tempo, di nuove opportunità occupazionali nel campo delle produzioni sostenibili (energie, efficienza, mobilità, eco-edilizia, ecc.) è senz’altro preferibile alla chiusura immediata e definitiva dell’impianto. Perché questa lascerebbe senza lavoro e senza prospettive di reimpiego quasi ventimila lavoratori, e un sito inquinato e abbandonato alla cui bonifica nessuno avrebbe più alcun interesse né possibilità di controllo. Ce lo insegnano le vicende di tante aree dismesse, come Crotone o Bagnoli (dove pure, in quest’ultimo caso, il valore dei suoli ha scatenato una corsa all’accaparramento).

Che fare allora? Il comitato deve mettersi in grado di definire, promuovere, rivendicare e seguire direttamente questi processi, diventando il punto di riferimento di tutti coloro che intendono lavorare a una autentica conversione ecologica, che faccia i conti con i vincoli imposti dallo stato di cose esistente. Facendosi innanzitutto garante della verità sulle cose che possono e che non possono essere fatte. Per questo a Taranto ho proposto di lanciare a livello nazionale un manifesto che metta in luce la centralità dei problemi dell’Ilva e della città e che chiami tutte le persone di buona volontà che hanno competenze in materia a partecipare e contribuire con le loro conoscenze al sostegno del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti; per non lasciare il processo di risanamento o di riconversione dello stabilimento nelle mani di chi fino a oggi ha lavorato all’occultamento della verità su questa autentica tragedia nazionale, spartendosi qualche briciola degli ingenti guadagni ricavati dalle disgrazie di un’intera popolazione-