Tra libertà e responsabilità

Barbara Spinelli
Repubblica | 14.09.2012

Ancora una volta, come l’11 settembre 2001, il volto stupefatto dell’America s’è accampato
davanti ai nostri occhi. L’ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary
Clinton non si capacitava.

“Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a
liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?” Dall’attentato alle Torri sono
passati undici anni, e l’angoscia resta muta, quasi l’occhio non vedesse che orrore e buio.
Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary
Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l’attonimento iniziale è significativo. L’occidente
lancia al mondo la sua domanda – Perché non ci amate? – e mai fornisce una risposta, mai lo
sguardo smette d’appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C’è il
rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C’è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi
l’artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia.

Il dilemma è comprensibile: se fai “parlare” il male, gli dai diritto di parola e di esistenza.
Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo
vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l’uccisione di Bin
Laden si voleva punire l’America, nell’anniversario dell’11 settembre, e scommettere sul peggio: la
disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt’altra cosa che giustificare, e non è nemmeno
restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena
riflettere, in questi giorni d’ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il
reverendo che invoca i roghi del Corano: “Il nemico è la forma che assume la nostra questione”.
Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la “questione su chi siamo”.

Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di
piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che
abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti
nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti – a loro modo giusti – delle malvagie politiche
attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non
ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche
risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle
nostre illusioni, sulla “nostra questione”.

La nostra questione è la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video
diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in
Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in
Francia (Langue fantôme – Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome
sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si
chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione.

È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un
Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase “Disapprovo quel che dite, ma lotterò
fino alla morte perché possiate dirlo”). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori
che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una “verità, anche
se triviale”. Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana.

La libertà d’opinione professata in democrazia diventa una questione nostra – interpella innanzitutto
noi occidentali, dice qualcosa su di noi – quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle
conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria
responsabilità. Quest’ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili dellecostituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o
filmiamo non è egualmente protetta. È l’uomo pensante che mette insieme quel che l’istinto bruto
disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non
sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo
comunque, con o senza reciprocità.

Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e
delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant’altro?
Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell’intellettuale e del
politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l’etica delle convinzioni e quella della
responsabilità, senza far prevalere l’una sull’altra e sapendo che l’equilibrio fra le due è fragile e
sempre scabroso.

La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta
spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la
purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene
da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene
una riflessione sull’attentato di Breivik nell’isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti,
più otto uccisi a Oslo).

La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è “il segno disperato, e disperante, del fatto che
l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello
spirituale a vantaggio del denaro”. I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano
un’Europa “uscita dalla Storia”, perché islamizzata e contrassegnata dalla “conversione
dell’individuo in piccolo-borghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico – ossia la
tipologia delle persone uccise da Breivik”.

Contrariamente a Millet, non credo che l’eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono
affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo “Elogio
letterario di Anders Breivik”, apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l’autore dà il nome di
nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che
è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella
riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya? Perché non hanno
escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai
sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questo è quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella.

Ecco un’altra questione nostra. Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani.
Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un’esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.