Il mondo in rosa e celeste di C.Sciuto

Cinzia Sciuto
http://cinziasciuto.blogspot.it

La scuola comincia proprio in questi giorni e i bambini delle materne già dal loro primo giorno hanno imparato una lezione che segnerà per sempre il loro immaginario e sarà difficile da sradicare. Hanno imparato, senza bisogno di un maestro a indottrinarli, che nel mondo che li circonda, quello della scuola e degli altri bambini, corre una linea di divisione netta: di qua il celeste, di là il rosa.

Grembiulini a quadretti bianchi e celesti per lui, bianchi e rosa per lei. Maschi e femmine. Due mondi. Anche i bambini cresciuti in ambienti familiari molto attenti a non distinguere i giochi per femminucce da quelli per maschietti, in cui i bimbi giocano volentieri (perché ci giocano molto volentieri!) con bambole e passeggini e le bimbe con costruzioni e macchinine, in cui mamma e papà sono pressocché intercambiabili nella gestione familiare, devono fare i conti con quella distinzione netta, senza appello e senza scelta: “Vorrei un grembiulino per la scuola materna”, “Maschio o femmina?”. Il primo piccolo passo nel mondo degli adulti.

Da questo momento in poi sarà molto difficile spiegare a un bambino che la gamma di colori che va dal rosa al viola non è necessariamente “roba da femmine” e a una bambina che può tranquillamente andare in giro con un zainetto blu perché non è per forza da maschietti. In questo contesto, crescere i figli immuni dal virus del sessismo non è facile.

Ma come è possibile che nel 2012 la scuola non riesce ancora a fare i conti la complessa e variopinta identità dei bambini? Che sono, è vero, maschi e femmine, ma sono anche tante altre cose e impostare la loro convivenza a scuola fissando in maniera inequivocabile e costantemente sotto gli occhi chi sta di qua e chi di là, chi è “come me” e chi è “diverso da me”, non mi pare un’ottima premessa per una crescita equilibrata e improntata all’inclusione e al rispetto.

Perché, se è vero che le dinamiche di gruppo sono ineliminabili in ogni contesto sociale, creare a priori delle “squadre”, quella rosa e quella celeste, non facilita certo lo scambio, l’inclusione e il rispetto fra i due generi. Perché – per esempio – non decidere i colori dei grembiuli (se proprio li vogliamo tenere ‘sti grembiuli!) in base all’appartenza della classe? La classe gialla, la classe rossa, la classe verde e magari anche la classe celeste e la classe rosa. Sarebbe pure un grande vantaggio per gli insegnanti per riconoscere a colpo d’occhio i propri alunni.

Se cominciamo così, fin dai 3 anni, non possiamo poi sorprenderci tanto se un bullo adolescente non trova offesa migliore per un compagno che lui giudica un po’ “diverso” che dargli del “femminuccia”: se abbiamo creato un mondo dove c’è solo il bianco e il nero, sarà difficile per questi ragazzi accogliere e rispettare le infinite sfumature di grigio.

Moglie e madre: piuttosto che niente è meglio piuttosto? di N.Pirotta

Nicoletta Pirotta
IFE (Iniziativa Femminista Europea)

Qualche giorno fa l’ISTAT ci ricordava che il 48% delle giovani donne nel Sud Italia è disoccupata. Praticamente una su due. La crisi economica e la precarietà del lavoro (che è bene ricordarlo non è caduta dal cielo ma è il frutto malato di scelte legislative perverse che vengono da lontano, a partire dalla legge 30 del 2003, conosciuta come Legge Biagi) colpiscono donne ed uomini ovunque però in particolare le donne giovani al Sud d’Italia.

Questo dato che giudico molto preoccupante non gode a mio avviso della dovuta attenzione forse perché nel nostro Paese è ancora fortemente radicato il retro pensiero che in fondo le donne hanno già un lavoro sicuro: quello casalingo.

Alcune riflessioni sul problema (fra le quali anche quelle che abbiamo condiviso come IFE Italia) hanno indicato un elemento di preoccupazione, se non una tendenza vera e propria, che induce a tenere gli occhi ben aperti.

Mi riferisco al fatto che le giovani donne, anche con un’istruzione universitaria, in assenza di un lavoro stabile che consenta di ottenere un salario dignitoso insieme al riconoscimento di un ruolo sociale potrebbero considerare possibile o peggio auspicabile il ritorno al lavoro casalingo nei ruoli, quelli si riconosciuti se non addirittura santificati, di moglie e madre.

Va in questa direzione anche la notizia che parroco di Gragnano in provincia di Napoli, attraverso l’Arciconfraternita gragnanese, ripristina l’antica usanza del maritaggio cioè l’assegnazione di un contributo in denaro, tramite estrazione a sorte, a giovani donne che aspirano a sposarsi in chiesa ma non ne hanno la possibilità economica.
Ricordo che lo scorso aprile una parrocchia del Veneto aveva fatto più o meno la stessa cosa relativamente in questo caso al mettere in mondo un figlio.

Sono piccoli esempi che però possono costituire modelli di comportamento. So bene che le donne, anche quelle giovani, hanno introiettato, grazie al femminismo, il valore dell’autodeterminazione economica tanto che come rivelano recentissime indagini ( cfr. Marco Centra, dell’Isfol , relazione presentata agli Stati Generali sul lavoro delle donne in Italia organizzato lo scorso febbraio dal CNEL) anche fra le donne “inattive”, cioè chi ha smesso di cercare un lavoro, la maggior parte si dice disponibile a lavorare se il lavoro ci fosse.

So altrettanto bene che la volontà di autodeterminarsi non è sufficiente in presenza di dinamiche sociali contrarie che incidono sulla materialità delle vita di ciascuna ed investono anche l’immaginario ed il simbolico. Le iniziative dei parroci, benchè legittime e coerenti, non sono solo casuali o dettati da spirito caritatevole.

E allora la domanda che pongo e mi pongo è la seguente: non è tempo che il femminismo , in una dimensione collettiva, sappia cogliere la sfida indicando, per uscire dalla crisi, vie alternative rispetto a quelle che sembrano essere le uniche possibili?