Sacra presunzione di E.Rindone

Elio Rindone
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“I fedeli devono accettare il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l’assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla «ex cathedra». Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi, che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi”(n. 25). Approvando nel 1964 la Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, il Concilio Vaticano II riaffermava così la pretesa del magistero di insegnare in materia di fede e di morale sempre e solo la verità, anche quando non parla «ex cathedra».

E nel 1990 la Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dal cardinale Ratzinger, ricordava che anche agli insegnamenti non definitivi del magistero si deve un’obbedienza di fede: “Quando il magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto “definitivo”, insegna una dottrina per aiutare a un’intelligenza più profonda della rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza […]. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede” (Istruzione Donum Veritatis, n. 23).

Prima di fare affermazioni tanto impegnative, la gerarchia ecclesiastica avrà certamente passato al microscopio, come la più elementare prudenza suggerisce, un insegnamento plurisecolare per assicurarsi di non essere mai caduta in errore, evitando così sorprese che la coprirebbero di ridicolo. Ma poiché la fiducia cieca non ha nulla a che fare con la fede, ho deciso di verificare con i miei occhi. Mi sono chiesto, anzitutto, se per salvarsi è proprio necessario essere cattolici: sono infatti nato in un Paese in cui si è naturaliter cattolici e io ci tengo alla mia salvezza, ma ci sono posizioni e atteggiamenti dell’istituzione ecclesiastica che mi lasciano perplesso se non sconcertato. Voglio vederci chiaro.

Sulla necessità di essere cattolici per salvarsi pare proprio che non ci piova: papi e concili si sono espressi in forma solenne e con ammirevole continuità. Basti ricordare le parole di Bonifacio VIII: “Noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo e affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Pontefice di Roma”(Bolla Unam sanctam, 1302). ‘Dichiariamo, stabiliamo, definiamo e affermiamo’: è la formula tipica delle definizioni dogmatiche!

E, se non bastasse, ci pensa il Concilio di Firenze a togliere ogni dubbio: “la sacrosanta chiesa romana […] crede fermamente, confessa e predica che nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica, non solo pagani, ma anche Giudei o eretici e scismatici, possano acquistar la vita eterna, ma che andranno nel fuoco eterno, preparato per il demonio e per i suoi angeli, se prima della fine della vita non saranno stati aggregati ad essa; e che è tanto importante l’unità del corpo della chiesa, che solo a quelli che rimangono in essa giovano per la salvezza i sacramenti ecclesiastici, i digiuni e le altre opere di pietà, e gli esercizi della milizia cristiana procurano i premi eterni. Nessuno per quante elemosine abbia potuto fare, e perfino se avesse versato il sangue per il nome di Cristo si può salvare, qualora non rimanga nel seno e nell’unità della chiesa cattolica” (Sessione XI, 1442).
Più che mai sono intenzionato a restare nel seno della chiesa cattolica: chi vorrebbe uscirne se a coloro che ne sono fuori per salvarsi non basta neanche versare il sangue per il nome di Cristo! E non si tratta certo di esagerazioni medievali, dal momento che ancora nel 1864 Pio IX condannava la tesi secondo la quale “Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza” (Sillabo, XVI).

Per scrupolo voglio però consultare pure documenti più recenti, anche se sono sicuro che non ci saranno sorprese. Comincio perciò a leggere la Costituzione del Vaticano II che ha come tema proprio la Chiesa, la Lumen Gentium, e… resto senza parole! Leggo, infatti, che “quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta” (n. 16).

Questa non la sapevo: non sapevo affatto che chi è fuori della Chiesa senza sua colpa si salva. Questa cosa, per la verità, non l’avevano detta né Bonifacio VIII né il Concilio di Firenze. Quelle dichiarazioni solenni, che più solenni non si può, non parlavano di condizioni soggettive, buona o cattiva fede, ma di condizioni oggettive: o sei dentro o sei fuori. E invece il Catechismo della Chiesa Cattolica, approvato definitivamente nel 1997 da Giovanni Paolo II, spiega che l’affermazione “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”, spesso ripetuta dai Padri della Chiesa e diventata poi dottrina ufficiale, vuol dire solo che “non potrebbero salvarsi quegli uomini, i quali, non ignorando che la Chiesa cattolica è stata da Dio per mezzo di Gesù Cristo fondata come necessaria, non avessero tuttavia voluto entrare in essa o in essa perseverare [846]. Questa affermazione non si riferisce a coloro che, senza loro colpa, ignorano Cristo e la Chiesa [847]”.

Insomma, non solo gli appartenenti alle altre confessioni cristiane, ma anche gli ebrei, i musulmani, i deisti, gli agnostici e persino gli atei possono salvarsi. Tutti, ma proprio tutti possono salvarsi anche senza versare il loro sangue, se seguono la loro coscienza e conducono una vita retta (esattamente il contrario di quanto pensava Gregorio XVI, che nella Mirari vos del 1832 negava che “si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto”), purché non rifiutino la Chiesa cattolica pur sapendo che è la vera chiesa di Cristo; il che è piuttosto improbabile, perché se uno è convinto che il cattolicesimo è la vera religione e tuttavia lo rifiuta più che un miscredente… è un matto!

A questo punto sono alquanto disorientato, perché non so se debbo credere al Concilio di Firenze o al Concilio Vaticano II: non posso credere ad entrambi perché dicono cose opposte. Comincio perciò, con una certa preoccupazione, a esaminare qualche altra affermazione del magistero che, ordinario o straordinario che sia, pretende sempre da me un’obbedienza di fede. Mi sono ricordato che da bambino credevo alle fate e alle streghe; da ragazzo, ovviamente, già non ci credevo più. Il magistero della Chiesa non avrà mai avallato, ne ero sicuro, simili favole.

E invece scopro che le cose non stanno così. Il papa Innocenzo VIII, per esempio, era talmente convinto dell’esistenza delle streghe da promulgare nel 1484 una bolla, la Summis desiderantes affectibus, per autorizzare due teologi domenicani a “punire, incarcerare e correggere” le persone, soprattutto donne, colpevoli di stregoneria. Approvati dal papa, qualche anno dopo i due inquisitori daranno alle stampe ‘Il martello delle streghe’, un manuale che, divenuto un best seller, sarà usato per oltre due secoli per scatenare una caccia alle streghe che ha provocato inenarrabili sofferenze. È vero, nel ’400 anche gli intellettuali più avvertiti credevano alle streghe, però non pretendevano di insegnare la verità senza errori, esigendo un’obbedienza di fede!

E al rogo non si mandavano solo le streghe ma anche gli eretici. Non mi è mai piaciuta l’idea di bruciare, magari vivo, qualcuno solo perché si allontana dagli insegnamenti della Chiesa, ma pensavo che si trattasse, come dire?, di errori pratici, di una prassi più volte ripetuta ma mai teorizzata, perché stando al vangelo bisognerebbe semmai discutere, correggere fraternamente, tutt’al più rompere i rapporti con l’eretico. E invece mi imbatto nella bolla Exsurge Domine con cui nel 1520 Leone X condanna, tra gli errori di Lutero giudicati “eretici, scandalosi, falsi, […] e in contraddizione con la fede cattolica”, anche la seguente tesi: “È contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati”.

Sono davvero incredulo, nel senso che non credo ai miei occhi: dobbiamo dunque immaginare che in paradiso lo Spirito Santo faccia festa ogni volta che viene bruciato un eretico? Festa annullata, allora, quando Galilei per salvare la pelle preferisce abiurare! Eh sì, perché ho scoperto che il grande scienziato, ormai settantenne, non viene accusato di avere sbagliato i suoi calcoli o di sostenere tesi incompatibili con l’esperienza ma di avere fatto affermazioni contrarie alla Sacra Scrittura. Nel 1633, quindi, per non essere condannato alla pena capitale dal Tribunale dell’Inquisizione, si umilia dichiarando: “sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova. Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedele Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie”.

Ora delle due l’una: o la teoria eliocentrica è davvero contraria alla Sacra Scrittura, e allora deve essere considerata eretica anche oggi, o non lo è, e allora il papa e i suoi inquisitori non sono in grado di stabilire se una tesi è in contrasto con la Sacra Scrittura. Se è buona la seconda, come è possibile pretendere da me un’obbedienza di fede? Ormai mi aspetto di tutto: e infatti le mie aspettative non vengono deluse.

Quando, nel corso della rivoluzione francese, l’Assemblea Nazionale proclama i principi di uguaglianza e libertà, Pio VI si schiera subito, come immaginavo, dalla parte sbagliata: “Ma quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi? […] Il nascere stesso che fa ciascun uomo al mondo prova ad evidenza essere vana e falsa quella così vantata eguaglianza fra gli uomini, e la libertà. State soggetti, dice l’Apostolo, ché questo è di necessità” (Quod aliquantum, 1791). Essendo l’uomo, infatti, creato per vivere in società, è necessario che egli “stia soggetto ai suoi maggiori, che lo possano regolare e ammaestrare, onde gli sia agevole il conformare il tenore della sua vita ai lumi della ragione, ai principi della natura e alle massime della Religione”(ivi). L’errore – errore, ormai ne sono convinto, in cui cade regolarmente il magistero – è quello di scambiare una situazione di fatto, la struttura gerarchica della vecchia società, con una situazione di diritto, fondata sulla natura e quindi immutabile: la storia è andata avanti proprio perché non ci si è lasciati impressionare dagli anatemi dei papi.

La libertà di coscienza, infatti, si è affermata nonostante la condanna di Gregorio XVI, che la giudica “assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio” (Mirari vos, 1832), e di Pio IX, che bolla come “sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime” l’opinione “dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, e cioè la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo, che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società” (Quanta cura, 1864). Io comincio a temere che a delirare siano proprio loro!

Continuando a documentarmi, vengo infatti a sapere che, mentre nel 1794 è decretata l’abolizione della schiavitù in Francia e nel 1863 la schiavitù viene abolita anche negli Stati Uniti, il nostro Pio IX, convinto della bontà di un’istituzione plurisecolare, ancora nel 1866 approva una Istruzione del Sant’Uffizio la quale ribadisce che “la schiavitù, di per sé, non ripugna affatto né al diritto naturale né al diritto divino [e che]… non ripugna al diritto naturale né al diritto divino che il servo sia venduto, comprato, donato”. E dire che ancora oggi il magistero ordinario pretende di essere il custode della legge naturale ed esige ‘un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza’!

Ormai nulla mi stupisce più. Né che, agli albori del pensiero democratico, il solito Pio IX si scagli contro “una piaga orrenda che affligge l’umana società, e che chiamasi suffragio universale. [… Piaga] che meriterebbe a giusto titolo di essere chiamata Menzogna universale” (Discorso ai pellegrini francesi, 5/5/1874), né che, quando le masse operaie cominciano a ribellarsi allo sfruttamento a cui sono soggette, Benedetto XV difenda l’ordine costituito affermando che quando i poveri “lottano coi facoltosi, quasi che questi si siano impadroniti d’una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la giustizia e la carità, ma anche la ragione, specialmente perché anch’essi, se volessero, potrebbero con lo sforzo di onorato lavoro riuscire a migliorare la propria condizione” (Ad beatissimi apostolorum principis, 1914).

Ho deciso: d’ora in poi stabilirò io, dopo adeguata informazione e attenta riflessione, cosa è vero e cosa è falso, cosa è bene e cosa è male. Del resto, non è la stessa Lumen Gentium che proclama che l’essenziale è condurre una vita retta seguendo il dettame della coscienza? Non mi sento più di obbedire in spirito di fede a insegnamenti che non mi sembrano ragionevoli e che per di più vanno cambiando nel tempo, anche, è la mia ultima scoperta, nel campo della morale sessuale.

Nel 1666 Alessandro VII condanna la seguente tesi: “è probabile l’opinione secondo la quale è un peccato soltanto veniale il bacio dato per il piacere dei sensi” (Denzinger, Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 1957). Baciare una persona cara per il semplice piacere di baciarla è dunque peccato non veniale ma mortale! Anche i papi sono uomini del loro tempo, si dirà, e l’importante è che oggi il magistero non parli più dei baci. Niente affatto: se la gerarchia ecclesiastica ha subito in passato i condizionamenti del tempo (rimanendo anzi piuttosto indietro), è ovvio che li può subire anche oggi, e quindi non mi sento vincolato dalle sue prese di posizione.

Nel 1975 la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede ribadisce la condanna dei rapporti prematrimoniali: “Molti oggi rivendicano il diritto all’unione sessuale prima del matrimonio […]. Questa opinione è in contrasto con la dottrina cristiana. secondo la quale ogni atto genitale umano deve svolgersi nel quadro del matrimonio”(Dichiarazione Persona Humana circa alcune questioni di etica sessuale, n. 7). Ma neanche di questo argomento si sente più parlare nelle frequenti esternazioni di Benedetto XVI, che invece richiama di continuo l’attenzione sul disordine dell’omosessualità.

Sempre la Congregazione per la Dottrina della Fede, questa volta presieduta dall’allora cardinale Ratzinger, aveva infatti spiegato che “la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l’inclinazione stessa dev’essere considerata come oggettivamente disordinata. Pertanto coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l’attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un’opzione moralmente accettabile” (Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1986).

A dire la verità, i miei due o tre amici gay mantengono le loro relazioni omosessuali e non si sentono affatto in colpa per le parole del papa: se oggi non si afferma più che baciare è peccato mortale e se vengono di fatto accettati i rapporti prematrimoniali, c’è da supporre, dicono, che prima o poi qualche sacerdote potrà addirittura sfilare al Gay pride. O almeno, nei confronti dell’omosessualità si assumerà un atteggiamento simile a quello che nel 1997 il Pontificio Consiglio per la Famiglia suggeriva riguardo ai coniugi che ricorrono agli anticoncezionali: “è preferibile lasciare i penitenti in buona fede in caso di errore dovuto ad ignoranza soggettivamente invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere nell’ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi passerebbe a peccare formalmente” (Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale).

Ecco, poiché è difficile immaginare che la castità possa essere la soluzione del problema, sarà meglio non insistere più nella condanna: i gay potranno peccare, solo materialmente e non formalmente, e finalmente potranno vivere in pace. Secondo me i miei amici fanno bene a non preoccuparsi per la loro salvezza. Sono infatti giunto alla conclusione che il messaggio di Gesù di Nazareth abbia poco a che fare con gli insegnamenti del magistero, che non di rado si fondano su idee e precetti della Scrittura che vengono presi per oro colato mentre sono soltanto espressione della cultura di un popolo in una fase piuttosto primitiva della sua storia (e quindi zavorra di cui liberarsi), o si basano su passi biblici di cui si dà un’interpretazione in seguito smentita da una corretta esegesi o non hanno alcun fondamento biblico.

Del resto, secondo il vangelo di Marco è Gesù stesso che invita a diffidare di quel ceto di esperti della religione che, per rafforzare la propria autorevolezza, ricorre persino all’uso di vesti appariscenti: “Guardatevi dagli scribi [custodi della legge divina], che amano passeggiare in lunghe vesti”(12, 38). A pensarci bene, ha ragione E. Drewermann, che così commenta il passo evangelico: “Gesù non credeva di dover mettere in guardia né dalle prostitute né dai guerriglieri, né dai peccatori pubblici e neppure dai cosiddetti elementi asociali; al contrario, tutte queste persone si avvicinavano volentieri a Gesù e diverse di loro divennero suoi discepoli. Gesù metteva in guardia, invece, dai predicatori patentati di Dio come dal diavolo in persona” (Il vangelo di Marco, Brescia 1999, pp 98-99).

Il guaio è che la sacra gerarchia non solo presume di possedere la verità ma vuole imporla per via legislativa – e almeno in Italia ci riesce – anche a coloro che la pensano diversamente e vorrebbero vivere a modo loro. Convinta che costoro siano nell’errore, ritiene ammissibile, quando non basta la persuasione, anche la coercizione. E lo fa per il loro bene: perché, come diceva Manzoni di donna Prassede, “si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza” (I Promessi sposi, capitolo XXVII).

Neanche l’attuale papa, quindi, rinuncerà alla richiesta di tradurre in legge quei principi che non sono negoziabili perché espressione della volontà divina: guerra al relativismo, e cioè al pluralismo delle culture; tutela della famiglia tradizionale, e cioè disconoscimento delle coppie di fatto; difesa della vita dal concepimento al termine naturale, e cioè negazione del diritto di disporre della propria vita; e pochi altri. Se ne può star sicuri, perché di lui si può affermare quello che lo stesso autore scriveva sempre di donna Prassede: di idee “ne aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care”(ivi, capitolo XXV); innegabilmente le sue intenzioni erano sempre le migliori, perché “tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello” (ivi).